Ci trovavamo dietro quel cancello senza sapere come ci fossimo arrivati, ma sapevamo di dover aspettare; poi, non avremmo potuto farne a meno perché qualcosa ci diceva che stavamo per scoprire un segreto. È strano come a volte, in certi fine settimana invernali – di sera precoce e vicoli oscuri, di pioggia sottile e vapori vespertini – ci si ritrovi a vagare per quartieri sconosciuti senza una mèta, ragionando di argomenti filosofici con le mani in tasca. Io e il mio amico eravamo giunti davanti al cancello della biblioteca comunale di Laudomia, poco prima dell’insolito orario di apertura. Certo, volevamo un rifugio dal freddo e dalla pioggia, ma c’era qualcosa di più che ci portava là dentro. Intanto aspettavamo.
Una figura alta ed intabarrata, vestita di nero, arrivò
senza fretta ed aprì il cancello. Lo seguimmo silenziosamente, attraversando il
giardino umido e malinconico che circondava l’edificio, e ci ritrovammo davanti
al portone. Il nostro sguardo cadde su un foglio affisso all’ingresso. Quel
foglio riportava una comunicazione insolita: la biblioteca sarebbe rimasta
aperta tutta la notte; oltre a ciò era strano anche il modo in cui la notizia era stata scritta, senza dare una spiegazione
logica a questo avvenimento, che, in questo modo, acquistava un sapore magico.
Io e il mio amico ci guardammo e non ci fu bisogno di parole: avevamo discusso fino ad allora riguardo a storie inventate, conclusioni apparentemente folli che poi si erano verificate nella realtà, e forse nell’inconscio di ambedue qualcosa ci suggeriva che, in quella stanza, saremmo andati incontro a qualcosa di surreale.
Entrammo nella biblioteca e, appena richiusa la porta alle nostre spalle, sentimmo che era vero: eravamo immersi in milioni di storie, noi e i grandi volumi che si susseguivano, alla stessa altezza, appoggiandosi bene ognuno al proprio vicino, come solidali protagonisti dello stesso viaggio. Fummo colpiti da quel gruppo di libri, posti in alto, vicino alla finestra; il riverbero del sole era forte sulla loro copertina che comunque si intuiva essere di colore rosso scuro.
Non facemmo molto caso al fatto che, quando eravamo entrati, il cielo era coperto e cominciava già ad imbrunire. Cominciavamo ad accettare come naturali molte stranezze, così come si accettano nei sogni, anche se eravamo sicuri di non sognare.
Quel fascio di luce, che si concentrava su preciso volume, sembrava proprio un riflettore puntato verso il protagonista di un atto teatrale. Ci sembrò naturale e logico chiederlo in lettura alla tetra figura del bibliotecario, il quale ci guardò con un sorriso di sfinge.
Era un pesante volume stampato a
Laudomia nel 1885; una raccolta di racconti di un anonimo del
XIX secolo. Il primo racconto della raccolta si intitolava
“Il cancello” ed era molto breve. Anzi, mi correggo, si interrompeva
dopo soltanto una pagina! Ma il fatto curioso era
questo: vi erano molte altre pagine in bianco, che seguivano questa, con la
numerazione stampata regolarmente in basso; era come se chiedessero la
continuazione della storia, oppure come se le parole fossero state cancellate!
Intanto, mi precipitai a leggere il contenuto della sola pagina scritta. Iniziava così:
“La donna era fuggita il prima
possibile; l’atmosfera in quella casa era diventata insopportabile, aveva troppe
idee per rimanere confinata in quel luogo, aveva grandi progetti sui quali
rifletteva mentre aspettava la sua carrozza; d’un tratto il riverbero del sole,
la spinse a voltare la testa di lato e mentre istintivamente si riparava dietro
l’ombrellino, chiuse gli occhi e in un attimo ebbe una strana sensazione
visiva: che quei raggi si riverberassero contemporaneamente anche su un libro
con una copertina rossa, posto su un qualche scaffale…”
Il racconto continuava per un’altra mezza pagina circa, interrompendosi con la frase: “si domandò cosa ci fosse dietro il cancello”. Questi due accenni, al libro e al cancello, catturarono la mia attenzione. Con un’occhiata significativa capii che avevano catturato anche quella del mio amico e che avevamo pensato contemporaneamente alla stessa cosa.
Da tempo progettavamo di scrivere qualcosa insieme. Una storia misteriosa sull’ambiguità che si cela dietro gli oggetti quotidiani. Il caso ci aveva guidato verso una biblioteca dove continuavano a ricorrere, in contesti diversi, due oggetti precisi, entrambi carichi di significati simbolici come i tarocchi e le comuni carte da gioco. Il libro e il cancello. La conoscenza e il suo limite.
Non saprei dire se l’idea venne prima a me o a lui, oppure ad entrambi insieme; potevamo scrivere la recensione di un film inesistente, inventato da noi, prendendo spunto dalla storia narrata in quel libro, continuandola, coltivandola, facendola crescere. L’autore sembrava aver delegato a noi lettori questo compito.
Per fortuna, porto sempre con me
un taccuino con la penna, in una tasca; quindi, senza parlare, potei iniziare a
scrivere alcune frasi che mi si presentarono subito, nella mente.
Iniziai:
“In un luogo lontano da quello in cui era la donna, molti anni dopo, si trovava un uomo che era insoddisfatto del suo lavoro: tutte le attività che aveva svolto gli risultavano ripetitive, noiose, quasi alienanti, prive di creatività; quel giorno, senza pensare all’impegno del momento oppure a che ora fosse, prese la macchina e partì; non aveva una mèta precisa, a un certo punto, proprio quando aveva cominciato a correre e a sentirsi libero, si voltò a guardare l’entrata di una villa sul mare; il cancello era molto lucente e grande, ma d’un tratto l’immagine si confuse con quella di un altro cancello, più piccolo e situato in un posto più appartato, non sul mare; fu solo un attimo, poi riprese a viaggiare a tutta velocità. Varie volte, in quel giorno gli tornò in mente quell’immagine, che aveva stranamente visto mentre in realtà non c’era; era proprio come se gli fosse apparsa e, forse per questo, gli venne spontaneo chiedersi cosa ci fosse dietro quel cancello.”
Scrivemmo insieme il seguito della storia, sotto forma di racconto, e poi scrivemmo una recensione al nostro film immaginario. Scrivevo sul mio taccuino ad una velocità incredibile, mentre le idee fluivano come una cascata dai nostri cervelli in piena attività creativa. Scrivemmo tutto in quella biblioteca, non saprei quantificare in quanto tempo. Era tutto così irreale…
Il nostro protagonista scopriva un mondo alieno dietro a quel cancello, in un sogno ricorrente che faceva spesso. Un mondo con strani colori e strane forme, anche se molto simile al nostro mondo. Nel sogno rimaneva sempre al di qua del cancello, osservando quel nuovo mondo misterioso dalla sommità, su cui si era arrampicato, senza trovare il coraggio di andare al di là. Questa ossessione faceva impazzire il protagonista, il quale non riusciva più a distinguere tra i propri sogni e la realtà.
Alla fine era pronto un racconto di una dozzina di pagine ed una breve recensione di tre pagine e mezzo. Rileggendo il nostro lavoro frenetico, mi accorsi con stupore che quella che stavo scrivendo era la mia storia che si fondeva con un sogno o una fantasia del passato. Ne avevo parlato una volta al mio amico.
Uscimmo dalla biblioteca che era ormai notte fonda. Lo sguardo enigmatico del bibliotecario ci seguì fino al portone. Fuori faceva freddo, ma non pioveva più. Camminammo insieme senza decidersi a salutarci per tornare ognuno a casa propria. Era come se qualcosa guidasse i nostri passi tra le anguste stradine del centro, ormai deserte a quell’ora. Arrivammo infine in un luogo che ci sembrò familiare, anche se eravamo sicuri di non aver mai attraversato prima quel rione.
Davanti a noi c’era un lungo muro che recintava un giardino. Dalla sommità del muro spuntavano alti palmizi. Il muro correva per un buon tratto di strada e s’interrompeva solo molte decine di metri più in là con un cancello.
Un cancello che assomigliava moltissimo a quello che immaginavamo per il nostro racconto. È vero che i cancelli si assomigliano un po’ tutti, ma quello ci comunicava una strana sensazione non spiegabile razionalmente. Anche noi ci domandammo cosa c’era dietro a quel cancello.
Una specie di premonizione ci colse mentre ci arrampicavamo sulle sbarre del cancello per guardare al di là. Con stupore crescente vedemmo un cinema all’aperto in cui, davanti ad un pubblico composto da due soli spettatori, veniva proiettato un film in bianco e nero. Le due sagome degli spettatori, viste da dietro, avevano, per noi, qualcosa di familiare.
Il film era appena all’inizio: in quel momento stavano scorrendo i titoli di testa.
Iniziò il film; le immagini erano particolarissime, per due motivi: i colori erano molto vivi e mostravano contemporaneamente storie diverse, ambientate in epoche diverse, ma in tutte il protagonista prima o poi doveva recarsi dietro un cancello, era fortemente spinto a farlo; sulla sinistra dello schermo, nel filmato, si vedeva una donna vestita con abiti ottocenteschi che si riparava dal sole con un ombrellino e, sulla destra, un uomo correre, a tutta velocità, in macchina, su una strada che costeggiava il mare, vicino al quale si trovava una grande villa; ci bastò questo per capire; d’un tratto, uno dei due spettatori si alzò appena dalla sedia, rimanendo a gambe flesse, uno di quei gesti che si fanno per spostare lievemente la sedia in avanti o indietro e aggiustare la propria posizione; in quel mentre girò anche un pochino la testa verso destra: ero io! Riconobbi il mio profilo!
Il mio amico si accorse del mio sgomento, per un attimo avemmo la tentazione di fuggire, ma fu più forte quella di sapere cosa sarebbe successo in futuro, per noi due e così, senza fiatare, rimanemmo a guardare; il film continuò come la trama che avevamo ideato, capii in quel momento anche il perché avevamo scritto quel racconto così di getto, quasi fossimo guidati da qualcosa: tutto ciò era già avvenuto! L’immagine si fermò sull’uomo che non poteva andare al di là del cancello, che non avrebbe mai potuto afferrare le sue fantasie, e poi, così come avevamo scritto, si confuse con quella della donna vissuta nell’ottocento mentre questa cadeva piangente, in ginocchio davanti al cancello chiuso, oltrepassato il quale, sapeva di trovare quel libro estremamente importante per lei e con quella dell’automobilista, che, dopo essersi allontanato tantissimo nella sua corsa, tornò indietro a cercare quel cancello che non poteva togliersi dalla mente senza trovarlo più; in fine, veniva inquadrato, in primo piano, il cancello chiuso; era così che avevamo concluso il racconto, ma perché il film non finiva?
D’un tratto l’immagine si allontanò e il cancello si fece sempre più piccolo finché vennero inquadrate due persone che si trovavano ad osservare questa scena dietro un altro cancello, riconoscemmo il muro con i palmizi! La scena andava ancora avanti, quando la pellicola si interruppe improvvisamente; i due spettatori, molto silenziosamente, si alzarono senza voltarsi e uno disse all’altro: “Tanto conosciamo già la fine..”, e si allontanarono; bastò che ci guardassimo un istante io e il mio amico per capirci: gli spettatori eravamo noi due e il film era andato più avanti del nostro presente! Noi dovevamo raggiungere i due “noi stessi”, nel futuro, per sapere….! Dovevamo, sì; ma come facemmo per aprire non ci riuscì! Eravamo rimasti vittime, anche noi, del nostro cancello.