NAPOLI 1849

 

 

Racconto lungo

di Giuseppe Costantino Budetta

 

 

Don Pasquale, guardiano capo del cimitero di Poggioreale s’era impensierito e non di poco. Il primo avvistamento lo aveva fatto in verità don Gerardo becchino scavatore, quello per intenderci che scava i fossi in cui calarci bare. Don Gerardo scavatore gli aveva riferito di buchi strani fatti in terra al centro di alcune tombe. Sembravano eseguiti più da un roditore che veri buchi effettuati da una persona che so io – un tombarolo o ladri di tombe antiche e meno antiche – per ricavarci anticaglie o monili d’oro giustapposti nelle tombe in accompagnamento al morto. Don Pasquale non si era impensierito più di tanto, poi però questi buchi in terra cominciarono ad essere piuttosto numerosi. Molti erano nascosti da lembi di terreno, ma don Gennaro esperto scavatore, conoscitore di terree fessure, anfratti e incavi sia pur minuscoli,  grattando un po’ la superficie e soffiandoci sopra, metteva in bella mostra l’imbocco circolare della buca. Don Gerardo aveva preso uno spago a piombo come quelli dei muratori e calandolo in alcune buche, aveva visto che si allungavano nelle viscere della terra – meglio dire nelle viscere dei morti – per due, tre o addirittura dieci metri.

“Ma chi cazzo viene a fare queste cose ai morti? Figli di zoccola, se li vedo li struppejo.”

Don Pasquale chiamato in causa aveva detto la sua:

“Ho il sospetto che c’è una banda in giro che viene qui di notte a eseguire rilievi poco chiari. Chissà che hanno in mente di fare. Forse hanno capito che c’è qualche tomba illustre di un morto interrato tempo fa con gioielli e monili di grande valore. Io a scanso di equivoci chiamo la polizia e vedranno loro cosa fare.”

Don Pasquale ricordava bene i misfatti di anni addietro quando stava per rischiare il posto in seguito a furti di antiche statue tombali accaduti si può dire quasi sotto il proprio naso adunco.

 

 

   Il commissario capo Gioia ricevute più telefonate da don Pasquale guardiano capo del cimitero di Poggioreale, alle prime aveva risposto male. Si decise alfine per un sopralluogo. Aveva detto al sottoposto:  “Carminie’ fa venire la volante e aspettatemi io vengo subito. Stamattina andiamo a Poggioreale.”

   “Dove? Mica al cimitero?”

   “Sì, proprio lì. Dobbiamo fare presto se no perdiamo tutta la mattinata in sciocchezze.”

   Il sottoposto sott’ufficiale alle parole Poggioreale e cimitero si era grattato con riverenza senza darlo a vedere al superiore che comunque lo aveva visto mettersi la mano ai coglioni per scaramanzia. In macchina il commissario Gioia essendo un po’ scocciato, si era sfogato un po’:

“Con tanti morti ammazzati dai camorristi, ci tocca andare al cimitero a controllare le buche sul terreno. Se sono stronzate gliela faccio pagare cara. Questo don Pasquale che si definisce o’ capo del cimitero lo metto in galera per un po’ così non rompe. Cose da pazzi! Andare a vedere i buchi del cimitero.”

   L’autista della volante aveva obiettato al commissario:

   “Commissario, ma perché non chiamano gli esperti del comune, che so’ io, qualche geometra o geologo?”

   “Dicono che il geologo del comune ha eseguito i dovuti rilievi tecnici ed ha concluso che è roba nostra. Che dobbiamo indagare noi perché forse si tratta di sondaggi effettuati da qualche banda di ladri.”

   “Allora questo don Pasquale non ha torto.”

   “Andiamo a vedere. Però se è come dico io, stamattina mi arrabbio. Stamattina mando a quel paese don Pasquale così non mi rompe più con le sue telefonate del cazzo.”

 

   Gioia commissario capo seguito dal sottoposto poliziotto, da don Pasquale serio e da don Gerardo il capo degli scavatori cimiteriali aveva rilevato con perplessità la presenza di quelle buche sprofondanti sulle tombe. Dette buche avevano un diametro di cinque centimetri esatti – millimetro meno, millimetro in più - e sembravano davvero eseguite appositamente per dei sondaggi. Però testimoni in giro non ce n’erano. Nessuno dei guardiani aveva notato l’entrata di persone sospette, di giovani con attrezzi in mano o altro. Se c’era una banda in giro che entrava di notte in cimitero, doveva essere ben organizzata e accorta.  

   Gioia commissario capo aveva riferito la cosa al GIP che indaffarato in tante cose giustamente propose al commissario:   “Dottore, interpelli quelli della Scientifica e mi riferisca.”

   La Scientifica interpellata, per la precisione nella figura del dott. Capestro, emise queste conclusioni: le buche nel terreno potrebbero servire per l’impianto di antenne speciali. Se è così, basta poco tempo perché una persona entri di soppiatto in cimitero la notte, pianti in un determinato posto una sonda nel terreno e rilevi gli impulsi elettrici a distanza, standosene comodamente seduta davanti al monitor di un computer. Se all’estremità della sonda ficcata nel terreno c’è una micro camera, il presunto trasgressore può rilevare le immagini dall’interno di cavità tombali. La conclusione del commissario riferita ai tombaroli fu:

“ Figli di zoccola usciti da una chiavica. Se vi piglio ve la faccio pagare cara. I morti si rispettano, non si toccano.” 

   Incuriosito più di tanto, il commissario capo si decise per qualche notte di fare i sopralluoghi in cimitero. Si era fatto accompagnare dalla volante alla guida della quale ci fu il sottoposto sotto ufficiale Calogero Ciro, detto Ciruzziello. Il capo commissario Gioia diretto a Poggioreale alle due di notte aveva confidato al sottoposto al volante della volante:

   “Ciruzziè, sai che ti dico? A me questo tipo di appostamento notturno e solitario, mi piace tutto sommato. Mi scelgo un posto appartato, ho la scorta delle sigarette e del caffé e me ne sto’ lì tra veglia e sonno a riflettere su tante cose.”

   “Commissà, ma non in un cimitero, eh….scusate. magari uno può stare appostato ad un tavolino di un bar, questo sì, ma non dentro un posto pieno di morti dove c’è l’odore dell’aldilà.”

   “Sì, è come dici tu, ma d’estate starsene per una notte a fare la posta in un grosso cimitero tutto sommato è bello. Non fa freddo e c’è una pace totale.” 

   “Commissà, se stanotte vedete di soppiatto un morto, fatevi dare qualche numero che me lo gioco al lotto.”

 

 Si mise appostato al retro di una cappella ottagonale sopraelevata con molti gradini alla base. Di lì poteva fumarsi una sigaretta, bere del caffé dal termos e controllare la situazione dall’alto. Stava in comunicazione tramite la rice con la volante appostata dietro un angolo non tanto distante dalle mura perimetrali cimiteriali, dalle parti dove girano i tram nello slargo per ritornare indietro.

 

   Il cielo notturno aveva disteso vaste ombre oltrepassanti la cimiteriale muraglia sparse sulla città finalmente priva di rumori. Oltre la muraglia nei quartieri periferici della galassia di case, probabilmente la notte era compatta, stagnante con strade taciturne e segrete.

 

   Verso le due e le tre di quelle notte estiva, alla ventunesima sigaretta e al quinto bicchierino usa e getta di caffé, vide verso il basso il lume di una pila. La pila trafiggeva antiche tenebre e la profonda fissità del posto adusto. Il commissario Gioia dunque si allertò. Piegato in aventi più che poté, seguì l’itinerario della luce aliena diretta come a seguitare precisa mappa, verso destra decussando in direzione del muricino.  Il commissario da una lapide all’altra sgattaiolando, si avvicinò alla luminescente fonte. C’era luna piena a capolino tra cipressi fermi per cui il commissario  poté vedere due baldi giovani, un ragazzo ed una ragazza dirigersi verso il cumulo di una tomba disposta sulla terra. A ben guardare, i due tombaroli erano sulla ventina ciascuno, forse massimo ventiquattro anni lui e un po’ meno la ragazza. Avevano entrambi i pantaloni, ma lei i capelli a coda lunga di cavallo e zizze anche se nell’ombra, toste. Il ragazzo tenne la pila su un foglio facendo luce. Sembrava volesse guardare una precisa mappa. Diede poi il foglio alla ragazza e prese una specie di lunga lancia che ficcò deciso in terra. Constatata bene la penetrazione della sonda, i due salirono su apposita scala scavalcando l’alta muraglia e scendendo con una fune o una scala all’altro lato giustapposta. Il commissario si affrettò a salire pure lui dopo che i due furono scomparsi dall’altro lato. Sul ciglio del muro in bilico, il commissario vide che salivano su una moto di grossa cilindrata, che sotto il lunare alone appariva essere una Guzzi. Si affrettò a chiamare il sottoposto con la rice: “Ciruzziè, scetate. Mettiti con la macchina di traverso alla via che costeggia sulla sinistra il cimitero. Se fai subito li prendiamo. Sono su una grossa moto.”

   Il sottoposto svegliato di botto, accese il motore e più presto che poté, andò a chiudere la fuga alla grossa moto. Imprecò perché se la vide sgusciare davanti al naso, ma prese per fortuna un paio di numeri di targa e cioè: NA 76….

   Il commissario arrivò subito dopo ansimando e disse:

   Ciruzziè, era quasi impossibile bloccarli. Erano troppo veloci con quella moto. Comunque ci abbiamo provato.”

   “Commissà non ce ne andiamo a mani vuote. Ho preso parte del numero di targa, eccolo qua: NA 76…quasi quasi me lo gioca sulla ruota di Napoli.”

   Ciruzzié, e potevi sforzarti a prendere l’intero numero.”

   “Commissà, non ce l’ho fatta. La moto mi è sfrecciata davanti al naso come un missile.”

 

   Il giorno dopo incuriosito, il commissario andò da solo al cimitero a prelevare la stecca infissa nella tomba sita quasi sotto il muro verso l’ala sinistra del cimitero a trecento metri circa dall’entrata principale. Vide che era una sonda con una specie di antennina ad una estremità, mentre l’altra aveva un monocolo che veniva infisso nel terreno sacramentato. Si portò l’asta in macchina badando di non farsi scorgere dai guardiani e se ne andò per i fatti suoi. Fece da solo rilievi al computer sulla presunta targa della Guzzi e risalì al proprietario, un certo Cartuccia Ernesto, abitante nel Rione Sanità numero cinque, quartiere Stella. Il commissario disse tra se e se: Cartuccia, il cognome la dice lunga. Decise di farsi vedere da quelle parti la mattina stessa, fine luglio di quest’anno. L’abitazione in questione era a piano terra di uno stabile vecchio di oltre il secolo facente angolo con il vico Madonnelle. 

   Ad aprirgli fu la ragazza, o quella che lui pensò di aver scorto quella notte in cimitero. Stessa altezza corporale e stessa morfologia delle zizze. Non aveva scorto bene il culo quella notte, ma a cominciare dalla coda di cavallo dei capelli, ai fianchi snelli e alle sopraddette zizze, non c’erano dubbi: doveva essere lei. Disse il commissario risoluto come al solito:

   “Signorina, noi ci siamo già visti.”

   “Non ricordo. Dove? Lei chi è?”

   “Sono il commissario Gioia della polizia giudiziaria, quartiere Poggioreale. E’ lei la signorina Rosa Palombo? ”

   La ragazza sembrò capire, si sbiancò in faccia e retrocesse facendolo entrare. Era una casa piccolina con due camere e cucina, oltre al cesso ed all’androne breve. Si accomodò su un divano vecchio. La ragazza disse: “Commissario, le preparo il caffé.”

    Recuperata la calma del momento, il commissario disse:

   “Allora lei non capisce. Io sto qui per arrestarla. Dov’è il suo amico? Bada – passava dal lei al voi e al tu a piacere con gl’indiziati -  non mentire, non farmi arrabbiare. Di lei signorina, ho con me un dossier che parla di alcuni precedenti sulla sua vita privata non propri brillanti, come quando abitava in Via Consalvo presso una che di professione faceva la camiciaia a ore….”

   “Capisco. Ma non sono come lei pensa…”

   “Una volta lo era, adesso non so che lavoro faccia.”

   “Sono una studentessa universitaria…”

   “Cosa ci facevate l’altra sera in cimitero?” 

   La ragazza restò ferma quasi senza respirare. Sembrò una statua. Il commissario pensò: una bella statua, peccato che è stronza. Disse lei dopo un po’: “Chiamo Ernesto.”

E gridò:  “Ernesto, vieni qua.”

   Ernesto uscì dall’altra stanza impensierito e lo fu di più guardando la faccia della ragazza. Il commissario riattaccò con dovuta calma:  “State calmi e ditemi tutto. Avete capito? Tutto.”

   Il ragazzo capì a volo e disse:

  “Non siamo delinquenti e non camorristi. Siamo incensurati e studenti d’ingegneria elettronica…controlli pure”

   “Sì vabbé. Ma perché andarvene per cimiteri a fare buche? Non siete mica scemi?”

   “L’asta che avete infisso in quella tomba ieri sera ce l’ho io e la tengo come corpo del reato.”

   “Se vuole capire il tutto, venga qui stasera, facciamo verso le dieci e passa. Le daremo le dovute spiegazioni.”

   “Stasera? Va bene ci sto’. Però badate, se scappate, vi rovinerete perché sarete ricercati anche dai servizi segreti e con l’aria di antiterrorismo che spira in giro, vi prenderanno e rimarrete in carcere per il resto della vita.”

   Ernesto disse: “Commissario, non scapperemo, glielo assicuro. Ecco vede, questi sono i nostri libretti universitari. Abbiamo quasi tutti trenta e trenta e lode.”

   Il commissario si rassicurò. Tutto sommato poteva dargli fiducia. Sembravano tutto sommato molto impacciati. Camorristi e similari non si comportano in quel modo, sono decisi e scaltri. Poi c’era un’altra cosa. Le zizze della ragazza intraviste al cimitero gli avevano fatto una buona impressione confermata adesso che la rivedeva sotto diversa luce, quella solare. Disse  ai due:

   “Allora ci vediamo stasera verso le ventidue. Volete che porti anche delle pizze ed un paio di birre?”

Rosa Palombo disse tra il serio, il faceto e quasi timida: “Le birre grosse, possibilmente fredde.”

 “Le porterò gelate. Se mi farete brutti scherzi, sarete voi come le birre.”

  La ragazza gli disse ancora a volo:

“Commissario, sii buono deve rimpiazzare la mazza che ha asportato in cimitero nello stesso posto da dove l’ha prelevata. Se non lo fa, l’esperimento non riesce.”

   “Sapete che vi dico? Mi siete simpatici. Se non lo foste vi avrei sbattuto già in galera. M’incuriosisce il fatto…ci vediamo stasera con le birre e tutto il resto. Ciao, ciao.”

   La ragazza lo richiamò:  “Commissario sii buono, un’altra cosa: le pizze.”

   “Cosa le pizze, volete altro?”

   “A me e al mio ragazzo piacciono le pizze alla marinara, con molto origano ed olio.”

 

   Il commissario dovette pregare il custode ad aprire il cimitero il pomeriggio con quel caldo e con la città semivuota per le ferie. Scocciato il guardiano aveva detto:

“Commissà, di questi tempi sono io l’unico che non va in ferie qui. Il cancello di questi tempi sta sempre aperto. Sapete, per evitare scocciature di donne sole vedove che portano di continuo fiori sulle tombe dei mariti.”

   Il commissario lo salutò e aspettò che il custode si allontanasse per i fatti suoi in modo da non insospettirlo. Dopo un po’ entrò con l’aggeggio in mano da infiggere per terra verosimilmente sulla tomba di un defunto. Si guardò attorno e vide che non c’era nessuno nei paraggi. Si diresse nello stesso posto della notte e di soppiatto piantò l’asta in terra nello stesso buco fatto la notte prima da quei due. Disse di soppiatto: “Se quei due mi giocano un brutto tiro gli darò la caccia per dovunque. Speriamo bene.”

 

   La sera alle dieci e trenta circa il commissario Gioia, bell’uomo sulla quarantina, si presentò di faccia alla porta dei due studenti con tre pizze infagottate e altrettante birre fredde in una busta di cellofan. Gli aprì la ragazza con sorriso accattivante. Il commissario pensò che i due erano stati di parola e li salutò con garbo. L’altro con aria d’intellettuale stava dietro la ragazza. Si sedettero e tra una cosa e l’altra mangiucchiarono. Prima il piacere e dopo il dovere. Fumandosi la sigaretta del dopo cena, il commissario chiese dell’esperimento. Chiesero:

   “Avete piazzato la sonda nello stesso punto di ieri sera?”

   “Lo stesso punto. L’ho infissa tutta nel terreno in modo da renderla invisibile.”

   “Bene allora incominciamo.”

   Il ragazzo spiegò: “Commissario, la sonda preleva gli  influssi di un defunto. Questi influssi sono amplificati da uno speciale congegno da noi due fabbricato e trasmessi ad un comune proiettore dando forma ad una immagine olografica del defunto abitante della tomba. In parole povere, papali papali, si forma un’immagine olografica di un trapassato morto e stramorto, proiettata su quel muro bianco della stanza. Ha capito?”

   “E’ come vedere un film.”

   “Sì, ma un film speciale. L’immagine di per se è speciale perché si tratta di olografie e non di figure piatte come nei film, poi i morti trapassati che appaiono, sono in grado di rispondere alle nostre domande. Però le dico, bisogna essere cauti e non strafare. Occorre rivolgere al morto in apparizione, solo una domanda alla volta, altrimenti non so perché, scompare.”

   “Ho capito. Vediamo. Possiamo incominciare. Ragazzi non fatemi fare molto tardi. Domattina mi alzo presto perché ho molto da fare.”

   Il giovane sollevò un interruttore annesso ad uno scatolone parallelepipedo e si accesero luci rosse su una delle superfici di detto scatolone. Dopo pochi secondi il giovane avviò il proiettore posizionato al centro della sala. Ci fu per un po’ solo la luce bianca quadrilatera stampata sulla parete come quando manca la pellicola. I tre  si erano messi a sorbire caffé fumacchiando. Di tanto in tanto il commissario osservava la ragazza a lui di fronte, sprofondata nel sofà. Più la osservava e più gli piaceva, ma sospirava perché stava con quel coso con arie da scienziato. L’attenzione fu distolta e portata alla parete dove sembrava si formasse l’immagine di un uomo. Dopo un minuto circa, si formò nitida l’immagine di un uomo di mezza età che indossava abiti ottocenteschi, con panciotto scuro, giacchetta a due bottoni, cappello a bombetta e uncinato bastone in una mano. Il ragazzo disse sottovoce al commissario:

   “Dottore, le prime domande le faccia fare alla mia ragazza, è meglio.”

   La ragazza chiese dietro il cenno del compagno:  “Buon uomo, dite: chi siete?”

   L’uomo si guardò davanti scrutando nell’oscurità, alla fine rispose con tono pacato:

   “Sono don Gennaro Pirozzi e in vita fui commissario del quartiere Porto.”

  Il commissario Gioia ebbe un senso di gioia e disse: “Uhè, siamo colleghi.”

La ragazza di soppiatto:“In che periodo siete vissuto?”

 “ Nel lontano Ottocento io vissi a Napoli. Nacqui per la precisione a Portici nel 1799 e morii di vecchiaia a Napoli nel 1861 pochi mesi dopo che succedesse quello che successe, e cioè l’unità d’Italia. Visto che mi volte ascoltare, vi parlo di me e della vita mia. Qui nell’oltretomba c’è un gran silenzio e noi morti giacciamo per lunghi periodi nell’incoscienza. È come se la nostra mente si dissolvesse in una lunga tenebrosa stasi e di tanto in tanto, come vento ondulante, si riformasse riportandoci coscienti in un mondo cupo, buio e muto. In quelle tenebre chi è cosciente, sia pur per breve tempo, ripensa a tante cose. Io da parte mia, mi chiedo del perché Dio taccia per tanto tempo, forse perché dove mi trovo io è un limbo e non un vero proprio aldilà. Ma lasciamo stare questi quesiti ultratombali e veniamo a noi. Vi parlerò di alcuni passi della mia vita. Forse parlandone con voi, le mie angosce e sensi di colpa si allevieranno.”

 

   Pausa, durante la quale l’immagine non immaginata di questo napoletano commissario ottocentesco del quartiere Porto rimase ferma come riflettesse. Il commissario Gioia trovò il momento buono per avvicinarsi alla ragazza e dirle in orecchio:

   “E’ un mio collega. Gli chieda della vita affettiva. La cosa si fa interessante.”

   La ragazza allora chiese all’immagine olografica emergente dalla parete di casa:

   “Buon uomo, scusateci, preferiremmo ci parlaste in breve, della vostra vita affettiva.”

   “Cioè volete sapere i cazzi miei. Ma voi chi sareste a cui queste cose interessano?”

   “Siamo tre persone viventi nel 2005. Io mi chiamo Rosaria, il mio ragazzo è Ernesto e qui con noi nostro ospite c’è il dott. Gioia.”

   “Ho capito. Adesso il fidanzato non si chiama più così, ma semplicemente il mio ragazzo. La sostanza è però la stessa.”

   Volle intervenire Il Gioia commissario che disse:

“Caro collega, le cose sono cambiate in superficie, almeno qui a Napoli. Lo sapete che esiste ancora la camorra, anzi mai come adesso è così potente?”

   “Chi siete che mi chiamate collega? Io vedo tre figure davanti a me, ma sfumate. Una è di certo una donna perché ha anche voce femminile.”

   “Collega, sono anch’io commissario come voi, ma proseguite nel racconto.”  

    “Allora però le cose erano molto complicate. La vita allora era terribile. Terribile e dannata assai. Allora molti morivano di fame e freddo. Adesso è tutto più semplice, anche l’amore. Almeno così mi sembra a prima vista. Ma non badiamo a indugi e vi parlerò di me e di un fatto che segnò in modo indelebile, per sempre la mia vita.

 

   Questi sono i fatti riferiti alla mia epoca e non la vostra che non conosco.

  

   Dovete sapere che allora rasente le carceri di Castelcapuano, uscendo poi per l'antica porta detta Capuana perché immette per l’antica strada diretta a Capua, ai tempi miei c’era da attraversare ampio spiazzo sede di secenteschi rivolte popolari contro gli Spagnoli e che nella Napoli pre - unitaria fu noto sotto il nome di Largo della Carriera grande. A sinistra sfogava la famiglia di luridi vicoli che come mi dite, anche adesso hanno il comune titolo de La Du­chesca. Ai tempi miei se ne contavano ben dieci con­trassegnati da numeri romani. Antichi testi riferivano essere quei vicoli domandati della Du­chesca perché c’era un casino regale apparte­nente a1 figlio d'un re di Napoli di casa aragonese. E’ noto come i figliuoli dei re di Napoli eredi del trono, pigliassero il titolo di Duca di Calabria.”

 

   “Collega, allora non è cambiato niente. Anche adesso ci sono quei vicoli bui e zozzi che hanno lo stesso nome, La Duchesca, sede di traffici illegali di ogni tipo. Ma dite, dite. E per la precisione anche adesso i principi e i ricchi hanno appartamenti per privati amori. Non vanno alla Duchesca, ma fanno altrove le stesse cose in altri posti.”

 

   “Collega del futuro remoto che non so come mi vedi e mi parli, sono d’accordo con te. Devi sapere che ci sono a Napoli due città, da tempo immemorabile. La città che vive nella merda, nei bassi e nei vicoli bui e quella nobile che sta nelle zone alte. Se da tempi immemorabili è così anche in futuro prossimo e remoto le cose non dovrebbero cambiare se no che Napoli è. Però collega ti pregherei di non interrompermi troppo spesso se no perdo il filo.”

   “Scusatemi. Non v’interrompo. Sapete…è il nostro comune mestiere che ci spinge a fare domande su domande. Gradite un bel caffé? Noi lo stiamo prendendo adesso. Abbiamo anche i sigari di un tempo se volete.”

   “Non è possibile. Sono un morto e a stento visibile tramite i vostri macchinari. 

Dicevo, al tempo in cui avvennero i fatti che narro, cioè nell'anno 1849 nel IX° vico della Duchesca, a partire dalla Carriera grande, in quella portella a sinistra contrassegnata col numero 3, abitava una donna appena diciannovenne di nome  Filomena Piscopo soprannominata la zoccola a causa della sua attività poco raccomandabile.

 

   Ella fu molto bella. Ebbe le forme attraenti che sedu­cono gli uomini sensuali a prima vista. Fu donna libidinosa quanto una Messalina. Per quanto fossero state belle e adescanti le sue forme corporali, altrettanto fu deforme e crudele l'anima sua ferina, impermeabile ai veraci umani affetti. Poi era giovane, tosta e piena di salute. Ah…quanto era bella!”

 

   A questa esclamazione il Gioia commissario diede uno sguardo di traverso a Rosa seduta sul sofà e anch’egli sospirò. Rosa e Filomena, due donne da far perdere la testa. Rosa presente accanto a lui e la trapassata dell’Ottocento finita chissà dove.  Il trapassato continuò a raccontare.

 

“Voglio iniziare lo cunto di quando la campana dei SS. Apostoli le dieci del mattino batté. Premetto che alcune cose di questo cunto li seppi in seguito e altre le so perché come trapassato riesco a intuire certe cose. Ascoltatemi dunque.”

   Aggiunse il vivente commissario seriamente:

“Iniziate pure, a tutt’orecchi stiamo.”

“Quasi quasi vedo adesso quel gruppo di donne radunate sotto Porta Capuana parlare di donna Filomena Piscopo e sul suo mestiere. Carlina a’ Commarella impensierita fu. Corrucciata la fronte, allora disse:

   “La figlia mia Mariannina esce di buon mattino presto per recarsi da madama Margherita dove fa la cucitrice. Proprio ieri nel vicolo si è incontrata faccia a faccia con un giovane che usciva da quella casa… La povera figlia mia s’è presa uno spavento che tremava tutta. Lo ha detto pure a Madama Margherita appena arrivata al laboratorio delle sarte.”

   Donna Maria a bocca aperta chiese:

   ”E chi ha visto vostra figlia. Ha visto il diavolo in persona?”

   “Mia figlia s’è trovata faccia a faccia con un giovane con una cicatrice che pigliava tutta la faccia e il naso. Avete capito che gente va in quella casa?”

  Donna Giovanna disse la sua: “So io chi ci va lì a trovare quella puttana. Ci vanno i peggiori ladri ed assassini della città.”

   Donna Carmela aggiunse a bassa voce: “E la polizia non fa niente. La polizia non chiude quella casa e non mette in carcere la padrona perché dicono che quella zoccola se la fa con uno del Commissariato di Porto. La domenica la zoccola va verso il porto in una casupola dove si vede con questo poliziotto che la difende dalle denunce anonime.”

   Donna Rita disse allora: “Ci si nasce zoccole. Il marito in carcere alla Vicaria e lei che subito dopo che il marito è andato carcerato cambia amanti dalla mattina alla sera. Io mi faccio la croce ogni volta che passo davanti a quella casa. Se me la vedo in faccia, guardo subito a terra.”

   Donna Maria: “Anch’io cammino sempre dall’altra parte e guardo a terra per evitare di vedere la porta di quella casa maledetta.”

Donna Mariannina a’ scavata: “I soldi o sono onesti o sono maledetti. Quella donna fa soldi maledetti.”

“Filomena Piscopo abitava dunque alla Duchesca in un sottoscalo con una fine­strina che dava su un giardino di quelli che servono più a mantenere una costante umidità nelle case circostanti anzi che a renderne l'aria più respirabile con qualche dose maggiore di ossigeno. La finestrella non aveva vetri al posto dei quali c’era una graticola in ferro. Questa finestrina dava la luce a quella specie di conigliera umidissima dove si faceva notte due ore prima che altrove. Ma, per porre un qualche riparo al freddo ed al vento che da quell'apertura veniva nella stanzuccia, alcuni canovacci vi si erano distesi e inchiodati da sotto a quali sibilava nonostante le accortezze, l'acuto borea. La facciata del palazzo e quindi la finestrella a piano terra si trovavano proprio in faccia il forte vento essendo esposte a settentrione. D’estate quei canovacci erano tolti per accogliere meglio la luce del sole che faceva capolino per la finestrina solo pochi minuti, e solo per una quindicina di giorni nel mese di luglio. In quel periodo si vedeva Filomena mettere fuori dalla grata qualche poverissimo panno a farlo sciorinare su una cannuccia.

Nell’umido ed oscuro sottoscala abitava Filomena ed il suo unico figliuolo che menava presto in strada fino a sera quando ritornava a mangiare ed a dormire. Per la precisione il figlio di circa sei anni, abitava da quando faceva la meretrice, in uno stanzino attiguo con entrata separata. La donna comprò questo misero vano apposta per non farsi vedere dal figlio mentre riceveva tutti quei maschi.

 

Le male pratiche di Filomena proseguirono per qualche tempo finché io Commissario di lei amante non temetti per la mia carica. I reclami contro Filomena s’incrementarono e un giorno le dissi: “Dobbiamo fare le cose con  maggior prudenza perché temo che le voci su di voi siano arrivate fino all’orecchio di Sua Eminenza il Cardinale Arcivescovo.”

“Ma io vado per la mia strada. Non saluto mai nessuno del vicinato. Mi faccio i fatti miei.”

“Filomena, non basta. La gente del rione è cattiva. Dopo che l’ubriaco di vostro marito fu carcerato, la gente si aspettava che voi ed il vostro figlio cercaste l’elemosina morendo a poco a poco di fame e freddo. Questo si aspettava la gente ed invece la natura vi ha fatto forte, giovane, fresca e anche bella. Grazie a queste doti, voi avete superato ogni avversità. Anzi adesso si può dire che rispetto a tanti altri, siete anche ricca. Per questo la gente del vicolo vi odia a morte.”

“La gente deve schiattare. Io mi mantengo bella e fresca nonostante tutto. La gente deve schiattare d’invidia e deve bollire nelle proprie malvagità. Vedete ho un bel corno rosso.”

Filomena cacciò fuori un lungo corno appeso ad una catenina d’oro che teneva tra le toste zizze ogni volta che usciva fuori al mercato. Mi sembra di sentirla adesso:

 Commissà, hanna schiattà tutti. Tutti hanna schiattà.”

“Filomè, sentitemi. Bisogna troncare ogni mala pratica oppure comportarsi da salvare almeno la pubblica morale.”

   Filomena promise di essere più prudente. Dimostrò alle Autorità di non essere in grado di sostenere il  figlio a causa della prigionia del marito. Anche tramite i miei interessamenti,  ottenne il permesso di esercitare l’industria di pegnoratrice, mestiere comodo permettendole di ricevere in casa ogni persona senza eccitare lo scan­dalo pubblico. Filomena ricavò un buon peculio dalla nuova industria. Non molto tempo passò che giunse ad accumulare non pochi scudi. Si faceva vedere in giro con lacciuoli d'oro, smaniglie, anella e orologetti. Dicevano si recasse addosso tutta una bottega di orafo.

 

   Volle il caso o la mala stella che Filomena s’invaghisse d'un giovine commesso d'un mercante di panni con bottega verso Largo Carriera Grande. Non mi accorsi subito del repentino cambiamento della mia amante, anche perché lei dava il suo cuore a molta gente. Poi c’era il fatto che pensavo di non tenerci tanto a lei. Facevo l’amore con lei e toccavo col dito il settimo cielo. Questo mi bastava senza tanti problemi. Il suo corpo m’incantava, ma non ne ero geloso, almeno così pensavo.

   La sì Filomena arse di amore per questo giovane coetaneo, più che non era mai arsa per alcuno. Era questi davvero un bel gar­zone a nome Angelo Montella: un adolescente di diciassette, diciotto anni. La malizia e la cattiveria erano entrati assai per tempo nell'animo di questo garzone che al pari della Filomena, associava alla bellezza un cuore truce e un carattere cupo, simulatore, vendicativo e feroce.

    Angelo Montella capì che lei ci teneva per lui e s’industriò a ricavarne grossi vantaggi dall’amante. S’informò che la sì Filomena aveva messo in serbo un paio di migliaio di ducati, frutto dell'usura recente e delle passate tresche adultere. Né ciò solo possedeva la Filomena, ma aveva in casa un buon dato di gioielli e di contanti.

Il giovine di nome Angelo, in realtà fu come il diavolo oltremodo avidissimo di danaro. Capì che nonostante l'amore che la Filo­mena  aveva per lui, sarebbe stato assai difficile carpirle quelle due migliaia di ducati che la donna aveva accumulato. Bisognava formare un altro piano di battaglia. L'unico mezzo di ottenere quel denaro era sposarla e farsi fare una donazione a titolo di dote. Ma due grandi ostacoli sorgevano: il marito della Filomena era ancora vivo, benché rinchiuso nelle prigioni della Vicaria. Di più, ella aveva un figlio che benché lo abbandonasse nel mezzo della pubblica via, era pur sempre suo figlio, a cui le materne sostanze erano per legge destinate. Per sposare la donna, sarebbe stato necessario smorzare il marito e quindi accortamente sbarazzarsi del figlioletto come di fatto fu.

 

Venuto in questa infernale deliberazione, il Montella lasciò che di più si accendesse la fiamma amorosa dell'adultera donna. L’uomo con arte sottile non l’accontentò mi pienamente, tenendola a bada e rafforzandola, come fa di una gran vampa un venticello costante e vivace. Il Montella finse verso di lei di avere grossi scrupoli e paure per lo scandalo che avrebbe potuto derivare da una tresca illegittima. Arrischiava però qualche parola  sulla felicità che entrambi avrebbero goduto se l'uno all'altra congiunti in sacro e legittimo nodo fossero stati.  Faceva intendere alla donna innamorata che era impossibile dare sfogo alla loro passione senza dar negli occhi del parroco, a cui dal cardinale era stato ingiunto di vegliare attentamente sulla di lei condotta. Su un covone di paglia o di fieno ben secco e adusto dagli ardori del sole basta gettare una fiammella per incenerirlo. Allo stesso modo i pochi cenni ed altri lampi che a volta a volta l’uomo faceva guizzare sull'animo ben disposto della innamorata Filomena, bastarono a farvi nascere incendi di pensieri che le bruciavano di notte il cervello.

   Appresso a qualche tempo, Angelo Montella si accordò con la donna che era necessario togliersi di torno il marito facendolo uccidere nelle prigioni della Vicaria.  Discussero a lungo sulle modalità dell’omicidio e sul modo di eludere la giustizia. Angelo propose di affidarsi per questo colpo alla setta della camorra con diramazioni all’interno del carcere della Vicaria. Filomena disse all’amante:

 “Se non lo uccidono in carcere, lo uccido io quando viene qui. Gli resta da scontare solo un anno ancora. Se penso quello che ho passato con quell’uomo…con quel misero ubriacone che mi menava ogni volta che si ubriacava e che mi mise incinta appena dodicenne.”

   “Non ti preoccupare – disse l’amante – ci penso io. Tu non lo vedrai più vivo.”

 

   Prima di freddare lo sciancato, come soprannominato fu il marito di Filomena, Angelo Montella pensò che era opportuno liberarsi del figlio di lei, un bambino sui sette, otto anni di nome Luigi. Il problema non era semplice perché bisognava allontanare da se, non solo le indagini della polizia, ma anche i sospetti dalla madre che avrebbe molto sofferto per la sparizione dell’unico figlio.

   Una domenica sera, dopo che ebbe fatto visita alla innamorata Filomena, Angelo Montella scese per la via del Porto inoltrandosi in quel labirinto di oscuri vicoli e arrivando in meno di dieci minuti nel lurido e fetido Violetto della Selleria.

   Di lì a qualche giorno scomparve il figlio della Filomena. La polizia e quelli del vicinato commossi per la sorte del bambino insieme con alcuni monaci del Monastero di Santa Chiara, fecero minute ricerche. Anch’io mi adoperai pieno di pietà per la donna. Pensai ad uno sfregio delle vicine. Però potevano lasciare il corpo del bambino morto per strada in modo da dargli giusta sepoltura. L’odio delle vicine non poteva arrivare a tanto. La cosa non quadrava. E’ vero che a Napoli allora, sulla cifra di 50 – 60 morti al giorno, un terzo erano bambini fino agli otto anni, ma erano per lo più morti naturali. Si sapeva pure che le donne del basso popolo avvelenavano i figli con cibi indigesti, con crudeltà di ogni sorta, con carni salate, con minestracce grasse e luride, ma che Filomena avesse ucciso il proprio figlio, avevo forti dubbi. 

 Si convenne comunque di arrestare la madre. Dopo un mese Filomena uscì dal carcere perché non c’erano prove contro di lei. L’amante Angelo Montella aveva simulato grande dolore e afflizione per la scomparsa della creatura. Era andato spesso a trovare Filomena in carcere, a confortarla e a rinfocolarle la passione amorosa.  

Il commissario di polizia incaricato delle indagini – era un mio amico del Vasto - mandò per qualche tempo Filomena a cucire presso la casa di una in potere della giustizia. Filomena tesseva e colloquiava con questa tessitrice. Questo provvedimento aveva il fine di rasserenare la donna e carpirle segreti utili a far luce sulla scomparsa del ragazzo. Non emergendo indizi di colpevolezza verso di lei, anche questo provvedimento fu tolto.

   Ci fu qualche vicina che si alzava molto presto per recarsi al mercato e che riferì in commissariato di aver visto Filomena andare dalla cucitrice, ma non era sola. Era in compagnia del Montella. La polizia fece i dovuti accertamenti, ma gli interrogati asserivano che ella era uscita soletta e né si era accompagnata con alcuno.

   Quanto a me, per non destare dubbi sulla mia condotta, mi tenni in uno stato di attesa. Non volevo perdere del tutto Filomena, ma non potevo rischiare il posto a causa sua. Dovevo capire però come stavano le cose. La polizia alle dipendenze del mio collega, effettuò molte ricerche ne' vari siti del quartiere di Porto, dove il figlio della Filomena di nome Luigi e detto il guaglione, soleva andare.

 Furono interrogati il capo e i giovani della stamperia nel vicolo S. Marco a' Lanzieri, dove il fanciullo andava nelle prime ore dei giorno per minuti servigi. Qualcuno affermò che l'ultimo giorno in cui il fanciullo era andato lì, si era messo a giocare nei pressi con altri monelli, dai quali si era discostato per parlare con un giovane e con una ragazza presso a poco della sua età. Ciò induceva tutto al più, a supporre che la fan­ciulla fosse una sua conoscente; ma e chi era il giovine col quale ella si accompagnava e con cui Luigi aveva parlato?

Angelo Montella si presentò in sul Commissariato di polizia, asserendo, con inaudita sfrontatezza, aver lui proprio veduto il ragazzo uscir da una bottega ai Ferri Vecchi e pigliare la via di Porto. Disse di aver avuto il pensiero di seguirlo, ma di avervi rinunciato perché quel dì andava di fretta per faccende personali. Questa condotta allontanava dal Montella, vero autore del delitto, i sospetti degli inquirenti.

Il Montella sapeva esporre le cose come se avesse un carattere ingenuo e buono. La polizia, a cui erano d'altra parte giunte le più favorevoli informazioni sul conto del giovine, fu tratta in inganno e indagò con incredibile leggerezza su di lui. Il diabolico Montella fece passare il tempo necessario perché il dolore in Filomena si attenuasse dopo di che volle ricordare all’amante il reo disegno: occorreva togliere l'ostacolo vivo che si opponeva al loro matrimonio anche perché fra un anno sarebbe spirato il tempo dalla legge assegnato alla prigionia di Nicola Piretti, detto lo Sciamenco.

Filomena barcollava indecisa tra l'amore che ella aveva per Angiolillo e la paura di un omicidio. L’in­certezza non durò a lungo, sopraffatta dalle incalzanti premure e dalle mille seduzioni del giovine deciso ad appropriarsi dell’oro della donna. I due addivenirono alla definitiva deliberazione. Angelo propose di affidare l'esecuzione del piano ad un giovine, suo conoscente di nome Carmine Esposito, noto camorrista proprietario.

Il vivente commissario Gioia si affrettò a chiedere ragguagli:

   “Che significa camorrista proprietario? Al giorno d’oggi ci sono i camorristi semplici, i killer camorristi e i capi zona, ma questo grado di camorrista proprietario mi è sconosciuto.”

“Il grado di camorrista proprietario era il più elevato dopo quello di Gran Capo. I camorristi proprietari, in tutta Napoli in numero di sei, facevano parte del Gran Consiglio presieduto dal Gran Capo detto Bravos. Ma fatemi continuare lo cunto, se no perdo il filo.

   Angelo Montella ed Esposito Carmine due pessimi giovani, strinsero la tresca che avrebbe dovuto portare all’assassinio del marito di Filomena, detenuto nel carcere della Vicaria.

Erano scorsi pochi mesi dalla sparizione del figlio di Filomena, allorché una sera Angelo Montella se ne andò a far visita a Carmine Esposito in una lurida bottega nel Borgo S. Antonio Abate. Lì il Carmine Esposito detto Carpecato soleva farsela, e lì convenivano altri membri della paranza. Quella bottega di barbitonsore era una di quelle dove si esercitava la camorra al giuoco così detto della tombola una specie di lotteria privata, proibita dal governo che a quei tempi cioè ai miei tempi, voleva riservarsi i1 mo­nopolio del giuoco del lotto.

   In certe ore della sera la bottega del barbiere o barbitonsore che dir si voglia, si chiu­deva dopo aver accolto i soliti clienti che venivano a rischiare il loro denaro con quel tipo di giuoco vietato. Una delle paranze del Mercato aveva là gli accoliti. La polizia chiudeva un occhio quando passava di costa a questa bottega. Aggiungete pure che uno degl'ispettori di quella sezione proteggesse il locale per riguardi che aveva al barbitonsore la cui figliuola assai bellina, era nelle grazie del funzionario. Ma non mi voglio avanzare in questo terreno.

Angelo Montella, verso le ore tre di notte all'italiana, se ne venne dunque a picchiare all'uscio della bottega del barbiere.

   Nel notturno abboccamento il Montella rivelò all'amico camorrista detto Carpecato, il disegno di voler freddare nel carcere della Vicaria il Nicola Piretti, marito di Filomena.

   Carmine o’ Carpecato accettò l’incarico per conto della seconda sezione della sua paranza. Avrebbe ricevuto qua­ranta piastre anticipate, e duecento ducati pagabili un giorno dopo del matrimonio di Angelo con la vedova Piretti. La 2° sezione della paranza di Carmine ebbe allora estese rami­ficazioni nelle carceri di S. Francesco e della Vicaria.

   La mattina appresso, un tale Vitale Esposito di Benevento, dete­nuto nelle prigioni della Vicaria ricevette al far del giorno, il seguente biglietto in un pezzo di carta ravvolto a forma di pillola che un suo confratello che 1'aveva ricevuto di fuori, si era messo nel cavo della bocca e che gli fece cadere ai piedi, fingendo di starnutire. Tutto ciò sotto gli occhi del custode maggiore che fece finta di non vedere. Il messaggio fu:

 

   Al Caro fratello a nome del Bravos eseguisci tra le ventiquattr'ore questa obbedienza. Si faccia dormire lo Sciancato.

 

   La notte stessa Vitale Esposito cacciò nello stomaco del detenuto Nicola Piretti l’intero pugnale uccidendolo sul colpo. La mattina guardiani, cancellieri e ispettori accorsi impotenti, osservarono il cadavere del Piretti. La vedova Filomena ebbe libero accesso alle nozze col Montella.

I due non avevano fatto i conti con me, amante tradito che anelava anema e core per Filomena. Il saperla in possesso del Montella mi fece cadere nella più cupa disperazione. Non avrei mai pensato di essermi tanto innamorato di lei. Ebbi la certezza dei miei impazziti sentimenti quando appresi la notizia che i due si stavano per sposare. Ebbi la certezza di averla per sempre persa. Per due giorni non mangiai e una notte me la sognai a fianco. Ciò che mi faceva impazzire era saperla con uno che aveva quasi la metà dei miei anni. Le feci pervenire un messaggio a casa sua portato da un sottoposto fidato. Filomena venne in commissariato tutta gioiosa. Appena mi vide mi disse: “Commissario, tra una settimana mi sposo.”

“Lo so e per questo vi ho convocata da me.”

“E che volete? Che c’è adesso? Qualcosa che non va?”

“Filomé, io impazzisco se non vi vedo. Voi siete la vita mia. Vediamoci stasera e facciamo l’amore come una volta.”

“Commissà, ma non scherziamo proprio. Io amo l’uomo con cui mi devo sposare. Adesso mi sposo, non facciamo cose storte. Il mio futuro sposo potrebbe uccidervi. Non si sa mai la reazione di un futuro marito che viene tradito alle soglie del matrimonio. Quello può fare una strage e uccidere anche me.”

 

   Mi dovete credere: più la vedevo davanti a me e più la desideravo. Era bella, giovane con quei fianchi snelli e quella voce chiara. Quel seno tosto a punta piazzatomi davanti. I suoi capelli neri col tuppo alla nuca. Tutto di lei mi piaceva.

Disse lasciandomi:

“Commissà, voi ne avete tante. Sentite a me, trovatevene un’altra. Statevi buono.”

 

 

   L’unica soluzione per fermare i due era fare piena luce sui loro ipotetici misfatti. Non avevo tempo da perdere. Dovevo indagare sulla scomparsa della bambina, la figlia di Filomena e dovevo scoprire perché avevano fatto fuori il Piretti detto lo Sciamenco. Dovevo trovare prove chiare che mi consentissero di sbattere in galera il Montella. Il mio sottoposto che avevo mandato a prendere informazioni sui futuri sposi mi riferì:

“Commessà, stanno facendo i preparativi per le imminenti nozze.”

“A quando le nozze?”

“Tra dieci giorni. Dicono che hanno ordinato i musicanti, i cantanti e stanno allestendo gli inviti che si prevede molto numerosi.”

 

   Tutte le cose pareva che andassero a gonfie vele per questa coppia avventurata. Il Montella viveva ormai nella perfetta sicu­rezza della impunità del suo misfatto, tanto più che tra le vit­time del cholera era morto anche il detenuto Vitale Esposito omicida del marito di Filomena.

 

   Prr non darla alla lunga, i miei sospetti cominciarono infine a basarsi su cose concrete. Un certo Fasulillo, per odio contro il Montella, aveva comunicato alla seconda paranza un sospetto intorno alla morte dello Sciamenco... Qualche cosa del diabolico intrigo avevo di sfuggita fiutato, per questo avevo allertato un mio agente in borghese che prendesse notizie nei vicoli, notizie atte a incriminare il Montella. Dovevo ricevere prove prima che i due convolassero a nozze. Solo un colpo di fortuna mi avrebbe aiutato veramente. Questo colpo di fortuna, forse per intercessione di qualche santo, si presentò di lì a qualche giorno.

 

  Nunziatella prostituta del Vicolo della Selleria, era stata amante di Angelo Montella. Amore e gelosia sono pericolosa mistura. A quei tempi non so adesso se è così, quanto più queste donne cadevano nel fango dell'abiezione e nel pubblico disprezzo, tanto più si avvitic­chiavano a qualche verme della peggiore specie, divenuto per esse dio supremo. Allora, quando ero vivo e facevo il commissario al Porto, tutti i delitti di sangue avvenuti nelle infame zone di prostituzione non riconoscevano per lo più altra causa che la gelosia di queste sciagurate per i loro amanti e protettori. Strappare ad una di loro l'amante era ingiuria gra­vissima in grado di giustificare un omicidio.

 Nunziatella seppe che il suo Angiolillo era preso nei lacci della Filomena e giurò vendetta.  Forse in quei giorni la sua ottenebrata mente correva al pensiero d'un omicidio. Le feci capire che poteva vendicarsi meglio facendo annullare le nozze ai due e facendoli finire in galera. In commissariato le dissi:

   “Donna Nunziatella, la polizia ha sospetti su Angelo Montella e la vedova Filomena Piretti che voi conoscete. Aiutate il corso della giustizia. Aiutateci a far luce sulla scomparsa improvvisa del figlio di donna Filomena e sull’omicidio avvenuto in carcere del di lei marito, Nicola Piretti detto lo Sciamenco.”

   “Commissà, io so che vi posso aiutare, ma datemi qualche giorno per sapere con più precisione certe cose. Nel vicolo si parla tanto di quella donna, delle sue ricchezze e di queste nozze avvenute così all’improvviso. Però devo fare le cose con accortezza se no qualcuno della camorra…mi capite.”

   “Qualcuno della camorra vi taglia il collo. Fate, ma fatemi sapere presto, prima che quei due si sposino.”

  Nell’udire l’espressione si sposino, Nunziatella cacciò grosse grida e maledizioni a tutta forza. Se ne andò via maledicendo i due e promettendomi di aiutarmi. 

  Donna Nunziatella dall’odio contro i futuri sposi spinta, aveva saputo che Angiolillo aveva ucciso di persona strangolandolo, il figlio della Filomena ad insaputa della madre. L’omicidio del ragazzo era avvenuto in località Vico Lavatojo dove Angiolillo teneva un ripostiglio. Il figlio di Filomena fu portato in trappola in Vico Lavatojo da due ragazzi, un ragazzo ed una ragazza per la precisione, che donna Nunziatella conosceva bene e dai quali aveva ricevuto indizi utili alle mie indagini. 

 

    Allertati il giorno dopo di buon mattino, andammo in Vico Lavatojo. Trovammo lo sgabuzzino di Angiolillo e vedemmo in un angolo del terreno smosso. Feci subito scavare in quel punto e trovammo il corpo del ragazzo. Tenni la cosa segreta. Volli dare una brutta sorpresa ai due che proprio quel giorno si sposavano.

 

  Mentre gli sposi si accingono a muovere per la parrocchia che doveva santificare il nodo, un ispettore di polizia si presenta davanti all’androne della chiesa ed intima l'arresto al fidanzati.

 

  Andai a trovare in carcere Filomena. La consolavo e vedevo che si stava di nuovo affezionando a me. Più si affezionava a me e più odiava Angiolillo, reo di averle ucciso il figlio.

 

   Presto scarcerata grazie alla buona condotta ed alle mie raccomandazioni, riprendemmo la vita amorosa di prima. Ci vedevamo in una casetta dalle parti dei Banchi Nuovi. Le fui molto affezionato e molti regali d’oro le portai.

 E questo è tutto.

 

   Al commissario Gioia allora venne giù l’idea. Anche a lui piaceva la ragazza di nome Rosa che se la intendeva con quel ragazzo di nome Ernesto. Disse ai due:

   “Per favore adesso uscite che devo dire due cose al mio collega. Fate come vi dico.”

   I due se ne andarono nell’altra cameretta. Il commissario – il vivo – disse in orecchio al trapassato in olografia: “Collega , anch’io amo quella lì.”

   Il trapassato sembrò interessarsi e disse:

   “Capisco tutto. I divini segni sono infiniti ed imperscrutabili. Vedrò cosa fare. Però dobbiamo fare un patto. Devi lasciare in sito la sonda che pesca nella mia tomba. In questo modo quando lo vorrai mi richiami sulla terra e discorriamo un po’.”

“Io ci sto’. Però ditemi – vi do del voi per rispetto verso il vostro mortuario stato – ditemi, dicevo: perché dove state adesso vi scocciate? E’ forse meglio qui tra i vivi?”

“Caspita se è meglio qui. Noi morti e quando lo sarai tu lo vedrai, stiamo in uno stato di sospensione totale. C’è assenza di tutto. C’è un gran silenzio e buio. Si è in uno stato di dormiveglia. Meglio qui dove c’è vita, luce, soldi, sesso e divertimenti.”

   “C’è anche il male, il delitto e tante altre cose schifose.”

   “Allora lo facciamo questo patto? Anche se non posso vivere per intero come voi, mi adatterò comunque. Allora facciamo il patto?”

   “Va bene. Dirò a quei due di lasciare infissa sulla vostra tomba la sonda così basta accendere il computer, invocare il vostro nome e voi sarete qui. Cioè la vostra immagine sarà qui.”

   “Va bene. Adesso è come se fossi qui anima e corpo. Se il mio corpo non c’è, pazienza. Non fa niente, mi adatterò.”   

 

   Sparecchiati i computer e scomparso in aldilà il trapassato, il commissario Gioia ormai a notte fonda, prima di salutare i due giovani, disse:  “Dovreste farmi un altro piacere.”

   “Dite. Se si può.”

   “Dovrete lasciare in sito la sonda sulla tomba del morto che abbiamo testé intervistato. Però questa sonda non si deve vedere e deve restarci lì per anni. Mi capite?”

   Rispose dunque  il giovane:

“Commissario, nessun problema. Stanotte, cioè tra qualche ora aggiusteremo tutto. Metteremo una specie di croce su quella tomba. La parte verticale della croce è in realtà la sonda che richiama il vostro collega commissario ottocentesco in vita. Va bene così?”

   “Benissimo.”

   Stava andando via il commissario quando il giovane di prima lo chiamò sulla soglia: “Commissario, ci dovrebbe fare un altro favore.”

“Dite.”

“Fate in modo che domani stesso mi restituiscano la patente. Poi ci sarebbe un’altra cosa…”

“Cosa? Per la patente basta una mia telefonata e vi sarà restituita.”

“Ci servono cinquanta euro ed un pacchetto di sigarette.”

La mente del commissario valutò la richiesta e decretò che ne valeva la pena accettare. Estrasse dal taschino interno i cinquanta euro e dalla tasca dei pantaloni il mezzo pacchetto di sigarette che porse in mano al giovane.

  Se ne tornò a dormire a casa. In macchina pensò a tante cose tra cui che avrebbe dormito molto e si sarebbe svegliato tardi.

  

   L’indomani sbadigliando entrò svogliato in ufficio. Si fece consegnare un buon caffé espresso sorseggiando il quale lesse da un lembo di giornale giornaliero questa notizia di cronaca:

 

  

   A NOTTE FONDA C’E’ STATO UN INCIDENTE MORTALE. LA MOTO DI ERNESTO CARTUCCIA DI ANNI 22 E’ SBANDATA SCHIANDANDOSI CONTRO UN ALBERO. IL RAGAZZO ERA PRIVO DI GENITORI. LA FIDANZATA APPRESA LA NOTIZIA E’ STATA COLTA DA COLLASSO. IL RAGAZZO STAVA RIENTRANDO IN CITTA’ LUNGO LA STRADA CHE DA POGGIOREALE PORTA ALLA STAZIONE CENTRALE.

 

    La foto di Ernesto Cartuccia sotto l’articoletto non lasciava dubbi. Lui morto e lei che il commissario adorava, viva e vegeta.

   Frugando nel taschino in cerca dell’ennesima sigaretta, il capo commissario Gioia rinvenne un foglietto accartocciato. D’istinto prima di buttarlo nel cestino, lo srotolò e vide che c’era scritta una lunga frase che diceva:

   “Caro collega, la felicità senza i soldi è difficile che arrivi. Giocati questi numeri al lotto sulla ruota di Napoli e fammi sapere.”

 Ricevuti i numeri e giocati come il collega in sogno prescriveva, si mise la sera davanti alla tivvù a controllare se vinceva. Apprese così di essere diventato di colpo un milionario in euro.  

   Adesso il commissario capo Gioia cominciò a pensare a tante cose tra cui a come consolare Rosa Palombo e farla sua. Si ripropose di andare il giorno stesso al cimitero a portare per lo meno i fiori di ringraziamento sulla lapide del collega trapassato, di condotta non proprio tanto ortodossa, commissario del Porto nel lontano 1849 e suo benefattore.

 

   Conquistata Rosa Palombo grazie ai soldi, se ne andò con lei alle Azzorre dove s’era comprato una bella villa. Di fronte al mare il mattino, sulla sdraio al fresco sorseggiando bibite, l’ex commissario si leggeva il giornale italiano con notizie però di due giorni prima. Accanto c’era l’adorata Rosa dal leggiadro copro d’indossatrice. Ogni tanto il commissario ex, commentava ad alta voce qualche notizia appresa dal giornale:

   “C’è stato un attacco terroristico a Londra. Si temono oltre cinquanta morti.”

   Rosa con le cosce al sole, rispondeva tosta:

   “Povera gente! Ci va sempre la povera gente in mezzo. Speriamo che non scoppi una guerra mondiale.”

   “Se potessi, prenderei questi terroristi e li ammazzerei uno a uno.”

“Sì, ma non si fanno prendere. Questo e’ il problema. Non sono fessi. Ci odiano alla morte, sono invisibili come ombre e grazie a collusioni con miliardari, hanno molti mezzi di fuga a disposizione.”

   “Possono sterminarli a poco a poco con virus letali.”

  Ci fu pausa. Al che il commissario ex riattaccò:

   “Mi viene un’idea. Chiamiamo in vita il mio collega il commissario ottocentesco. Vediamo cosa ha da dirci.”

   Rosa  Palombo ancheggiando abbronzati lombi andò dentro a prendere il computer portatile. Armeggiò come sapeva e dopo un po’ prese forma davanti a loro l’olografico aspetto del commissario napoletano vissuto al tempo dei Borboni che disse appena acquistata la forma esatta: “Buon giorno, caro collega e…”

   Il commissario olografico si era rivolto subito a Rosa a fare i complimenti:

   “Buon giorno a lei cara Rosa. Siete sempre in splendida forma. Mi rallegrate gli occhi nel vedervi.”

   Il commissario vero cioè il Gioia, in verità ora ex commissario, infastidito un po’ dai complimenti che il collega trapassato dava a Rosa, disse:

   “Collega, a quanto vedo, ci vedete bene adesso. Non è che vi state innamorando della mia compagna? Ma lasciamo stare. Diteci piuttosto, cosa ne pensate di questo fatto tanto grave. A Londra, ve la ricordate Londra?”

  “Come no. La capitale dell’impero britannico.”

   “Adesso il quadro geo politico è alquanto mutato e Londra pure.”

   “Che è accaduto a Londra?”

  “Terroristi arabi hanno fatto scoppiare delle bombe uccidendo oltre cinquanta persone.”

  “Per la miseria. Gli arabi hanno sempre dato seri problemi. Ai miei tempi le bombe, ma meno potenti, le mettevano i carbonai, quelli in odio dei Borboni.

   “ Adesso però i teroristi uccidono nel mucchio. Diteci, raccontate.”

   “Fatemi prima sedere su una sedia. Grazie.”

   “L’immagine olografica si sedé comodamente su una sedia di vimini dietro un tavolino e a cavalcioni disse:

 “Mi viene in mente ciò che accadeva tra l'anno 1849 e il “51, tempo in cui la reazione napoletana, succeduta alla effimera li­bertà del “48, rincrudeliva su quelle nostre travagliate province e massime sulla capitale Napoli.”

   Il trapassato guardò l’antistante mare, le belle cosce di Rosa ed il suo seno. Sospirò e continuò ispirato, il racconto di trapassati tempi:

“Allora le denunzie anonime erano accolte ad occhi ciechi e vi si dava immediato sfogo, gettando nelle carceri onesti ed inno­centi cittadini. La sbirraglia più immonda aveva il soprav­vento. Gli onesti cuori palpitavano perché fiduciosi sedutisi al festoso banchetto del 29 Gennaio 1848 ed avendo più o meno partecipato attivamente agli eventi rivoluzionari.

   La Polizia non potendo affogare ne' suoi artigli tutta quanta quella immensa popolazione che aveva acclamata la co­stituzione, poneva le mani brancicando di qua e di là sui li­berali alla rinfusa e sulle loro famiglie riempiendone le pri­gioni. Una parola, un gesto poteva cagionare la irreparabile per­dita di un capo di famiglia. Quelli codardissimi che per paura della libertà si erano da spie camuffati in demagoghi, ripresero i loro terribili artigli per sbranare le carni di coloro a cui nel “48 avevano dato il bacio di fratello. C’era sopra Napoli un incubo di terrore. La polizia tollerava e talvolta favoriva eziandio la camorra, nella quale si riprometteva, per ogni circostanza, ausilio potente contro il ceto de' penniferi.”

Rosa ridente chiese:

“Chi erano i penniferi? Commissario fate capire anche a me….quasi quasi vi darei un bacio se foste in carne ed ossa.”

   Il commissario Gioia ebbe allampanato sguardo di gelosia contro il trapassato il quale disse:

   “Mia bella Rosa, non fate ingelosire il vostro compagno se no non mi chiama più di qua.”

   Gioia ex commissario disse:

   “Collega la vostra disquisizione c’interessa. Peccato che non potete bere se no vi avrei offerto un po’ di questo nettare.”

   La tridimensionale immagine del trapassato disse:

 “Mi ricordo le belle sbevazzate che mi facevo dal vinaio a Piazza del Mercato. A proposito c’è ancora questa piazza?”

   Rispose gaudente Rosa: “Come no. Oggi si chiama Piazza del Carmine o anche, se volete, Piazza Mercato. Vi si vende di tutto. Articoli per la casa, poltrone, divani, ferramenta…ci sono bar, trattorie e… contrabbando.”

   “Ci terrei a rivederla. E quello che leggete sulla sdraio sono i giornali di adesso? Non sono tanto diversi da quelli di allora. Sono solo un po’ più corposi. Allora i giornali erano di una sola pagina divisa in quattro parti. Ah, che bella cosa vivere.”

   “Non ci pensate. Tirate avanti coi vostri ricordi, caro collega. Tra poco, tra circa dieci minuti io e la mia compagna ce ne andiamo a pranzo. Il sole comincia a picchiare forte. Tra dieci minuti finisce la vostra buonuscita. Peccato che non potete venire a pranzo con noi.”

   “E quando mi richiamerete da queste parti?”

   “Tra un paio di giorni, va bene?”

   “Non vi dimenticate. Per me è importantissimo. E’ così bello stare qui e non lì, dove c’è solo il nero eterno, il freddo e il gran silenzio.”

A Rosa allora pervenne un lampo di genio e disse:

“Alcuni qui hanno il buio, il vuoto dentro e non lo sanno.”

 “Tra due giorni verrete di nuovo qui e vi daremo altre novità.”

  “Faremo un po’ di discussioni su questo mondo.”

   Disse Rosa per consolare il trapassato: “Fidatevi di me. Sto continuando gli esperimenti sulle olografie e forse un giorno ritornerete qui anima e corpo. Cioè immagine e massa. Ho studiato che il buco nero possiede solo l’orizzonte degli eventi e che la sua massa pur presente chissà dov’è. Secondo alcuni ci sarebbe una particella detta il bosone di Higgs che trasferisce la massa alla materia, ma nessuno adesso lo ha trovato. Io spero di capire dove si trova la nostra massa. Fidatevi di me e abbiate fede.”

   “L’importante per adesso che mi richiamate qui al più preso a conversare.”