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Editoriale

Maschere e persone
di Andrea Cantucci

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MASCHERE E PERSONE
(e segreti di Pulcinella)
 

"La maschera gli assicurava l'incognito e gli dava il coraggio di affrontare il pubblico… Perché il viso è la persona stessa, il corpo non ha nome; e la faccia nascosta non è riconoscibile…"
Dal romanzo Il Capitan Fracassa di Théophile Gautier (1863)

Nel racconto introduttivo al libro Il Folle, scritto dal poeta e filosofo libanese Kahlil Gibran nel 1918, un uomo descrive il modo in cui divenne folle, quando dei ladri rubarono tutte le sue maschere e per la prima volta uscì per le vie col suo vero volto. Tutti lo presero per pazzo ad andarsene in giro con la faccia nuda, ma l'uomo si sentì per la prima volta libero di guardare e di amare il sole, che finalmente illuminava e riscaldava il suo vero volto senza più maschere a nasconderlo, e in quel momento fu felice di diventare folle, d'essere condannato alla solitudine e non essere più compreso dagli altri, se questo era il prezzo della sua libertà.
Il racconto di Gibran è chiaramente una metafora, ma cosa rappresentano tutte quelle maschere di cui l'aspirante folle dovrebbe liberarsi per sentirsi finalmente e pienamente felice? Può essere illuminante considerare che in latino maschera si dice persona. Quindi quando si parla di qualcuno che è una persona, ovvero in generale di ogni comune essere umano, ciò che si sta dicendo, in base all'etimologia originale della parola, è che quell'essere umano è una maschera, che ciò che noi vediamo come un individuo, tutte le sue qualità e difetti, in pratica l'intero carattere che noi gli attribuiamo, o che lui proietta all'esterno, non è altro che un'apparenza superficiale, una personalità fittizia, che l'individuo indossa appunto come se fosse una maschera per celare e nascondere al mondo esterno il suo vero io, un io che non potrebbe essere compreso.
Le metaforiche maschere che indossiamo, per vivere immersi nel mondo dei rapporti sociali, non sono altro che il modo in cui gli altri vogliono vederci, o in cui noi vogliamo farci vedere dagli altri, o più probabilmente una sorta di equilibrio tra queste due immagini, che si influenzano a vicenda, proiettate dai nostri pregiudizi, timori o ipocrisie. Inconsciamente, di fronte ad altri, è quasi inevitabile tentare di adeguarsi al modo in cui vorremmo apparire, o in cui pensiamo che gli altri vogliano vederci, recitando una parte quasi senza accorgercene, così come è automatico che gli altri ci vedano in un modo superficiale basato solo sulla loro personale interpretazione del nostro aspetto e delle nostre azioni, come maschere viste da altre maschere.
Nessuno è in realtà abituato a vedere un'altra persona, cioè un'altra maschera, per ciò che è veramente. Ciò che vediamo dell'altro è il carattere fittizio che l'altro si è costruito e soprattutto l'idea che noi ci facciamo di lui, due immagini che, nonostante si influenzino costantemente a vicenda, difficilmente possono coincidere.
Se potessimo vederci l'un l'altro per ciò che siamo veramente, senza sovrastrutture sociali o morali, senza pregiudizi di nessun tipo, senza tenere conto di come gli altri vogliono vederci o di come noi vogliamo farci vedere da loro, senza più maschere insomma, forse ci accorgeremmo, come nel racconto di Gibran, che in realtà in qualche modo siamo tutti folli, almeno secondo i criteri dell'ordinata e ipocrita società in cui viviamo, e che se ognuno di noi vivesse fino in fondo la propria cosiddetta follia potrebbe essere molto più felice, perché diciamocelo, la società in cui viviamo, con le sue regole concepite soprattutto per difendere i privilegi e i profitti di pochi e per mantenere le masse in uno stato di eterna sudditanza e obbedienza alle norme economiche e politiche concepite e imposte da quei pochi, non è esattamente l'ambiente ideale in cui una persona, cioè una maschera, possa essere felice. A ogni maschera, cioè a ognuno di noi, è richiesto semplicemente di continuare a fingersi qualcun altro, qualcuno che accetta di vivere secondo modi e regole che non siamo stati noi a scegliere. Poi naturalmente, per sfogarsi e illudersi di essere sé stessi almeno nel tempo libero, molti cambiano aspetto, indossano fisicamente un costume o una maschera che in qualche modo sentono più vicini a ciò che sono o vorrebbero essere veramente. Ecco allora che nascono le cerimonie tribali e religiose in cui si indossano le maschere di spiriti o divinità o in cui, come nella religione vudù, si interpretano i ruoli dei diversi dèi ritenendosi da essi posseduti (la parola vudù significa appunto dèi).
Ecco che dagli antichi riti di paesi come la Grecia, l'India, la Cina o il Giappone, nasce l'arte del teatro, in cui gli attori indossano le maschere di caratteri archetipi in cui anche il pubblico può riconoscere qualcosa di sé.
Ecco che nascono le feste romane dei Saturnali, la festa celtica di Samhain (oggi detta Halloween), la festa medievale dei folli e altre cerimonie catartiche collettive, le cui caratteristiche confluiscono poi nelle feste del Carnevale cristiano. Ecco che nascono le rievocazioni storiche, in cui si indossano abiti folcloristici antichi.
Ecco che nascono infine i giochi di ruolo dal vivo e il cosplay (contrazione moderna dell'inglese costume play, cioè recita in costume), che consiste nel vestirsi come i personaggi di fumetti, film o cartoon, in particolare durante certe manifestazioni. Sono tutte occasioni in cui ognuno può travestirsi come preferisce, celandosi dietro una maschera o un costume che assomigli di più al suo vero io, o che per lo meno annulli per un momento l'identità, non meno fittizia e artificiale, che si è costretti a indossare nella vita di tutti i giorni.
Nei rituali più antichi, o ancora oggi in certe culture, l'identificazione tra la maschera e ciò che vi è raffigurato può diventare assoluta. Scrive il grande studioso di mitologia Joseph Campbell: "In una cerimonia primitiva, la maschera viene adorata e vissuta come una vera apparizione dell'essere mitico che essa rappresenta, anche se tutti sanno che un uomo l'ha costruita e che un uomo la sta indossando. Colui che la porta viene identificato con il dio per tutto il tempo del rituale. Egli non rappresenta semplicemente il dio: è il dio."
Da tale completa immedesimazione nel gioco rituale, come in un gioco teatrale scenico a cui si crede con la più totale convinzione, deriva il valore di sacralità dato in generale alle cerimonie religiose, comprese quelle dei sacramenti cristiani. Le religioni quindi sono delle allegorie mistiche, in cui la Verità ultima viene vista rivelarsi mentre chi indossa maschere o vesti sacre ripete ciclicamente, nei riti, delle azioni attribuite agli dèi. Quelle maschere, agli occhi dei credenti, diventano così più vere della realtà e si impongono su di essa. Solo la religione buddista, nelle sue varianti più evolute, mette in guardia dal fatto che, a un diverso livello, le immagini e le maschere di divinità e demoni sono semplici illusioni, proiezioni di un io personale a sua volta illusorio, quello della maschera-persona che tendiamo erroneamente a considerare la nostra vera identità.
In cerimonie come quelle della Società dei Nasi Finti degli Irochesi, le maschere sono usate anche per curare le malattie. Lo sciamano che indossa la maschera, identificandosi con la divinità che rappresenta, scaccia i demoni che avrebbero provocato la malattia, oppure, identificandosi col demone stesso che l'ha provocata, ordina direttamente alla malattia di andarsene. A Sri Lanka si ritiene basti esporre le maschere dei demoni detti Yaksa per curare le malattie da essi provocate, come in una curiosa forma di "vaccino" spirituale.
I moderni psicoterapeuti che hanno usato le maschere seguendo rituali affini a quelli di quei popoli, sembra abbiano visto confermata la funzione positiva che la maschera può svolgere, almeno nella guarigione di malesseri psicologici. Infatti nascondendosi dietro una maschera come a Carnevale, il comportamento si può fare più estroverso e le inibizioni possono cadere, esplorando delle parti della propria personalità, cioè del proprio insieme di maschere interiori, che comunemente non mostriamo al mondo esterno e a volte neppure a noi stessi. Non poter essere visti sotto la maschera può contribuire a dissipare il timore di essere giudicati, eliminando l'idea che lo sguardo altrui possa influenzarci, o sentendo di doverci adeguare a come gli altri ora ci vedono, e quindi lasciandoci andare a identificarci col ruolo che abbiamo scelto di interpretare.
Era ciò che facevano anche agli attori della Commedia dell'Arte, che finivano per identificarsi agli occhi del pubblico con le maschere che indossavano in scena. Le maschere teatrali comiche erano già usate nei ludi romani, o nei riti di Dioniso dell'antica Grecia da cui sarebbe poi nato il teatro, e anche Momo, il dio greco della satira e delle burle, era raffigurato con una maschera. Tra l'altro, maschere famose come Pulcinella e Arlecchino sembra siano derivate da antichi demoni con la stessa fisionomia o con nomi simili. Si può quindi ipotizzare che anche le recite o cerimonie originarie in cui tali maschere venivano usate, inizialmente servissero a esorcizzare i malanni o la sfortuna, grazie alla rappresentazione delle disavventure di quei personaggi. Tra le più classiche opere teatrali con protagonista Pulcinella, ce ne sono infatti molte che si svolgono in cimiteri o in situazioni macabre, come a voler esorcizzare la morte stessa ridendoci sopra.
Nella letteratura ottocentesca si trovano esempi di come una maschera neutra annulli la personalità, come nel libro di Dumas Il Visconte di Bragelonne (più noto come La Maschera di Ferro), o di come una maschera estrosa, tipica della Commedia dell'Arte, possa invece esaltare e liberare il carattere, rendendo estroverso e avventuroso chi prima era timido e impacciato, come nel romanzo Il Capitan Fracassa di Théophile Gautier.
Il legame tra la maschera e la malattia si ritrova poi nel racconto gotico La Maschera della Morte Rossa di Edgar Allan Poe, ma nella letteratura popolare gli spiriti beffardi o inquietanti, divini o demoniaci, incarnati dalle maschere, prendono per lo più la forma di fuorilegge-giustizieri o fantomatici criminali. Il leggendario capostipite del genere si può considerare Robin Hood (Hood vuol dire cappuccio, poiché era sotto dei cappucci che i banditi medievali inglesi celavano il loro volto), immortalato in antiche ballate e versioni teatrali più volte rimaneggiate, prima di approdare ai romanzi a opera di Walter Scott e di Alexandre Dumas.
Quest'ultimo scrisse anche Il Tulipano Nero, su un giustiziere mascherato che lottava per la causa della Rivoluzione Francese. Nello stesso contesto agì poi anche Scaramouche, versione francese della maschera d'origine napoletana Scaramuccia, portata al successo nel XVII secolo dall'attore Tiberio Fiorilli, prima di essere ripresa nei romanzi di Raphael Sabatini nel 1921, sotto forma di un eroe rivoluzionario, ideale anello di congiunzione tra le maschere della Commedia dell'Arte e i giustizieri mascherati della letteratura.
Intanto tra il 1909 e il 1911, nei romanzi francesi erano apparsi dei fuorilegge mascherati ben più inquietanti e senza scrupoli nel perseguire scopi puramente egoistici: Zigomar, Erik il Fantasma dell'Opera e Fantômas.
Le maschere e gli abiti neri degli ultimi due, tra gli anni '10 e gli anni '30 del '900, ispirarono i costumi di molti successivi fuorilegge-giustizieri che agivano a fin di bene, anche se a volte con particolare durezza, sulle pagine dei romanzi pulp americani, come El Zorro (La Volpe, in spagnolo), The Shadow (L'Ombra), The Spider (Il Ragno), The Phantom Detective (L'Investigatore Fantasma), o The Black Bat (Il Pipistrello Nero).
Da questi personaggi pulp derivarono poi gli eroi mascherati dei fumetti, che spesso ne ricalcavano le caratteristiche principali ma che col tempo, nelle loro versioni più evolute e adulte, finirono per esplorare ben più a fondo il complesso rapporto psicologico tra maschere e personalità, tra identità reali e identità segrete.
A proposito dell'ambiguo potere delle maschere, ci sono stati anche attori che, essendosi abituati a recitare sempre e soltanto con indosso una maschera, si sono scoperti col tempo del tutto incapaci di recitare senza. Chi scrive ha recitato di fronte a un pubblico, sia con la maschera che senza, e può confermare che il rischio esiste. La maschera può possederti e fagocitarti. Mettendola diventi il personaggio, ne assumi all'istante toni e atteggiamenti. Nel toglierla sembra di strapparsi via il volto e ciò può ben destabilizzare chi non ha un carattere molto forte. Per subire un simile effetto negativo non è neanche necessario si tratti di una maschera vera e propria, basta un semplice make-up se si interpreta un archetipo particolarmente potente.
Basta pensare all'attore che qualche anno fa interpretò in un film, opportunamente truccato, il personaggio del Joker, versione moderna del trickster, l'imbroglione divino che, come il dio Loki delle saghe nordiche, ride mentre conduce tutti e tutto alla rovina insieme a sé stesso, solo per seguire un perverso istinto distruttivo.
L'attore in questione si immedesimò a tal punto nell'ambiguo personaggio da vincere un premio Oscar, ma morì suicida prima ancora che il film fosse uscito nelle sale. Forse ciò che gli è mancato era semplicemente un esperto sciamano o psicoterapeuta vicino, che lo aiutasse a rapportarsi alla maschera che lo possedeva.
Casualmente quello stesso attore morendo lasciò in sospeso un altro film, in cui interpretava un personaggio che portava una maschera presentando uno spettacolo magico. Il regista allora, per completare la pellicola senza dover girare di nuovo le scene già realizzate, ebbe l'idea di far cambiare per magia il volto del personaggio ogni volta che si metteva e toglieva la maschera, in modo da poterlo far interpretare da altri attori nelle scene mancanti. Così, per una pura necessità tecnica, finì per rappresentare benissimo il modo in cui le persone possono cambiare volto, a seconda delle maschere più o meno metaforiche che indossano.

Andrea Cantucci


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Un ringraziamento agli autori che ancora una volta hanno inviato il loro prezioso contributo a questo numero. Li invito di nuovo, insieme agli altri autori che ancora non hanno trovato spazio sulle pagine elettroniche di SDP, ad inviare le loro opere entro il
30 giugno 2015. Il prossimo tema: Il ritorno.

Massimo Acciai
Direttore di Segreti di Pulcinella

Contatore visite dal 6 giugno 2011
 
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