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Editoriale

L'arte della follia
di Andrea Cantucci

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Catalogo

L'arte della follia
 

"Tutti coloro che sono posseduti dagli dèi, danno uno spettacolo impressionante"
dal Convivio di Senofonte

"Quando voglio vedere un matto non devo fare altro che guardarmi allo specchio."
Seneca

"Ma non ho nessuna voglia di andare a far visita a dei matti!" osservò Alice.
"Oh, non ne puoi fare a meno! Siamo tutti matti qui…"
da Alice nel Paese delle Meraviglie, di Lewis Carroll

"ho trovato libertà e salvezza nella mia pazzia"
da Il Folle, di Kalhil Gibran


Secondo lo storico delle religioni Mircea Eliade, un periodo di pazzia era un passaggio importante per raggiungere lo stadio di sciamano, nelle culture di ceppo nordico-mongolico. Scrive Eliade a proposito delle malattie mentali, nel suo saggio Lo Sciamanismo e le Tecniche dell'Estasi : "tali malattie appaiono avere quasi sempre un certo rapporto con la vocazione dell'uomo-medicina. Ma il mago primitivo, l'uomo-medicina o lo sciamano non sono semplicemente dei malati: essi sono anzitutto dei malati guariti, dei malati che sono riusciti a guarirsi da sé stessi. (…) se essi si sono guariti da sé e sanno guarire gli altri, ciò fra l'altro è dovuto al fatto che essi conoscono il meccanismo - o meglio ancora, la teoria - della malattia." Si spiegherebbe così il delirio che tra i Siberiani coglierebbe chi sta per divenire sciamano e le allucinazioni a cui questi assiste durante la sua malattia, forse auto-indotta, visioni in cui vede il proprio corpo torturato, fatto a pezzi, cotto in un paiolo e poi ricomposto, un processo iniziatico simbolicamente equivalente a una discesa agli inferi e una rinascita. In pratica il candidato sciamano colto da tale accesso di follia, è lasciato a terra privo di sensi in preda "agli spiriti", cioè alla sua malattia, finché non si riprende da solo, segno che il suo spirito ha saputo rinascere guarendosi da sé e perciò è considerato ora capace di guarire anche altri colpiti dallo stesso male.
Nel volume Alce Nero Parla, in cui l'etnologo John Neihardt ha raccolto le testimonianze di uno sciamano sioux, questi racconta come da bambino ebbe la grande visione della sua vocazione, dopo essere caduto improvvisamente ammalato, seguita poi da altre, durante cerimonie in cui i Sioux danzavano fino a cadere a terra sfiniti appositamente per procurarsi tali visioni. La sua non fu mai considerata follia, perché viveva in una società in cui sogni e visioni non erano visti come cose futili o semplici allucinazioni, ma come messaggi del Grande Spirito. I folli erano coloro che non riuscivano più a ritornare dal mondo delle visioni ed erano considerati sacri dai Sioux e dagli altri indiani delle pianure, perché comunque il Grande Spirito parlava loro, anche se non erano in grado di sostenere il peso di tali rivelazioni conservando la sanità mentale.
Anche nel mondo classico greco-romano, si riteneva ci fosse un rapporto tra la follia e il divino, ma la pazzia non era vista come un dono bensì come una punizione degli dèi. La forza divina che possedeva gli uomini dai Romani era chiamata Mania, da cui il termine maniaco. Le tre dèe dai Greci chiamate Erinni (Colleriche), ma più spesso Eumenidi (Benevole) per non incorrere nella loro ira, e a cui i Romani davano il nome di Furie, perseguitavano invece in particolare chi compiva crimini di sangue contro i familiari, fino a farlo impazzire.
Da qui deriva l'aggettivo furioso per indicare i pazzi incontrollabili, ovvero in preda alla furia, cioè dominati da una delle dèe, o l'espressione "andare su tutte le furie", quando si perde il controllo diventando momentaneamente folli, perché tutte e tre le Erinni si sono metaforicamente impossessate di noi. Le Erinni, rappresentate come vecchie latranti con serpenti per capelli, secondo Euripide si chiamavano rispettivamente Aletto (Furore), Tisifone (Vendetta) e Megera (Odio), ecco così indicati chiaramente nel mito i sentimenti che possono condurre più facilmente e rapidamente alla pazzia, una pazzia in questo caso violenta e per niente positiva o piacevole, ma tutto dipende sempre dal fatto che da essa si riesca o meno a ritornare indietro.
In fondo tutte le religioni, comprese quelle considerate (chissà perché) più evolute, non fanno che riproporre in modo più o meno complesso la soluzione offerta dai riti sciamanici per tentare di guarire lo spirito umano. Usano miti e visioni di per sé folli e senza alcuna attinenza con la realtà concreta, di cui però il sacerdote-sciamano ha il controllo attraverso la sua approfondita conoscenza della logica distorta di quel mondo immaginario collettivo. Questi guida chi si affidi a lui e accetti di condividerne le teorie spirituali, verso uno stato di sufficiente pace interiore e serenità che gli permetta di affrontare le difficoltà della vita e i sensi di colpa derivanti dalle sue azioni senza impazzire, ovvero senza perdersi nel suo personale e generalmente più caotico mondo interiore (in quello che le religioni chiamano Inferno e la psicanalisi Inconscio).
Tutto ciò gli sciamani siberiani sostengono di farlo comunicando con gli spiriti o scacciandoli, i sacerdoti monoteisti invece esorcizzando i demoni o perdonando le anime, ma tra le due cose non c'è gran differenza, così come non c'è sostanzialmente differenza tra la follia sciamanica e le visioni mistiche dei profeti ebraici o dei santi cristiani, che si identificavano in sogno col proprio messia rivivendone la morte e resurrezione, esattamente come gli sciamani che muoiono e resuscitano nel loro viaggio interiore. L'esigenza del perdono però, può anche essere alimentata dall'esagerata enfasi data ai sensi di colpa per i propri presunti peccati. Ciò accade tra i Cristiani ma non solo, succedeva per esempio anche tra gli Aztechi, che infatti, prima ancora che gli Europei sbarcassero in America, praticavano in punto di morte una loro forma di confessione.
Facendo aumentare i sensi di colpa e minacciando terribili pene infernali per chi non si sottomette o non obbedisce ai sacerdoti (o agli dèi che rappresentano, il ché è lo stesso), si tenta evidentemente di tenere sotto controllo le masse, ma si corre il rischio concreto di ottenere l'effetto contrario di condurre i fedeli verso una maggiore follia anziché verso la guarigione spirituale. Si rischia di contribuire, per così dire, a farli cadere preda delle Furie che rappresentano quei sensi di colpa e che provocano reazioni violente, come dimostrano gli innumerevoli secoli di spietate persecuzioni verso i tanti considerati nemici o eretici, solo perché appartenenti a diversi culti religiosi, gruppi etnici, o, di recente, movimenti politici, tendenze stragiste che i popoli monoteisti condividono con gli antichi dominatori del Messico e non soltanto con loro.
La tecnica di scacciare con violenza le malattie o i demoni, come fanno sia gli sciamani siberiani che i sacerdoti cattolici, può servire a convincere della guarigione colui che crede davvero d'essere posseduto, o costituire genericamente uno sfogo per le tensioni represse, ma le Furie che rappresentano i nostri sensi di colpa e sentimenti negativi continueranno a controllarci e renderci violenti fino a ché eviteremo di affrontarle e confrontarci con loro. Le Furie, come tutti gli dèi, sono parte di noi e vanno anzitutto comprese più che combattute. Occorre trattare e riappacificarci con loro, magari offrendo qualcosa perché ci lascino in pace, purché non si tratti di inutili sacrifici di sangue, masochistiche penitenze senza senso o azioni ai danni di altri, che non farebbero che alimentare il nostro delirio e la spirale di sofferenze irrisolte in cui ci dibattiamo.
Nel mondo dello sciamanesimo e delle società tribali questa offerta poteva essere qualche forma di rituale, atto, componimento o manufatto simbolico, che un tempo sarebbe stato chiamato magico, dato il potere che tentava di esercitare sugli spiriti dentro e fuori di noi, ma che oggi può avere forse come solo nome ancora plausibile quello di Arte, ovvero di terapia artistica. È infatti ormai ampiamente accettato l'uso della musica, del teatro o della pittura come efficaci terapie psicologiche. Del resto gli sciamani siberiani stessi, come gli antichi bardi celtici, sono insieme guaritori, poeti e musicisti, oltre che educatori e profeti, proprio come il mitico Orfeo, che col suo canto placò le Furie facendole piangere durante il suo viaggio negli Inferi (cioè nell'Inconscio) alla ricerca dell'anima di Euridice. Una ricerca quella di Orfeo che corrisponde esattamente a quella degli sciamani che, per curare un malato, a volte dicono di dover andare a cercarne l'anima per reintegrarla al suo posto nel corpo, o a quella del paladino Astolfo, che nell'Orlando Furioso dell'Ariosto va a cercare il senno dell'amico sulla Luna, universalmente considerata il regno dei sogni e dell'immaginazione.
Si tratta sempre di un viaggio iniziatico alla ricerca di sé stessi, del proprio vero io che tenta di ritrovare il suo posto, il suo centro d'equilibrio che gli permetta di esistere e vivere in modo integro. Certi esperimenti di deprivazione del sonno tendono a dimostrare come senza i sogni che rielaborano e integrano ciò che viviamo giorno per giorno, non si riesca a mantenere la propria sanità mentale. L'Arte, che come i sogni pare essere una delle poche attività umane il cui scopo non è minimamente concreto ma puramente spirituale, quando nasce da spontanee esigenze interiori può sicuramente svolgere una simile funzione di catarsi e di sollievo per le tensioni dell'animo, diventare una cura sciamanica per i propri dèi e demoni più intimi, che se tendono a farci impazzire devono pur avere le loro ragioni. Sono queste ragioni che vanno comprese e osservate, se si vuole restare sani di mente, e l'Arte, anche al livello più dilettantesco, è uno dei modi migliori per farlo.
Quando persone digiune di tali meccanismi fanno la facile, abusata e semplicistica equazione tra artista e folle, attribuendo la presunta pazzia di questo o quell'autore alla sua attività creativa, stanno chiaramente confondendo l'ordine in cui di solito si svolgono i due processi, quello dell'impazzire e quello del fare Arte.
L'ordine abituale è ben rappresentato dalla leggenda gallese medievale di Myrddin Willt, Merlino il Selvaggio. Questi impazzisce dopo la battaglia di Arderydd in cui ha visto morire i propri fratelli e ha dovuto uccidere suo nipote, si rifugia quindi nella foresta di Kelyddon vivendo una vita selvatica e, mentre in lui si alternano momenti di follia e di lucidità, diventa un bardo, ossia un cantore che compone versi considerati profetici, evidentemente per alleviare in qualche modo le sofferenze del proprio animo. Una cosa simile accade anche in altre leggende, come quella irlandese del chierico Suibhne, che dopo la battaglia di Mag Rath, a seguito di una maledizione, impazzisce e fugge nelle foreste in preda a un delirio che non gli dà pace, mentre la rapidità dei suoi movimenti frenetici sembra farlo volare sopra la vegetazione. Impazzire significa insomma perdere il contatto con la realtà, sconnettersi dal contesto in cui si vive (il ché, se si devono affrontare eventi insopportabili, non è necessariamente così brutto), ma impazzisce soprattutto chi sperimenta una distanza incolmabile tra le sue azioni e ciò che lui stesso ritiene essere l'ordine naturale o umano del mondo.
Tale distanza, nel caso delle Furie e di Merlino, è ben rappresentata dall'omicidio di un parente, cioè di una parte di sé stessi, l'azione meno ammissibile e accettabile sia in natura che nel consesso civile. Tutto ciò accade però prima che il soggetto si dedichi a un'eventuale attività artistica, che rappresenta semmai il suo tentativo, consapevole o inconscio, di curare da solo i propri disagi psicologici, grandi o piccoli che siano, esplorando e rendendo visibile il proprio mondo interiore, proprio come fanno gli sciamani. Se poi i simboli dei sogni e delle visioni individuali coincidono con miti e archetipi collettivi (come i canti di Myrddin sul fato della Britannia), la sua arte potrà svolgere un'azione positiva e "curativa" anche per i malesseri e le follie della società, diventando, nei casi realmente più efficaci, un patrimonio comune della cultura di cui fa parte.
A questo proposito, nella simbologia medievale troviamo l'immagine del Fool, il Matto, che, come scrive il filosofo William Willeford, "difettandogli una normale comprensione e valutazione dell'ordine, riammette il potere magico del caos" e il Matto è raffigurato nei Tarocchi, che costituiscono una sorta di catalogo di allegorie rinascimentali, come un giullare che viaggia, con gli abiti laceri e il tipico bastone da vagabondo.
Tale iconografia derivava probabilmente dall'aspetto dei chierici vaganti medievali, che facevano i giullari per imbonire le folle, ma, come nel caso del buffone di re Lear, esprimerà poi il valore dialettico della Follia rispetto alla Ragione che, per così dire, regna abitualmente sulla psiche, la capacità cioè di seminare dubbi mettendo in discussione decisioni, certezze, autorità e ogni tipo di legge e ordine precostituito. Il matto-giullare-vagabondo è un aspetto dell'archetipo del mago-artista-guaritore, che smaschera le follie nascoste dietro il velo dell'apparente razionalità e solleva gli spiriti attraverso scherzi e risate liberatorie. Possono infatti esistere opere buffe, o di autori sconosciuti, più curative per i nostri particolari malesseri interiori di quelle del più noto pittore o romanziere, reso "serio" e "autorevole" dalle consacrazioni accademiche o critiche, e, se ci capita di incontrarne qualcuna, la sorpresa aggiunge ulteriore felicità alla scoperta.
Ma anche tra gli artisti che hanno rappresentato la follia o le visioni inconsce, i primi nomi che vengono alla mente sono i più famosi, quelli di pittori come Hieronymus Bosch, Pieter Bruegel, Francisco Goya o Salvador Dalì, che coi loro dipinti e incisioni, spesso grotteschi o arditi come gli scherzi di un folle, hanno mostrato come il Regno della Morte, l'Inferno e l'Inconscio si assomiglino molto, almeno nell'immaginario collettivo.
Tra gli scrittori che hanno tentato di raccontare il mondo della follia e i ragionamenti sottili e insensati che possono condurvi, si possono ricordare invece, su un piano umoristico Erasmo da Rotterdam o Lewis Carroll e, su un piano più drammatico Franz Kafka, August Strindberg, Luigi Pirandello o Mary Jane Ward, autrice del romanzo di ambientazione manicomiale La Fossa dei Serpenti, da cui fu tratto un film negli anni '40.
Altri, come il pittore William Hogarth, il medico e romanziere Mario Tobino, o l'autore teatrale Ascanio Celestini, hanno mostrato e raccontato i malati di mente soprattutto come appaiono dal di fuori, all'interno delle strutture in cui la nostra cosiddetta civiltà ha tentato negli ultimi secoli di isolare e allontanare dalla vista chi ci appare troppo diverso e incomprensibile, chi per qualche motivo, a volte solo per l'accanirsi della sorte o per una malattia indipendente da lui, non ce la fa proprio a vivere e comportarsi come tutti gli altri.
Ci sono poi autori essi stessi realmente impazziti, o che hanno passato periodi in case di cura, a volte anche fino al termine della loro vita, autori come Dino Campana, Guy De Maupassant o Vincent Van Gogh, perché nonostante il totale impegno e dedizione alla propria arte, a volte il malessere è troppo grande e la distanza tra le profondità dell'anima e la superficialità del mondo troppo incolmabile anche per le opere più alte.

Andrea Cantucci


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Un ringraziamento agli autori che ancora una volta hanno inviato il loro prezioso contributo a questo numero. Li invito di nuovo, insieme agli altri autori che ancora non hanno trovato spazio sulle pagine elettroniche di SDP, ad inviare le loro opere entro il
31 gennaio 2015. Il prossimo tema: Le maschere.

Massimo Acciai
Direttore di Segreti di Pulcinella

Contatore visite dal 6 giugno 2011
 
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