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Editoriale
Progetto Emmaus
Il romanzo thriller di Marco Bazzato, autore
de
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di
Marco Bazzato
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Catalogo
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MASCHERE E PERSONE
(e segreti di Pulcinella)
"La maschera gli assicurava l'incognito e gli
dava il coraggio di affrontare il pubblico… Perché
il viso è la persona stessa, il corpo non ha nome; e
la faccia nascosta non è riconoscibile…"
Dal romanzo Il Capitan Fracassa di Théophile
Gautier (1863)
Nel racconto introduttivo al libro Il Folle, scritto
dal poeta e filosofo libanese Kahlil Gibran nel
1918, un uomo descrive il modo in cui divenne folle,
quando dei ladri rubarono tutte le sue maschere e
per la prima volta uscì per le vie col suo vero
volto. Tutti lo presero per pazzo ad andarsene in
giro con la faccia nuda, ma l'uomo si sentì per la
prima volta libero di guardare e di amare il sole,
che finalmente illuminava e riscaldava il suo vero
volto senza più maschere a nasconderlo, e in quel
momento fu felice di diventare folle, d'essere
condannato alla solitudine e non essere più compreso
dagli altri, se questo era il prezzo della sua
libertà.
Il racconto di Gibran è chiaramente una metafora, ma
cosa rappresentano tutte quelle maschere di cui
l'aspirante folle dovrebbe liberarsi per sentirsi
finalmente e pienamente felice? Può essere
illuminante considerare che in latino maschera si
dice persona. Quindi quando si parla di qualcuno che
è una persona, ovvero in generale di ogni comune
essere umano, ciò che si sta dicendo, in base
all'etimologia originale della parola, è che quell'essere
umano è una maschera, che ciò che noi vediamo come
un individuo, tutte le sue qualità e difetti, in
pratica l'intero carattere che noi gli attribuiamo,
o che lui proietta all'esterno, non è altro che
un'apparenza superficiale, una personalità fittizia,
che l'individuo indossa appunto come se fosse una
maschera per celare e nascondere al mondo esterno il
suo vero io, un io che non potrebbe essere compreso.
Le metaforiche maschere che indossiamo, per vivere
immersi nel mondo dei rapporti sociali, non sono
altro che il modo in cui gli altri vogliono vederci,
o in cui noi vogliamo farci vedere dagli altri, o
più probabilmente una sorta di equilibrio tra queste
due immagini, che si influenzano a vicenda,
proiettate dai nostri pregiudizi, timori o
ipocrisie. Inconsciamente, di fronte ad altri, è
quasi inevitabile tentare di adeguarsi al modo in
cui vorremmo apparire, o in cui pensiamo che gli
altri vogliano vederci, recitando una parte quasi
senza accorgercene, così come è automatico che gli
altri ci vedano in un modo superficiale basato solo
sulla loro personale interpretazione del nostro
aspetto e delle nostre azioni, come maschere viste
da altre maschere.
Nessuno è in realtà abituato a vedere un'altra
persona, cioè un'altra maschera, per ciò che è
veramente. Ciò che vediamo dell'altro è il carattere
fittizio che l'altro si è costruito e soprattutto
l'idea che noi ci facciamo di lui, due immagini che,
nonostante si influenzino costantemente a vicenda,
difficilmente possono coincidere.
Se potessimo vederci l'un l'altro per ciò che siamo
veramente, senza sovrastrutture sociali o morali,
senza pregiudizi di nessun tipo, senza tenere conto
di come gli altri vogliono vederci o di come noi
vogliamo farci vedere da loro, senza più maschere
insomma, forse ci accorgeremmo, come nel racconto di
Gibran, che in realtà in qualche modo siamo tutti
folli, almeno secondo i criteri dell'ordinata e
ipocrita società in cui viviamo, e che se ognuno di
noi vivesse fino in fondo la propria cosiddetta
follia potrebbe essere molto più felice, perché
diciamocelo, la società in cui viviamo, con le sue
regole concepite soprattutto per difendere i
privilegi e i profitti di pochi e per mantenere le
masse in uno stato di eterna sudditanza e obbedienza
alle norme economiche e politiche concepite e
imposte da quei pochi, non è esattamente l'ambiente
ideale in cui una persona, cioè una maschera, possa
essere felice. A ogni maschera, cioè a ognuno di
noi, è richiesto semplicemente di continuare a
fingersi qualcun altro, qualcuno che accetta di
vivere secondo modi e regole che non siamo stati noi
a scegliere. Poi naturalmente, per sfogarsi e
illudersi di essere sé stessi almeno nel tempo
libero, molti cambiano aspetto, indossano
fisicamente un costume o una maschera che in qualche
modo sentono più vicini a ciò che sono o vorrebbero
essere veramente. Ecco allora che nascono le
cerimonie tribali e religiose in cui si indossano le
maschere di spiriti o divinità o in cui, come nella
religione vudù, si interpretano i ruoli dei diversi
dèi ritenendosi da essi posseduti (la parola vudù
significa appunto dèi).
Ecco che dagli antichi riti di paesi come la Grecia,
l'India, la Cina o il Giappone, nasce l'arte del
teatro, in cui gli attori indossano le maschere di
caratteri archetipi in cui anche il pubblico può
riconoscere qualcosa di sé.
Ecco che nascono le feste romane dei Saturnali, la
festa celtica di Samhain (oggi detta Halloween), la
festa medievale dei folli e altre cerimonie
catartiche collettive, le cui caratteristiche
confluiscono poi nelle feste del Carnevale
cristiano. Ecco che nascono le rievocazioni
storiche, in cui si indossano abiti folcloristici
antichi.
Ecco che nascono infine i giochi di ruolo dal vivo e
il cosplay (contrazione moderna dell'inglese costume
play, cioè recita in costume), che consiste nel
vestirsi come i personaggi di fumetti, film o
cartoon, in particolare durante certe
manifestazioni. Sono tutte occasioni in cui ognuno
può travestirsi come preferisce, celandosi dietro
una maschera o un costume che assomigli di più al
suo vero io, o che per lo meno annulli per un
momento l'identità, non meno fittizia e artificiale,
che si è costretti a indossare nella vita di tutti i
giorni.
Nei rituali più antichi, o ancora oggi in certe
culture, l'identificazione tra la maschera e ciò che
vi è raffigurato può diventare assoluta. Scrive il
grande studioso di mitologia Joseph Campbell: "In
una cerimonia primitiva, la maschera viene adorata e
vissuta come una vera apparizione dell'essere mitico
che essa rappresenta, anche se tutti sanno che un
uomo l'ha costruita e che un uomo la sta indossando.
Colui che la porta viene identificato con il dio per
tutto il tempo del rituale. Egli non rappresenta
semplicemente il dio: è il dio."
Da tale completa immedesimazione nel gioco rituale,
come in un gioco teatrale scenico a cui si crede con
la più totale convinzione, deriva il valore di
sacralità dato in generale alle cerimonie religiose,
comprese quelle dei sacramenti cristiani. Le
religioni quindi sono delle allegorie mistiche, in
cui la Verità ultima viene vista rivelarsi mentre
chi indossa maschere o vesti sacre ripete
ciclicamente, nei riti, delle azioni attribuite agli
dèi. Quelle maschere, agli occhi dei credenti,
diventano così più vere della realtà e si impongono
su di essa. Solo la religione buddista, nelle sue
varianti più evolute, mette in guardia dal fatto
che, a un diverso livello, le immagini e le maschere
di divinità e demoni sono semplici illusioni,
proiezioni di un io personale a sua volta illusorio,
quello della maschera-persona che tendiamo
erroneamente a considerare la nostra vera identità.
In cerimonie come quelle della Società dei Nasi
Finti degli Irochesi, le maschere sono usate anche
per curare le malattie. Lo sciamano che indossa la
maschera, identificandosi con la divinità che
rappresenta, scaccia i demoni che avrebbero
provocato la malattia, oppure, identificandosi col
demone stesso che l'ha provocata, ordina
direttamente alla malattia di andarsene. A Sri Lanka
si ritiene basti esporre le maschere dei demoni
detti Yaksa per curare le malattie da essi
provocate, come in una curiosa forma di "vaccino"
spirituale.
I moderni psicoterapeuti che hanno usato le maschere
seguendo rituali affini a quelli di quei popoli,
sembra abbiano visto confermata la funzione positiva
che la maschera può svolgere, almeno nella
guarigione di malesseri psicologici. Infatti
nascondendosi dietro una maschera come a Carnevale,
il comportamento si può fare più estroverso e le
inibizioni possono cadere, esplorando delle parti
della propria personalità, cioè del proprio insieme
di maschere interiori, che comunemente non mostriamo
al mondo esterno e a volte neppure a noi stessi. Non
poter essere visti sotto la maschera può contribuire
a dissipare il timore di essere giudicati,
eliminando l'idea che lo sguardo altrui possa
influenzarci, o sentendo di doverci adeguare a come
gli altri ora ci vedono, e quindi lasciandoci andare
a identificarci col ruolo che abbiamo scelto di
interpretare.
Era ciò che facevano anche agli attori della
Commedia dell'Arte, che finivano per identificarsi
agli occhi del pubblico con le maschere che
indossavano in scena. Le maschere teatrali comiche
erano già usate nei ludi romani, o nei riti di
Dioniso dell'antica Grecia da cui sarebbe poi nato
il teatro, e anche Momo, il dio greco della satira e
delle burle, era raffigurato con una maschera. Tra
l'altro, maschere famose come Pulcinella e
Arlecchino sembra siano derivate da antichi demoni
con la stessa fisionomia o con nomi simili. Si può
quindi ipotizzare che anche le recite o cerimonie
originarie in cui tali maschere venivano usate,
inizialmente servissero a esorcizzare i malanni o la
sfortuna, grazie alla rappresentazione delle
disavventure di quei personaggi. Tra le più
classiche opere teatrali con protagonista
Pulcinella, ce ne sono infatti molte che si svolgono
in cimiteri o in situazioni macabre, come a voler
esorcizzare la morte stessa ridendoci sopra.
Nella letteratura ottocentesca si trovano esempi di
come una maschera neutra annulli la personalità,
come nel libro di Dumas Il Visconte di Bragelonne
(più noto come La Maschera di Ferro), o di come una
maschera estrosa, tipica della Commedia dell'Arte,
possa invece esaltare e liberare il carattere,
rendendo estroverso e avventuroso chi prima era
timido e impacciato, come nel romanzo Il Capitan
Fracassa di Théophile Gautier.
Il legame tra la maschera e la malattia si ritrova
poi nel racconto gotico La Maschera della Morte
Rossa di Edgar Allan Poe, ma nella letteratura
popolare gli spiriti beffardi o inquietanti, divini
o demoniaci, incarnati dalle maschere, prendono per
lo più la forma di fuorilegge-giustizieri o
fantomatici criminali. Il leggendario capostipite
del genere si può considerare Robin Hood (Hood vuol
dire cappuccio, poiché era sotto dei cappucci che i
banditi medievali inglesi celavano il loro volto),
immortalato in antiche ballate e versioni teatrali
più volte rimaneggiate, prima di approdare ai
romanzi a opera di Walter Scott e di Alexandre
Dumas.
Quest'ultimo scrisse anche Il Tulipano Nero, su un
giustiziere mascherato che lottava per la causa
della Rivoluzione Francese. Nello stesso contesto
agì poi anche Scaramouche, versione francese della
maschera d'origine napoletana Scaramuccia, portata
al successo nel XVII secolo dall'attore Tiberio
Fiorilli, prima di essere ripresa nei romanzi di
Raphael Sabatini nel 1921, sotto forma di un eroe
rivoluzionario, ideale anello di congiunzione tra le
maschere della Commedia dell'Arte e i giustizieri
mascherati della letteratura.
Intanto tra il 1909 e il 1911, nei romanzi francesi
erano apparsi dei fuorilegge mascherati ben più
inquietanti e senza scrupoli nel perseguire scopi
puramente egoistici: Zigomar, Erik il Fantasma
dell'Opera e Fantômas.
Le maschere e gli abiti neri degli ultimi due, tra
gli anni '10 e gli anni '30 del '900, ispirarono i
costumi di molti successivi fuorilegge-giustizieri
che agivano a fin di bene, anche se a volte con
particolare durezza, sulle pagine dei romanzi pulp
americani, come El Zorro (La Volpe, in spagnolo),
The Shadow (L'Ombra), The Spider (Il Ragno), The
Phantom Detective (L'Investigatore Fantasma), o The
Black Bat (Il Pipistrello Nero).
Da questi personaggi pulp derivarono poi gli eroi
mascherati dei fumetti, che spesso ne ricalcavano le
caratteristiche principali ma che col tempo, nelle
loro versioni più evolute e adulte, finirono per
esplorare ben più a fondo il complesso rapporto
psicologico tra maschere e personalità, tra identità
reali e identità segrete.
A proposito dell'ambiguo potere delle maschere, ci
sono stati anche attori che, essendosi abituati a
recitare sempre e soltanto con indosso una maschera,
si sono scoperti col tempo del tutto incapaci di
recitare senza. Chi scrive ha recitato di fronte a
un pubblico, sia con la maschera che senza, e può
confermare che il rischio esiste. La maschera può
possederti e fagocitarti. Mettendola diventi il
personaggio, ne assumi all'istante toni e
atteggiamenti. Nel toglierla sembra di strapparsi
via il volto e ciò può ben destabilizzare chi non ha
un carattere molto forte. Per subire un simile
effetto negativo non è neanche necessario si tratti
di una maschera vera e propria, basta un semplice
make-up se si interpreta un archetipo
particolarmente potente.
Basta pensare all'attore che qualche anno fa
interpretò in un film, opportunamente truccato, il
personaggio del Joker, versione moderna del
trickster, l'imbroglione divino che, come il dio
Loki delle saghe nordiche, ride mentre conduce tutti
e tutto alla rovina insieme a sé stesso, solo per
seguire un perverso istinto distruttivo.
L'attore in questione si immedesimò a tal punto
nell'ambiguo personaggio da vincere un premio Oscar,
ma morì suicida prima ancora che il film fosse
uscito nelle sale. Forse ciò che gli è mancato era
semplicemente un esperto sciamano o psicoterapeuta
vicino, che lo aiutasse a rapportarsi alla maschera
che lo possedeva.
Casualmente quello stesso attore morendo lasciò in
sospeso un altro film, in cui interpretava un
personaggio che portava una maschera presentando uno
spettacolo magico. Il regista allora, per completare
la pellicola senza dover girare di nuovo le scene
già realizzate, ebbe l'idea di far cambiare per
magia il volto del personaggio ogni volta che si
metteva e toglieva la maschera, in modo da poterlo
far interpretare da altri attori nelle scene
mancanti. Così, per una pura necessità tecnica, finì
per rappresentare benissimo il modo in cui le
persone possono cambiare volto, a seconda delle
maschere più o meno metaforiche che indossano.
Andrea Cantucci
* * *
Un ringraziamento agli autori che ancora una volta
hanno inviato il loro prezioso contributo a questo
numero. Li invito di nuovo, insieme agli altri
autori che ancora non hanno trovato spazio sulle
pagine elettroniche di SDP, ad inviare le loro opere
entro il
30 giugno 2015. Il prossimo tema:
Il ritorno.
Massimo Acciai
Direttore di Segreti di Pulcinella
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