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Editoriale

Parole femminili in un mondo maschile
di Massimo Acciai Baggiani

Parole femminili in un mondo maschile
 

 

 

"Di' sì - e sei sana -
Ribellati - e subito sei pericolosa -
E ti trattano con catene -"
Emily Dickinson

"Non è necessario picchiare le donne se si riesce a farle sentire in colpa."
Erica Jong


Rispettate e dotate di influenza in certe società antiche come quella etrusca o celtica, le donne sono state soggette all'autorità maschile per gran parte della Storia e nella maggior parte dei paesi, sempre passando dalla sudditanza verso i padri a quella verso i mariti. È accaduto sia in semplici società tribali in cui potevano coesistere credenze in più divinità, anche femminili, che in organizzazioni sociali complesse, in cui esigenze di accentramento militare imperialistico hanno quasi sempre finito per condurre all'elaborazione di religioni monoteiste oppressive di stampo maschilista. Ma l'oppressione dell'uomo sulla donna è stata esercitata in particolare laddove un dio patriarcale è stato immaginato come supremo dominatore su tutte le cose.
Caso tipico è quello del dio celeste dell'area mediorientale e mediterranea detto di volta in volta Dyaus, Zeus, Giove, Geova, Jahvé oppure Enlil, Elohim, El, Bel, Baal, Illah, Allah (e se l'etimologia di tutta la prima serie di nomi è riconducibile al significato di Cielo Diurno, quelli della seconda si possono tradurre anche come signore, padrone, dominatore, aggettivi applicabili anche all'oppressione maschile nei confronti delle donne).
Secondo i testi ebraici confluiti poi nella tradizione biblica cristiana, il definitivo culto monoteistico del dio padre maschile fu instaurato con la forza, sostituendo i precedenti culti ebraici politeisti, dal re d'Israele Giosia, vissuto intorno al VI secolo a.C. In tale occasione soprattutto sarebbe stata distrutta, per eliminarne il ricordo, ogni raffigurazione della moglie del dio supremo e sua controparte femminile, la dea chiamata dagli ebrei Asherat e da altri popoli Ishtar, Astarte, Easter, Era, ovvero una delle tante personificazioni della dea madre identificata con la terra, la natura, la fertilità, la fecondità, la maternità, l'abbondanza, insomma col pratico spirito femminile dedito alla generazione e alla cura di tutto ciò che è vita e nutrimento.
Nel testo biblico si evita perfino di dire chi fosse Asherat, le cui chiare raffigurazioni accanto al marito Jahvé sono state riportate alla luce dall'archeologia di recente, e la si definisce come un non meglio identificato "feticcio", pur di non ammettere che il dio maschile in origine non era solo. All'inizio di quella Bibbia che si può ritenere sia stata messa per iscritto per volontà dello stesso re Giosia, anche se da lui attribuita astutamente a Mosé, in quel testo ritenuto sacro chiamato Thorà dagli ebrei e Pentateuco dai cristiani, naturalmente non c'è più traccia della dea Asherat che doveva essere presente nelle originarie versioni orali.
Dovette essere eliminata dal testo ufficiale anche Lilith, che in versioni presumibilmente più antiche della leggenda era la prima moglie di Adamo, una moglie che rifiutava di sottomettersi all'uomo. Così il primo personaggio femminile della Bibbia fu Ewa, anch'essa in origine una dea mediorientale collegata all'eterna giovinezza, ma qui ridotta a una semplice donna, per di più generata in modo del tutto incongruo attraverso il corpo di un uomo. Del resto anche quella che in origine era la dea Ishtar-Asherat evidentemente è stata poi umanizzata sotto forma di donna comune in un altro testo ebraico, come protagonista del Libro di Ester.
Nel successivo Cristianesimo che si pretese di far derivare dal culto ebraico con vari e forzati aggiustamenti, ispirati piuttosto al politeismo egizio e europeo, nonostante l'aggiunta nelle sette cattolica e ortodossa di una vera e propria divinità femminile come la sacra madre del messia, che dovendo sostituire le molte dee della mitologia greco-romana finì per essere raffigurata con molti volti e nomi diversi da un luogo di culto all'altro, la posizione di sudditanza della Donna rispetto all'Uomo fu del tutto confermata. La cosiddetta madre di dio, pur diffusissimo oggetto di adorazione da parte dei fedeli, non è considerata neanche abbastanza importante o potente da figurare come membro della trinità cattolica, sostituita dal generico e vago spirito santo che l'avrebbe fecondata. Rispetto alle sue versioni più antiche appare così ridotta a un mero ricettacolo dello spirito divino, come le varie ninfe e donne rese incinte da Zeus nei miti greci per generare i suoi tanti figli.
Di conseguenza, con la scusa che il messia si sarebbe circondato solo di discepoli maschi, la possibilità di essere sacerdoti o pastori è ancora negata alle donne da quasi tutti i culti cristiani. Storicamente è stata permessa almeno da una particolare setta come quella dei catari, che non a caso fu considerata eretica e sterminata, o attualmente da una chiesa protestante come quella anglicana, rinnovando l'antica tradizione che tra i celti britannici riconosceva tanto a uomini che a donne la possibilità di diventare sacerdoti druidici.
Per secoli i cristiani hanno invece ritenuto le donne addirittura prive di anima, in questo dimostrandosi a lungo meno avanzati e civili di certi popoli antichi, come gli Egizi o i Greci, che invece attribuivano alle anime delle donne come a quelle degli uomini la facoltà di sopravvivere nell'aldilà. L'idea dell'assenza di un'anima deve essere servita ai cristiani più fanatici a tacitare i rimorsi per tutte le donne periodicamente perseguitate e bruciate come presunte streghe, ogni volta che cercavano di far rivivere antichi riti, di dedicarsi ad attività riservate al sesso dominante, di vivere una sessualità più libera o anche solo di riunirsi in segreto tra loro.
Non parliamo poi di come le donne sono trattate ancora oggi in certe società islamiche fondamentaliste tra le più arretrate, che oltre a imporre l'obbligo di abbigliamenti più o meno pesanti (analoghi comunque a quelli imposti alle donne cristiane fino ad alcuni secoli fa), possono permettere o addirittura ordinare l'uccisione di donne in casi come l'adulterio, o perseguitarle, rinchiuderle e torturarle per aver espresso idee femministe.
Del resto se il paradiso musulmano promette agli uomini infiniti godimenti, anche sessuali, con molti spiriti femminili contemporaneamente a disposizione del fedele defunto, non è molto chiaro quale destino riservi invece alle donne. Fortunatamente nel mondo islamico la condizione della donna può essere diversissima tra un paese e l'altro e per esempio in certe nazioni nordafricane non è molto dissimile da quella vissuta dalle europee, anche per l'influenza di una passata cultura coloniale particolarmente liberale come quella francese.
Invece in un paese come l'India la colonizzazione da parte della ben più rigida e bigotta cultura vittoriana inglese contribuì solo moderatamente alla liberazione della donna, per esempio proibendo, almeno in teoria, l'obbligo dei suicidi rituali per le vedove, ma dal punto di vista della libertà nei costumi sessuali e nei matrimoni ha avuto piuttosto un'influenza negativa, che sommandosi all'altrettanto repressiva cultura islamica che aveva dominato il paese in precedenza, contribuì a diffondere in tutta la società indiana un esagerato senso del pudore che in pubblico proibisce tuttora qualunque contatto fisico tra uomini e donne.
Anche nei paesi occidentali, per vedere nascere un'idea di riscatto tra le donne stesse, si dovettero aspettare le rivoluzioni illuministe negli Stati Uniti d'America e in Francia, ma anche in quelle occasioni le speranze di liberazione della donna furono del tutto frustrate. Nonostante l'uso di allegorie femminili per raffigurare le nuove idee di libertà, queste non vennero applicate che agli uomini, mentre le rivendicazioni femminili che iniziavano a farsi sentire continuarono a lungo a essere puntualmente rigettate da parlamenti di soli maschi.
In Italia, per avere il suffragio universale esteso anche alle donne si dovette aspettare l'instaurazione della repubblica alla metà del XX secolo e ancora di più per l'abrogazione delle leggi che autorizzavano il delitto d'onore da parte dei mariti traditi, tanto che negli anni '60 la condizione generale delle donne nel nostro paese era ancora per molti versi meno libera rispetto ai paesi nordafricani più evoluti di cui sopra.
In nazioni rinnovatesi o costituitesi nel corso del XX secolo, come l'Unione Sovietica o Israele, si è cercato di realizzare la parità rispetto all'uomo offrendo alle donne la possibilità, se non l'obbligo, di svolgere gli stessi lavori pesanti, compreso quello del soldato. Ma è difficile accettare che l'adeguamento tra i sessi debba realizzarsi attraverso l'esercizio di azioni violente e discutibili, come quella di uccidere altri esseri umani.
Piuttosto che far diventare le donne capaci delle stesse violenze degli uomini, potrebbe risultare ben più utile per la convivenza dell'intera umanità cercare di limitare l'uso della violenza fisica da parte di tutti. Tra l'altro se oggi, nei paesi che si dicono civili e democratici, è riconosciuta legalmente una completa parità di genere, continuano però ancora a verificarsi moltissimi casi di ricatti sessuali e di violenze fisiche sulle donne, che dimostrano come tale parità non sia ancora accettata e fatta propria profondamente da molti uomini, che nonostante tutto continuano a subire l'influenza di una cultura discriminatoria mai completamente superata.
Ma certe restrizioni inaccettabili alla libertà delle donne, oltre a derivare da motivi culturali, possono essere aggravate anche da situazioni di estrema crisi e indigenza. Nel nostro modernissimo XXI secolo in molti paesi poveri, in particolare africani, si sta ancora oggi diffondendo sempre più l'usanza di far sposare quelle che sono ancora delle bambine, subito dopo che hanno avuto le mestruazioni, con un marito imposto dai genitori per motivi di convenienza economica, cosa che porta molte piccole madri a una prematura morte per parto…
Qualunque riscatto da parte delle donne, deve passare attraverso una sempre più profonda presa di coscienza collettiva delle ingiustizie subite e delle condizioni di vita attuali e, qualsiasi mezzo d'espressione si scelga, tale processo è reso possibile prima di tutto da testi, racconti, saggi o opere di qualsiasi altro genere che affrontino l'argomento grazie a ricerche e testimonianze delle donne stesse. È insomma indispensabile che siano delle autrici ad esporre direttamente e in prima persona i loro problemi, sia pratici che esistenziali.
Se nell'Europa antica poetesse come Saffo e Anite in Grecia, o Maria di Francia in Inghilterra erano solo eccezioni, in una cultura come quella giapponese l'arte dello scrivere era affidata in prevalenza alle donne, essendo riservate agli uomini attività ritenute più serie. Così fu la dama di corte Murasaki Shikibu a scrivere nell'XI secolo il romanzo fondamentale della letteratura nipponica, la Storia di Genji il Principe Splendente.
In occidente invece, essendo letteratura e teatro saldamente in mano a autori maschi, nell'arco di dieci secoli si è passati dalla commedia "Le Donne a Parlamento" di Aristofane, in cui si ipotizza un miglioramento della società in senso comunitario se fossero le donne a comandare, a "La Bisbetica Domata" di Shakespeare, in cui al contrario si sancisce la necessità che le donne siano il più possibile obbedienti e sottomesse ai mariti.
Dall'antica ma progredita civiltà greca, in cui già Platone ne "La Repubblica" teorizzava l'uguaglianza tra uomini e donne (anche se la realtà sociale di città come Atene era molto diversa), si era passati al ben più oscurantista e arretrato pensiero cristiano, che neanche con la tardiva diffusione di idee umaniste nel corso del Rinascimento riuscì a prendere in considerazione i diritti delle donne, se non molti secoli dopo. Si dovette aspettare l'epoca dei lumi del XVIII secolo per trovare anche solo delle figure di protagoniste femminili dal carattere indipendente viste sotto una luce positiva, come la "Moll Flanders" di Defoe o "La Locandiera" di Goldoni, e l'inizio del XIX secolo perché almeno in occidente riuscissero a imporsi dei libri scritti da donne.
Nel '700 si diffusero a partire dalla Francia i primi romanzi libertini, scritti da uomini celati dall'anonimato ma spesso presentati come memorie di donne di facili costumi, che narravano i dettagli della loro vita intima in prima persona, sulla falsariga dell'immaginaria biografia dell'ex-prostituta Moll Flanders ma con molti dettagli piccanti in più. All'epoca quindi l'arte dello scrivere non solo era riservata agli uomini, ma anche considerata scandalosa quando era attribuita alle donne. Perciò una vera scrittrice come la gentildonna inglese Jane Austen scriveva in assoluta segretezza, senza far trapelare nulla della sua attività letteraria fuori dell'ambito famigliare, temendo che la cosa potesse screditarla in società compromettendo il suo buon nome.
I libri della Austen, da lei redatti a partire dal 1796, uscirono anonimi poco prima della sua prematura scomparsa avvenuta nel 1817, e solo dopo la sua morte furono stampati col nome della scrittrice, ancor oggi ritenuta tra le più lette al mondo. Nei due secoli a venire i suoi romanzi avrebbero costituito il modello di quello che, a torto o a ragione, è ritenuto il più tipico genere femminile, quello di argomento domestico e sentimentale, o letteratura rosa. Ma poche delle sue molte epigoni ebbero sagacia e ironia paragonabili a quelle della Austen, nel tratteggiare l'ipocrita perbenismo della società borghese del suo tempo.
Altrettanto riservata sarebbe stata più tardi l'attività di scrittrice dell'americana Emily Dickinson, che in vita pubblicò solo sette delle sue quasi 1800 poesie. Sono solo due esempi di come il modello di una letteratura (e quindi di una cultura) gestita dai soli uomini, abbia negato a delle grandi autrici i riconoscimenti in vita che la loro acuta sensibilità artistica avrebbe meritato. E per due che sono giunte alla fama postume, chissà quante altre ottime scrittrici non hanno mai neanche potuto essere conosciute dal grande pubblico.
Ben più sfrontata e intraprendente fu l'inglese Mary Shelley, che non solo sosteneva l'uguaglianza tra i sessi ma anche la pratica dell'amore libero, un secolo e mezzo prima della cosiddetta liberazione sessuale, e che col suo romanzo gotico "Frankenstein" creò di fatto la prima autentica storia di fantascienza, anche se il suo contributo al genere è sempre stato ingiustamente sottovalutato a favore dei successivi scrittori maschi.
Ancora più provocatoria fu la francese Amandine-Lucie-Aurore Dupin, che pubblicò i suoi romanzi sotto lo pseudonimo maschile di George Sand, ma non per questo nascose la propria vera identità. Sfruttò anzi l'ambiguità di quel nome per indossare provocatoriamente abiti da uomo, mentre coi suoi libri sosteneva e diffondeva idee femministe. L'uso di pseudonimi maschili da parte delle scrittrici era molto comune nell'800, come se le opere scritte da donne potessero essere pubblicate solo a condizione che queste celassero ai lettori il proprio sesso. Ma lo stratagemma poteva anche servire alle donne stesse, per rivendicare e ottenere una libertà d'espressione fino ad allora di quasi esclusivo appannaggio maschile. Sia gli abiti che il nome da uomo della Sand rappresentavano infatti tutti i diritti negati alle donne fino a non molto tempo prima (tra le accuse con cui Giovanna d'Arco era stata mandata al rogo, c'era anche il fatto di portare abiti maschili…).
Lo pseudonimo da uomo poteva essere usato per le prime opere di un'autrice, rivelandone la vera identità dopo l'eventuale successo. Più che dagli editori, l'escamotage era imposto dai pregiudizi del pubblico, che riteneva le donne meno capaci nei settori riservati in precedenza ai soli uomini. Anche autrici meno provocatorie della Sand, ma altrettanto interessate ad approfondire la psicologia di personaggi femminili, come le tre sorelle inglesi Charlotte, Emily e Anne Brontë, pubblicarono all'inizio le loro poesie e romanzi sotto gli pseudonimi maschili di Currer, Ellis e Acton Bell, che mantenevano solo le iniziali dei loro veri nomi.
Un'altra scrittrice inglese di poco successiva, Mary Ann Evans, pur essendo già nota come saggista e traduttrice, preferì pubblicare le sue opere di narrativa sotto lo pseudonimo maschile di George Eliot e, benché nel suo caso i contenuti femministi siano meno evidenti, anche il suo romanzo "Il Mulino sulla Floss" può essere letto come una denuncia delle limitate possibilità di vita concesse alle donne in epoca vittoriana.
In Italia si dovettero aspettare gli ultimi decenni dell'800 perché iniziassero a moltiplicarsi le scrittrici di un certo rilievo, come la giornalista Matilde Serao, autrice di romanzi a sfondo sociale, o Carolina Invernìzio, dedita a più commerciali e macabri romanzi popolari, o la fiorentina Emma Perodi, che nelle sue fiabe non risparmiava gli elementi terrificanti. E si dovettero aspettare i primi del '900 perché al decadentismo italiano si aggiungessero i versi della poetessa d'origine armena Vittoria Aganoor Pompilj e alla corrente del verismo nazionale contribuissero anche i romanzi della scrittrice sarda Grazia Deledda. Nel 1906 uscì poi uno dei primi libri femministi apparsi nel nostro paese, il romanzo "Una Donna", scritto dalla piemontese Rina Faccio sotto lo pseudonimo ricercato ma esplicitamente femminile di Sibilla Aleramo. Dopo circa un secolo di letteratura al femminile, le scrittrici per lo meno non si sentivano più costrette a usare nomi maschili. Cominciavano insomma a incontrare qualche difficoltà in meno, per far accettare quanto avevano da dire.
Nella letteratura in lingua inglese della prima metà del '900, si andò dai delicati racconti della neozelandese Katherine Mansfield ai romanzi di Virginia Woolf, dai sofisticati gialli di Agatha Christie alle storie illustrate di Beatrix Potter, dai racconti gotici della danese Karen Blixen alla fantascienza dell'americana Catherine Lucille Moore, dalle storie contemporanee della giornalista d'origine irlandese Mary McCarthy ai romanzi sulla Cina della statunitense Pearl S. Buck, fino ai libri storici o introspettivi della londinese Daphne Du Maurier.
Negli stessi anni in Italia, sotto il fascismo, la rivista letteraria ufficiale del regime negava alle donne ogni possibilità di pubblicazione. Anche la più famosa femminista italiana, la dottoressa e pedagoga Maria Montessori, prima italiana ad essersi laureata in medicina e autrice di decine di saggi su un'educazione meno repressiva, nel 1935 fu "invitata" a lasciare l'Italia dopo aver avviato in centinaia di istituti un metodo pedagogico con cui intendeva "educare alla libertà" e "difendere la personalità umana". Del resto già in un suo discorso del 1908, l'allora trentottenne dottoressa Montessori aveva accusato le maestre e le casalinghe in genere, non solo italiane, di essere delle "schiave che generano ed educano schiavi" e inevitabilmente tale opprimente condizione era diventata ancora più vera sotto le dittature fasciste, che le donne e i bambini in questione fossero in grado di rendersene conto oppure no. Chiuse d'autorità in Italia e in Germania, le scuole Montessori continuarono però a diffondersi in altri paesi, così come i saggi e le teorie della fondatrice.
Benché in tale atmosfera di becero maschilismo gli spazi per le autrici fossero molto ridotti, la scrittrice fiorentina Lucia Lopresti, in arte Anna Banti, nel 1940 riuscì a pubblicare il libro "Il Coraggio delle Donne", mentre nel dopoguerra col romanzo "Artemisia" richiamò l'attenzione sulla pittrice del Rinascimento Artemisia Gentileschi, la cui opera era stata messa in ombra per secoli in favore di quelle degli artisti maschi. Anche altri libri di scrittrici italiane dovettero aspettare la liberazione dal nazi-fascismo per essere pubblicati, come quelli della romana Elsa Morante in cui il favoloso e il mito non è più ingenua illusione propagandistica, ma esperienza diretta di verità naturali evidenti. A maggior ragione passò molto dalla dittatura prima che fossero pubblicate le memorie dell'allora giovane volontaria Luce d'Eramo, che nel romanzo "Deviazione" descrisse trent'anni dopo le sue esperienze nei lager e la propria presa di coscienza contro il fascismo.
Ma il libro per eccellenza che dovette attendere la fine del nazismo per essere pubblicato, fu l'opera senza pretese di una giovanissima tedesca emigrata in Olanda con la famiglia, che lo scrisse tra i tredici e i quindici anni e non poté arrivare ai sedici. La giovane aspirante scrittrice era Anne Frank e purtroppo il solo libro che scrisse fu il suo Diario, pubblicato per iniziativa di suo padre, dieci anni dopo la morte dell'autrice in un campo di concentramento solo perché ebrea. Eppure la versione del Diario di Anne Frank circolata per anni non era integrale. Furono tagliati vari passaggi, come quelli in cui la ragazza accenna a un disinteresse per la religione o il punto in cui descrive l'organo sessuale femminile. A metà '900 era ancora diffusa una notevole censura in nome di presunti principi "moralizzatori", specialmente verso ciò che dicevano le donne…
Intanto, durante la Seconda Guerra Mondiale, in assenza degli uomini inviati al fronte, in molti paesi le donne avevano dovuto prenderne il posto nelle fabbriche e svolgere ogni sorta di occupazioni un tempo considerate poco femminili. Ma nell'immediato dopoguerra, forse temendo il peso sociale e politico che le donne avrebbero potuto avere prendendo coscienza delle loro reali capacità, quella società statunitense che pretendeva d'imporsi come modello per l'intero blocco occidentale ebbe un rigurgito di maschilismo, benché travestito da paternalistica condiscendenza verso dei presunti bisogni femminili di sicurezza e protezione.
Tra gli anni '40 e '50 del '900 le donne americane, pur potendo accedere a un'istruzione superiore molto più facilmente che in passato, si ritrovarono così di nuovo relegate al ruolo di mogli, casalinghe e madri come unica forma di realizzazione personale considerata socialmente accettabile, con la scusa che ora gli elettrodomestici avrebbero reso i lavori di casa meno faticosi e quindi in teoria più sopportabili. Ma per moltissime donne più o meno colte, ovvero in grado di fare qualcosa di meglio della propria vita, quel ruolo si rivelò del tutto insoddisfacente e generò ogni sorta di nevrosi. Se ne trova già una testimonianza nel romanzo del 1947 "La Fossa dei Serpenti", in cui l'autrice Mary Jane Ward descrive dal di dentro l'esperienza del manicomio vissuta da una donna vittima di esaurimento nervoso, che sembra un suo alter ego. Anche se nel finale la donna guarisce, è significativo che nel libro non venga mai chiarita la causa dell'esaurimento, a differenza della più risolta e quindi rassicurante versione cinematografica che ne fu tratta l'anno seguente.
Un altro tipico esempio fu la vita di Anne Sexton che, educata secondo la rigida la morale puritana del New England e caduta in depressione dopo il matrimonio e la nascita delle due figlie, fu rinchiusa in manicomio prima di trovare la propria ancora di salvezza nella scrittura delle sue liberatorie poesie, considerate all'epoca scandalose perché parlavano esplicitamente sia d'amore che di sesso. Qualcosa di simile accadde anche alla poetessa milanese Alda Merini, la cui esperienza dei manicomi fu ancora più lunga e destabilizzante.
Forse non è un caso che proprio a metà degli anni '50 l'autrice francese Pauline Réage abbia pubblicato il suo famoso romanzo "Histoire d'O", la cui protagonista accetta in modo masochistico di essere ridotta a un mero oggetto di piacere sessuale controllato dagli uomini. Una tale situazione poteva ben rappresentare simbolicamente la sottomissione a cui molte donne occidentali accettavano ancora di andare soggette, continuando a rinunciare alla propria libertà di scelta su un piano ora più psicologico che fisico.
Contemporaneamente si inaugurava così un filone di libri erotici scritti da donne, che finalmente potevano almeno riappropriarsi della descrizione delle proprie esigenze e fantasie sessuali, rompendo un tabù che lasciava ai soli uomini ogni controllo in materia… e non solo sul piano letterario. La semplice attività sessuale e procreativa era in fondo quella a cui gli uomini relegavano le donne da secoli, eppure nei puritani Stati Uniti d'America ci volle il secondo rapporto redatto dal biologo Alfred Charles Kinsey nei primi anni '50 perché qualcuno parlasse apertamente anche solo dell'esistenza di una sessualità e di un piacere femminile.
La condizione di succube della donna occidentale di allora fu infine denunciata in modo preciso e dettagliato, attraverso le testimonianze di molte tipiche mogli americane represse e infelici, nel saggio "La Mistica della Femminilità", pubblicato nel 1963 dalla psicologa Betty Friedan, un libro da cui prese le mosse un nuovo e più consapevole movimento di liberazione della donna, che sfociò nel femminismo degli anni '60 e '70.
Sotto l'aspetto della liberazione sessuale, dagli anni '60 apparvero altri libri erotici di scrittrici rapidamente specializzatesi nel genere come Emmanuelle Arsan (pseudonimo della moglie tailandese di un diplomatico francese), o dotate di capacità letterarie e introspettive ben più ampie come la statunitense d'origine francese Anaïs Nin, che pubblicò le sue storie erotiche quasi trent'anni dopo averle scritte.
Ma le reali aspirazioni delle donne di quel periodo, che spesso cercavano inutilmente di realizzarsi passando da un marito all'altro e sognavano di raggiungere un'autentica liberazione sia psicologica che fisica, sia sessuale che intellettuale, sono probabilmente molto meglio rappresentate dall'evoluzione interiore del personaggio di Isadora Wing (il cui cognome non a caso significa "ala"), la protagonista del romanzo "Paura di Volare", che nel 1973 segnò l'esordio letterario della scrittrice newyorkese Erica Jong. Negli stessi anni, una poetessa del Greenwich Village di nome Judith Viorst usava i suoi leggeri e ironici versi per evidenziare con benevola simpatia i tic e i luoghi comuni della rivoluzione femminista e sessuale in atto.
Tra le donne che hanno ottenuto notevoli successi letterari negli anni successivi, si possono citare due scrittrici fiorentine molto diverse tra loro, come Oriana Fallaci e Dacia Maraini. La Fallaci, lasciando da parte le dichiarazioni xenofobe degli ultimi anni, in libri come "Lettera a un Bambino mai Nato" prese con forza le difese delle donne contro l'atavico strapotere degli uomini e i loro pregiudizi. Da parte sua la Maraini, in un romanzo storico come "La Lunga Vita di Marianna Ucrìa", raccontò la presa di coscienza proto-femminista di una donna siciliana del '700. Ognuna di queste due autrici, con la propria distinta sensibilità, ha insomma dato vita a complessi personaggi femminili e non, alle prese con un mondo ancora molto maschilista.
Anche nella letteratura di genere si sono distinte scrittrici di grandi capacità narrative premiate dal successo, come la statunitense Ursula Le Guin, che ha dedicato i suoi romanzi di fantascienza e fantasy alla creazione di interi mondi immaginari e utopici, o un'altra autrice di fantasy come Marion Zimmer Bradley, che ha rielaborato la materia arturiana in chiave femminile ispirandosi al culto della dea madre celtica.
Negli ultimi decenni del '900 si sono anche moltiplicati i saggi sulle problematiche femminili, da parte di un agguerrito piccolo esercito di psicologhe armate di penna e tastiera, prevalentemente statunitensi, che hanno trattato un po' tutti gli aspetti della vita che possono rendere le donne infelici, dalla mancanza di autostima a una sessualità insoddisfatta, dall'aspetto fisico ai disturbi dell'alimentazione, dai traumi dovuti alle violenze subite alla perdita di autocontrollo, temi spesso affrontati però un po' a compartimenti stagni.
Tra i saggi di questo genere uno dei più interessanti è forse "Il Complesso di Cenerentola", pubblicato nel 1981 non da una psicologa ma da una semplice casalinga di nome Colette Dowling, che attraverso le proprie esperienze personali e altre testimonianze, mette in evidenza come spesso siano le donne stesse a scegliere più meno inconsciamente di essere dipendenti da altri, a temere la responsabilità che comporta vivere in modo autonomo facendo le proprie scelte, ad aspettare che qualche "principe azzurro" arrivi simbolicamente a salvarle, invece di trovare in sé stesse la forza di aiutarsi da sole di fronte alle difficoltà. Va detto però che non è un meccanismo solo femminile. Specialmente in politica è comune anche a interi popoli, ma in effetti, nel caso di donne cresciute in ambienti particolarmente retrogradi e severi, il condizionamento sociale ad un'eterna dipendenza mentale e fisica dai genitori o dal marito può essere subito a livelli molto profondi.
Da questo punto di vista è incoraggiante e utile, per la causa delle donne, che negli ultimi decenni siano sensibilmente aumentate le scrittrici originarie di paesi del cosiddetto Sud del mondo, in molti dei quali i diritti delle donne (ma anche degli uomini) non sono esattamente sempre garantiti… Scrittrici come la cilena Isabel Allende, la sudafricana Bessie Head, o l'india guatemalteca Rigoberta Menchù, hanno lasciato il loro paese per sfuggire a persecuzioni politiche, vivendo a lungo in esilio e usando le loro storie per schierarsi non solo dalla parte delle donne, ma in generale delle classi più deboli e perseguitate di tutto il mondo.
Hanno lasciato la loro terra anche narratrici di stati a prevalenza islamica, come la sociologa nigeriana Buchi Emecheta, la dottoressa algerina Malika Mokeddem o la fumettista iraniana Marjane Satrapi, che hanno rievocato le loro esperienze giovanili dopo essersi trasferite in Europa, portando all'attenzione dell'Occidente la storia recente e le condizioni di vita dei rispettivi paesi, nonché le difficoltà di integrazione delle immigrate.
Anche certe scrittrici arabe-palestinesi in esilio, come Salwa Salem o Sahar Khalifah, hanno ambientato sullo sfondo storico delle espropriazioni e delle prolungate ingiustizie subite dal loro popolo dei romanzi più o meno autobiografici, incentrati sulle vite di ragazze palestinesi un po' ribelli e anticonformiste.
Altre autrici hanno pubblicato i loro libri in patria, come la messicana Angeles Mastretta, la sudafricana Zoë Wicomb, o l'indiana Bulbul Sharma, che nei loro romanzi spesso si concentrano su aneddoti domestici e familiari, ma narrano storie, soprattutto femminili, che hanno ugualmente delle forti valenze sociali, essendo profondamente immerse nelle rispettive culture e nelle specifiche Storie dei popoli a cui appartengono.
Più particolari sono i casi di autrici come l'indiana Ravinder Randhawa, emigrata in Inghilterra da piccola, che
ha fondato un collettivo di scrittrici asiatiche per analizzare la condizione delle donne immigrate, o come la professoressa di letteratura Maryse Condé, originaria delle Antille ma vissuta anche in Francia, Africa e Stati Uniti, che in un suo romanzo ha ricostruito la vita di una schiava di Salem esistita alla fine del XVII secolo.
In conclusione, moltissime donne d'ogni paese hanno dimostrato di padroneggiare come gli uomini sia i materiali storici o fantastici che l'introspezione psicologica, di saper raccontare efficacemente eventi bizzarri o realistici, di riuscire a trattare con competenza tanto argomenti politici e sociali che questioni personali, di essere insomma in grado di sfuggire del tutto ai clichè maschilisti che, non potendo più impedire alle donne di scrivere, tendono ingiustamente a vederle solo come possibili autrici di romanzetti rosa. Le donne di oggi possono raccontarsi e raccontare il mondo che le circonda a molti livelli diversi, spostando gradualmente ma inesorabilmente la visione delle cose dall'esclusiva ottica maschile che ne ha contraddistinto per secoli ogni interpretazione e contribuendo così in prima persona a cambiare il corso della nostra e della loro Storia…

Andrea Cantucci

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