|
Parole femminili in un mondo
maschile
"Di' sì - e sei sana -
Ribellati - e subito sei pericolosa -
E ti trattano con catene -"
Emily Dickinson
"Non è necessario picchiare le donne se si riesce
a farle sentire in colpa."
Erica Jong
Rispettate e dotate di influenza in certe società
antiche come quella etrusca o celtica, le donne sono
state soggette all'autorità maschile per gran parte
della Storia e nella maggior parte dei paesi, sempre
passando dalla sudditanza verso i padri a quella
verso i mariti. È accaduto sia in semplici società
tribali in cui potevano coesistere credenze in più
divinità, anche femminili, che in organizzazioni
sociali complesse, in cui esigenze di accentramento
militare imperialistico hanno quasi sempre finito
per condurre all'elaborazione di religioni
monoteiste oppressive di stampo maschilista. Ma
l'oppressione dell'uomo sulla donna è stata
esercitata in particolare laddove un dio patriarcale
è stato immaginato come supremo dominatore su tutte
le cose.
Caso tipico è quello del dio celeste dell'area
mediorientale e mediterranea detto di volta in volta
Dyaus, Zeus, Giove, Geova, Jahvé oppure Enlil,
Elohim, El, Bel, Baal, Illah, Allah (e se
l'etimologia di tutta la prima serie di nomi è
riconducibile al significato di Cielo Diurno, quelli
della seconda si possono tradurre anche come
signore, padrone, dominatore, aggettivi applicabili
anche all'oppressione maschile nei confronti delle
donne).
Secondo i testi ebraici confluiti poi nella
tradizione biblica cristiana, il definitivo culto
monoteistico del dio padre maschile fu instaurato
con la forza, sostituendo i precedenti culti ebraici
politeisti, dal re d'Israele Giosia, vissuto intorno
al VI secolo a.C. In tale occasione soprattutto
sarebbe stata distrutta, per eliminarne il ricordo,
ogni raffigurazione della moglie del dio supremo e
sua controparte femminile, la dea chiamata dagli
ebrei Asherat e da altri popoli Ishtar, Astarte,
Easter, Era, ovvero una delle tante personificazioni
della dea madre identificata con la terra, la
natura, la fertilità, la fecondità, la maternità,
l'abbondanza, insomma col pratico spirito femminile
dedito alla generazione e alla cura di tutto ciò che
è vita e nutrimento.
Nel testo biblico si evita perfino di dire chi fosse
Asherat, le cui chiare raffigurazioni accanto al
marito Jahvé sono state riportate alla luce
dall'archeologia di recente, e la si definisce come
un non meglio identificato "feticcio", pur di non
ammettere che il dio maschile in origine non era
solo. All'inizio di quella Bibbia che si può
ritenere sia stata messa per iscritto per volontà
dello stesso re Giosia, anche se da lui attribuita
astutamente a Mosé, in quel testo ritenuto sacro
chiamato Thorà dagli ebrei e Pentateuco dai
cristiani, naturalmente non c'è più traccia della
dea Asherat che doveva essere presente nelle
originarie versioni orali.
Dovette essere eliminata dal testo ufficiale anche
Lilith, che in versioni presumibilmente più antiche
della leggenda era la prima moglie di Adamo, una
moglie che rifiutava di sottomettersi all'uomo. Così
il primo personaggio femminile della Bibbia fu Ewa,
anch'essa in origine una dea mediorientale collegata
all'eterna giovinezza, ma qui ridotta a una semplice
donna, per di più generata in modo del tutto
incongruo attraverso il corpo di un uomo. Del resto
anche quella che in origine era la dea
Ishtar-Asherat evidentemente è stata poi umanizzata
sotto forma di donna comune in un altro testo
ebraico, come protagonista del Libro di Ester.
Nel successivo Cristianesimo che si pretese di far
derivare dal culto ebraico con vari e forzati
aggiustamenti, ispirati piuttosto al politeismo
egizio e europeo, nonostante l'aggiunta nelle sette
cattolica e ortodossa di una vera e propria divinità
femminile come la sacra madre del messia, che
dovendo sostituire le molte dee della mitologia
greco-romana finì per essere raffigurata con molti
volti e nomi diversi da un luogo di culto all'altro,
la posizione di sudditanza della Donna rispetto
all'Uomo fu del tutto confermata. La cosiddetta
madre di dio, pur diffusissimo oggetto di adorazione
da parte dei fedeli, non è considerata neanche
abbastanza importante o potente da figurare come
membro della trinità cattolica, sostituita dal
generico e vago spirito santo che l'avrebbe
fecondata. Rispetto alle sue versioni più antiche
appare così ridotta a un mero ricettacolo dello
spirito divino, come le varie ninfe e donne rese
incinte da Zeus nei miti greci per generare i suoi
tanti figli.
Di conseguenza, con la scusa che il messia si
sarebbe circondato solo di discepoli maschi, la
possibilità di essere sacerdoti o pastori è ancora
negata alle donne da quasi tutti i culti cristiani.
Storicamente è stata permessa almeno da una
particolare setta come quella dei catari, che non a
caso fu considerata eretica e sterminata, o
attualmente da una chiesa protestante come quella
anglicana, rinnovando l'antica tradizione che tra i
celti britannici riconosceva tanto a uomini che a
donne la possibilità di diventare sacerdoti
druidici.
Per secoli i cristiani hanno invece ritenuto le
donne addirittura prive di anima, in questo
dimostrandosi a lungo meno avanzati e civili di
certi popoli antichi, come gli Egizi o i Greci, che
invece attribuivano alle anime delle donne come a
quelle degli uomini la facoltà di sopravvivere
nell'aldilà. L'idea dell'assenza di un'anima deve
essere servita ai cristiani più fanatici a tacitare
i rimorsi per tutte le donne periodicamente
perseguitate e bruciate come presunte streghe, ogni
volta che cercavano di far rivivere antichi riti, di
dedicarsi ad attività riservate al sesso dominante,
di vivere una sessualità più libera o anche solo di
riunirsi in segreto tra loro.
Non parliamo poi di come le donne sono trattate
ancora oggi in certe società islamiche
fondamentaliste tra le più arretrate, che oltre a
imporre l'obbligo di abbigliamenti più o meno
pesanti (analoghi comunque a quelli imposti alle
donne cristiane fino ad alcuni secoli fa), possono
permettere o addirittura ordinare l'uccisione di
donne in casi come l'adulterio, o perseguitarle,
rinchiuderle e torturarle per aver espresso idee
femministe.
Del resto se il paradiso musulmano promette agli
uomini infiniti godimenti, anche sessuali, con molti
spiriti femminili contemporaneamente a disposizione
del fedele defunto, non è molto chiaro quale destino
riservi invece alle donne. Fortunatamente nel mondo
islamico la condizione della donna può essere
diversissima tra un paese e l'altro e per esempio in
certe nazioni nordafricane non è molto dissimile da
quella vissuta dalle europee, anche per l'influenza
di una passata cultura coloniale particolarmente
liberale come quella francese.
Invece in un paese come l'India la colonizzazione da
parte della ben più rigida e bigotta cultura
vittoriana inglese contribuì solo moderatamente alla
liberazione della donna, per esempio proibendo,
almeno in teoria, l'obbligo dei suicidi rituali per
le vedove, ma dal punto di vista della libertà nei
costumi sessuali e nei matrimoni ha avuto piuttosto
un'influenza negativa, che sommandosi
all'altrettanto repressiva cultura islamica che
aveva dominato il paese in precedenza, contribuì a
diffondere in tutta la società indiana un esagerato
senso del pudore che in pubblico proibisce tuttora
qualunque contatto fisico tra uomini e donne.
Anche nei paesi occidentali, per vedere nascere
un'idea di riscatto tra le donne stesse, si
dovettero aspettare le rivoluzioni illuministe negli
Stati Uniti d'America e in Francia, ma anche in
quelle occasioni le speranze di liberazione della
donna furono del tutto frustrate. Nonostante l'uso
di allegorie femminili per raffigurare le nuove idee
di libertà, queste non vennero applicate che agli
uomini, mentre le rivendicazioni femminili che
iniziavano a farsi sentire continuarono a lungo a
essere puntualmente rigettate da parlamenti di soli
maschi.
In Italia, per avere il suffragio universale esteso
anche alle donne si dovette aspettare
l'instaurazione della repubblica alla metà del XX
secolo e ancora di più per l'abrogazione delle leggi
che autorizzavano il delitto d'onore da parte dei
mariti traditi, tanto che negli anni '60 la
condizione generale delle donne nel nostro paese era
ancora per molti versi meno libera rispetto ai paesi
nordafricani più evoluti di cui sopra.
In nazioni rinnovatesi o costituitesi nel corso del
XX secolo, come l'Unione Sovietica o Israele, si è
cercato di realizzare la parità rispetto all'uomo
offrendo alle donne la possibilità, se non
l'obbligo, di svolgere gli stessi lavori pesanti,
compreso quello del soldato. Ma è difficile
accettare che l'adeguamento tra i sessi debba
realizzarsi attraverso l'esercizio di azioni
violente e discutibili, come quella di uccidere
altri esseri umani.
Piuttosto che far diventare le donne capaci delle
stesse violenze degli uomini, potrebbe risultare ben
più utile per la convivenza dell'intera umanità
cercare di limitare l'uso della violenza fisica da
parte di tutti. Tra l'altro se oggi, nei paesi che
si dicono civili e democratici, è riconosciuta
legalmente una completa parità di genere, continuano
però ancora a verificarsi moltissimi casi di ricatti
sessuali e di violenze fisiche sulle donne, che
dimostrano come tale parità non sia ancora accettata
e fatta propria profondamente da molti uomini, che
nonostante tutto continuano a subire l'influenza di
una cultura discriminatoria mai completamente
superata.
Ma certe restrizioni inaccettabili alla libertà
delle donne, oltre a derivare da motivi culturali,
possono essere aggravate anche da situazioni di
estrema crisi e indigenza. Nel nostro modernissimo
XXI secolo in molti paesi poveri, in particolare
africani, si sta ancora oggi diffondendo sempre più
l'usanza di far sposare quelle che sono ancora delle
bambine, subito dopo che hanno avuto le
mestruazioni, con un marito imposto dai genitori per
motivi di convenienza economica, cosa che porta
molte piccole madri a una prematura morte per parto…
Qualunque riscatto da parte delle donne, deve
passare attraverso una sempre più profonda presa di
coscienza collettiva delle ingiustizie subite e
delle condizioni di vita attuali e, qualsiasi mezzo
d'espressione si scelga, tale processo è reso
possibile prima di tutto da testi, racconti, saggi o
opere di qualsiasi altro genere che affrontino
l'argomento grazie a ricerche e testimonianze delle
donne stesse. È insomma indispensabile che siano
delle autrici ad esporre direttamente e in prima
persona i loro problemi, sia pratici che
esistenziali.
Se nell'Europa antica poetesse come Saffo e Anite in
Grecia, o Maria di Francia in Inghilterra erano solo
eccezioni, in una cultura come quella giapponese
l'arte dello scrivere era affidata in prevalenza
alle donne, essendo riservate agli uomini attività
ritenute più serie. Così fu la dama di corte
Murasaki Shikibu a scrivere nell'XI secolo il
romanzo fondamentale della letteratura nipponica, la
Storia di Genji il Principe Splendente.
In occidente invece, essendo letteratura e teatro
saldamente in mano a autori maschi, nell'arco di
dieci secoli si è passati dalla commedia "Le Donne a
Parlamento" di Aristofane, in cui si ipotizza un
miglioramento della società in senso comunitario se
fossero le donne a comandare, a "La Bisbetica
Domata" di Shakespeare, in cui al contrario si
sancisce la necessità che le donne siano il più
possibile obbedienti e sottomesse ai mariti.
Dall'antica ma progredita civiltà greca, in cui già
Platone ne "La Repubblica" teorizzava l'uguaglianza
tra uomini e donne (anche se la realtà sociale di
città come Atene era molto diversa), si era passati
al ben più oscurantista e arretrato pensiero
cristiano, che neanche con la tardiva diffusione di
idee umaniste nel corso del Rinascimento riuscì a
prendere in considerazione i diritti delle donne, se
non molti secoli dopo. Si dovette aspettare l'epoca
dei lumi del XVIII secolo per trovare anche solo
delle figure di protagoniste femminili dal carattere
indipendente viste sotto una luce positiva, come la
"Moll Flanders" di Defoe o "La Locandiera" di
Goldoni, e l'inizio del XIX secolo perché almeno in
occidente riuscissero a imporsi dei libri scritti da
donne.
Nel '700 si diffusero a partire dalla Francia i
primi romanzi libertini, scritti da uomini celati
dall'anonimato ma spesso presentati come memorie di
donne di facili costumi, che narravano i dettagli
della loro vita intima in prima persona, sulla
falsariga dell'immaginaria biografia
dell'ex-prostituta Moll Flanders ma con molti
dettagli piccanti in più. All'epoca quindi l'arte
dello scrivere non solo era riservata agli uomini,
ma anche considerata scandalosa quando era
attribuita alle donne. Perciò una vera scrittrice
come la gentildonna inglese Jane Austen scriveva in
assoluta segretezza, senza far trapelare nulla della
sua attività letteraria fuori dell'ambito
famigliare, temendo che la cosa potesse screditarla
in società compromettendo il suo buon nome.
I libri della Austen, da lei redatti a partire dal
1796, uscirono anonimi poco prima della sua
prematura scomparsa avvenuta nel 1817, e solo dopo
la sua morte furono stampati col nome della
scrittrice, ancor oggi ritenuta tra le più lette al
mondo. Nei due secoli a venire i suoi romanzi
avrebbero costituito il modello di quello che, a
torto o a ragione, è ritenuto il più tipico genere
femminile, quello di argomento domestico e
sentimentale, o letteratura rosa. Ma poche delle sue
molte epigoni ebbero sagacia e ironia paragonabili a
quelle della Austen, nel tratteggiare l'ipocrita
perbenismo della società borghese del suo tempo.
Altrettanto riservata sarebbe stata più tardi
l'attività di scrittrice dell'americana Emily
Dickinson, che in vita pubblicò solo sette delle sue
quasi 1800 poesie. Sono solo due esempi di come il
modello di una letteratura (e quindi di una cultura)
gestita dai soli uomini, abbia negato a delle grandi
autrici i riconoscimenti in vita che la loro acuta
sensibilità artistica avrebbe meritato. E per due
che sono giunte alla fama postume, chissà quante
altre ottime scrittrici non hanno mai neanche potuto
essere conosciute dal grande pubblico.
Ben più sfrontata e intraprendente fu l'inglese Mary
Shelley, che non solo sosteneva l'uguaglianza tra i
sessi ma anche la pratica dell'amore libero, un
secolo e mezzo prima della cosiddetta liberazione
sessuale, e che col suo romanzo gotico "Frankenstein"
creò di fatto la prima autentica storia di
fantascienza, anche se il suo contributo al genere è
sempre stato ingiustamente sottovalutato a favore
dei successivi scrittori maschi.
Ancora più provocatoria fu la francese
Amandine-Lucie-Aurore Dupin, che pubblicò i suoi
romanzi sotto lo pseudonimo maschile di George Sand,
ma non per questo nascose la propria vera identità.
Sfruttò anzi l'ambiguità di quel nome per indossare
provocatoriamente abiti da uomo, mentre coi suoi
libri sosteneva e diffondeva idee femministe. L'uso
di pseudonimi maschili da parte delle scrittrici era
molto comune nell'800, come se le opere scritte da
donne potessero essere pubblicate solo a condizione
che queste celassero ai lettori il proprio sesso. Ma
lo stratagemma poteva anche servire alle donne
stesse, per rivendicare e ottenere una libertà
d'espressione fino ad allora di quasi esclusivo
appannaggio maschile. Sia gli abiti che il nome da
uomo della Sand rappresentavano infatti tutti i
diritti negati alle donne fino a non molto tempo
prima (tra le accuse con cui Giovanna d'Arco era
stata mandata al rogo, c'era anche il fatto di
portare abiti maschili…).
Lo pseudonimo da uomo poteva essere usato per le
prime opere di un'autrice, rivelandone la vera
identità dopo l'eventuale successo. Più che dagli
editori, l'escamotage era imposto dai pregiudizi del
pubblico, che riteneva le donne meno capaci nei
settori riservati in precedenza ai soli uomini.
Anche autrici meno provocatorie della Sand, ma
altrettanto interessate ad approfondire la
psicologia di personaggi femminili, come le tre
sorelle inglesi Charlotte, Emily e Anne Brontë,
pubblicarono all'inizio le loro poesie e romanzi
sotto gli pseudonimi maschili di Currer, Ellis e
Acton Bell, che mantenevano solo le iniziali dei
loro veri nomi.
Un'altra scrittrice inglese di poco successiva, Mary
Ann Evans, pur essendo già nota come saggista e
traduttrice, preferì pubblicare le sue opere di
narrativa sotto lo pseudonimo maschile di George
Eliot e, benché nel suo caso i contenuti femministi
siano meno evidenti, anche il suo romanzo "Il Mulino
sulla Floss" può essere letto come una denuncia
delle limitate possibilità di vita concesse alle
donne in epoca vittoriana.
In Italia si dovettero aspettare gli ultimi decenni
dell'800 perché iniziassero a moltiplicarsi le
scrittrici di un certo rilievo, come la giornalista
Matilde Serao, autrice di romanzi a sfondo sociale,
o Carolina Invernìzio, dedita a più commerciali e
macabri romanzi popolari, o la fiorentina Emma
Perodi, che nelle sue fiabe non risparmiava gli
elementi terrificanti. E si dovettero aspettare i
primi del '900 perché al decadentismo italiano si
aggiungessero i versi della poetessa d'origine
armena Vittoria Aganoor Pompilj e alla corrente del
verismo nazionale contribuissero anche i romanzi
della scrittrice sarda Grazia Deledda. Nel 1906 uscì
poi uno dei primi libri femministi apparsi nel
nostro paese, il romanzo "Una Donna", scritto dalla
piemontese Rina Faccio sotto lo pseudonimo ricercato
ma esplicitamente femminile di Sibilla Aleramo. Dopo
circa un secolo di letteratura al femminile, le
scrittrici per lo meno non si sentivano più
costrette a usare nomi maschili. Cominciavano
insomma a incontrare qualche difficoltà in meno, per
far accettare quanto avevano da dire.
Nella letteratura in lingua inglese della prima metà
del '900, si andò dai delicati racconti della
neozelandese Katherine Mansfield ai romanzi di
Virginia Woolf, dai sofisticati gialli di Agatha
Christie alle storie illustrate di Beatrix Potter,
dai racconti gotici della danese Karen Blixen alla
fantascienza dell'americana Catherine Lucille Moore,
dalle storie contemporanee della giornalista
d'origine irlandese Mary McCarthy ai romanzi sulla
Cina della statunitense Pearl S. Buck, fino ai libri
storici o introspettivi della londinese Daphne Du
Maurier.
Negli stessi anni in Italia, sotto il fascismo, la
rivista letteraria ufficiale del regime negava alle
donne ogni possibilità di pubblicazione. Anche la
più famosa femminista italiana, la dottoressa e
pedagoga Maria Montessori, prima italiana ad essersi
laureata in medicina e autrice di decine di saggi su
un'educazione meno repressiva, nel 1935 fu
"invitata" a lasciare l'Italia dopo aver avviato in
centinaia di istituti un metodo pedagogico con cui
intendeva "educare alla libertà" e "difendere la
personalità umana". Del resto già in un suo discorso
del 1908, l'allora trentottenne dottoressa
Montessori aveva accusato le maestre e le casalinghe
in genere, non solo italiane, di essere delle
"schiave che generano ed educano schiavi" e
inevitabilmente tale opprimente condizione era
diventata ancora più vera sotto le dittature
fasciste, che le donne e i bambini in questione
fossero in grado di rendersene conto oppure no.
Chiuse d'autorità in Italia e in Germania, le scuole
Montessori continuarono però a diffondersi in altri
paesi, così come i saggi e le teorie della
fondatrice.
Benché in tale atmosfera di becero maschilismo gli
spazi per le autrici fossero molto ridotti, la
scrittrice fiorentina Lucia Lopresti, in arte Anna
Banti, nel 1940 riuscì a pubblicare il libro "Il
Coraggio delle Donne", mentre nel dopoguerra col
romanzo "Artemisia" richiamò l'attenzione sulla
pittrice del Rinascimento Artemisia Gentileschi, la
cui opera era stata messa in ombra per secoli in
favore di quelle degli artisti maschi. Anche altri
libri di scrittrici italiane dovettero aspettare la
liberazione dal nazi-fascismo per essere pubblicati,
come quelli della romana Elsa Morante in cui il
favoloso e il mito non è più ingenua illusione
propagandistica, ma esperienza diretta di verità
naturali evidenti. A maggior ragione passò molto
dalla dittatura prima che fossero pubblicate le
memorie dell'allora giovane volontaria Luce d'Eramo,
che nel romanzo "Deviazione" descrisse trent'anni
dopo le sue esperienze nei lager e la propria presa
di coscienza contro il fascismo.
Ma il libro per eccellenza che dovette attendere la
fine del nazismo per essere pubblicato, fu l'opera
senza pretese di una giovanissima tedesca emigrata
in Olanda con la famiglia, che lo scrisse tra i
tredici e i quindici anni e non poté arrivare ai
sedici. La giovane aspirante scrittrice era Anne
Frank e purtroppo il solo libro che scrisse fu il
suo Diario, pubblicato per iniziativa di suo padre,
dieci anni dopo la morte dell'autrice in un campo di
concentramento solo perché ebrea. Eppure la versione
del Diario di Anne Frank circolata per anni non era
integrale. Furono tagliati vari passaggi, come
quelli in cui la ragazza accenna a un disinteresse
per la religione o il punto in cui descrive l'organo
sessuale femminile. A metà '900 era ancora diffusa
una notevole censura in nome di presunti principi
"moralizzatori", specialmente verso ciò che dicevano
le donne…
Intanto, durante la Seconda Guerra Mondiale, in
assenza degli uomini inviati al fronte, in molti
paesi le donne avevano dovuto prenderne il posto
nelle fabbriche e svolgere ogni sorta di occupazioni
un tempo considerate poco femminili. Ma
nell'immediato dopoguerra, forse temendo il peso
sociale e politico che le donne avrebbero potuto
avere prendendo coscienza delle loro reali capacità,
quella società statunitense che pretendeva d'imporsi
come modello per l'intero blocco occidentale ebbe un
rigurgito di maschilismo, benché travestito da
paternalistica condiscendenza verso dei presunti
bisogni femminili di sicurezza e protezione.
Tra gli anni '40 e '50 del '900 le donne americane,
pur potendo accedere a un'istruzione superiore molto
più facilmente che in passato, si ritrovarono così
di nuovo relegate al ruolo di mogli, casalinghe e
madri come unica forma di realizzazione personale
considerata socialmente accettabile, con la scusa
che ora gli elettrodomestici avrebbero reso i lavori
di casa meno faticosi e quindi in teoria più
sopportabili. Ma per moltissime donne più o meno
colte, ovvero in grado di fare qualcosa di meglio
della propria vita, quel ruolo si rivelò del tutto
insoddisfacente e generò ogni sorta di nevrosi. Se
ne trova già una testimonianza nel romanzo del 1947
"La Fossa dei Serpenti", in cui l'autrice Mary Jane
Ward descrive dal di dentro l'esperienza del
manicomio vissuta da una donna vittima di
esaurimento nervoso, che sembra un suo alter ego.
Anche se nel finale la donna guarisce, è
significativo che nel libro non venga mai chiarita
la causa dell'esaurimento, a differenza della più
risolta e quindi rassicurante versione
cinematografica che ne fu tratta l'anno seguente.
Un altro tipico esempio fu la vita di Anne Sexton
che, educata secondo la rigida la morale puritana
del New England e caduta in depressione dopo il
matrimonio e la nascita delle due figlie, fu
rinchiusa in manicomio prima di trovare la propria
ancora di salvezza nella scrittura delle sue
liberatorie poesie, considerate all'epoca scandalose
perché parlavano esplicitamente sia d'amore che di
sesso. Qualcosa di simile accadde anche alla
poetessa milanese Alda Merini, la cui esperienza dei
manicomi fu ancora più lunga e destabilizzante.
Forse non è un caso che proprio a metà degli anni
'50 l'autrice francese Pauline Réage abbia
pubblicato il suo famoso romanzo "Histoire d'O", la
cui protagonista accetta in modo masochistico di
essere ridotta a un mero oggetto di piacere sessuale
controllato dagli uomini. Una tale situazione poteva
ben rappresentare simbolicamente la sottomissione a
cui molte donne occidentali accettavano ancora di
andare soggette, continuando a rinunciare alla
propria libertà di scelta su un piano ora più
psicologico che fisico.
Contemporaneamente si inaugurava così un filone di
libri erotici scritti da donne, che finalmente
potevano almeno riappropriarsi della descrizione
delle proprie esigenze e fantasie sessuali, rompendo
un tabù che lasciava ai soli uomini ogni controllo
in materia… e non solo sul piano letterario. La
semplice attività sessuale e procreativa era in
fondo quella a cui gli uomini relegavano le donne da
secoli, eppure nei puritani Stati Uniti d'America ci
volle il secondo rapporto redatto dal biologo Alfred
Charles Kinsey nei primi anni '50 perché qualcuno
parlasse apertamente anche solo dell'esistenza di
una sessualità e di un piacere femminile.
La condizione di succube della donna occidentale di
allora fu infine denunciata in modo preciso e
dettagliato, attraverso le testimonianze di molte
tipiche mogli americane represse e infelici, nel
saggio "La Mistica della Femminilità", pubblicato
nel 1963 dalla psicologa Betty Friedan, un libro da
cui prese le mosse un nuovo e più consapevole
movimento di liberazione della donna, che sfociò nel
femminismo degli anni '60 e '70.
Sotto l'aspetto della liberazione sessuale, dagli
anni '60 apparvero altri libri erotici di scrittrici
rapidamente specializzatesi nel genere come
Emmanuelle Arsan (pseudonimo della moglie tailandese
di un diplomatico francese), o dotate di capacità
letterarie e introspettive ben più ampie come la
statunitense d'origine francese Anaïs Nin, che
pubblicò le sue storie erotiche quasi trent'anni
dopo averle scritte.
Ma le reali aspirazioni delle donne di quel periodo,
che spesso cercavano inutilmente di realizzarsi
passando da un marito all'altro e sognavano di
raggiungere un'autentica liberazione sia psicologica
che fisica, sia sessuale che intellettuale, sono
probabilmente molto meglio rappresentate
dall'evoluzione interiore del personaggio di Isadora
Wing (il cui cognome non a caso significa "ala"), la
protagonista del romanzo "Paura di Volare", che nel
1973 segnò l'esordio letterario della scrittrice
newyorkese Erica Jong. Negli stessi anni, una
poetessa del Greenwich Village di nome Judith Viorst
usava i suoi leggeri e ironici versi per evidenziare
con benevola simpatia i tic e i luoghi comuni della
rivoluzione femminista e sessuale in atto.
Tra le donne che hanno ottenuto notevoli successi
letterari negli anni successivi, si possono citare
due scrittrici fiorentine molto diverse tra loro,
come Oriana Fallaci e Dacia Maraini. La Fallaci,
lasciando da parte le dichiarazioni xenofobe degli
ultimi anni, in libri come "Lettera a un Bambino mai
Nato" prese con forza le difese delle donne contro
l'atavico strapotere degli uomini e i loro
pregiudizi. Da parte sua la Maraini, in un romanzo
storico come "La Lunga Vita di Marianna Ucrìa",
raccontò la presa di coscienza proto-femminista di
una donna siciliana del '700. Ognuna di queste due
autrici, con la propria distinta sensibilità, ha
insomma dato vita a complessi personaggi femminili e
non, alle prese con un mondo ancora molto
maschilista.
Anche nella letteratura di genere si sono distinte
scrittrici di grandi capacità narrative premiate dal
successo, come la statunitense Ursula Le Guin, che
ha dedicato i suoi romanzi di fantascienza e fantasy
alla creazione di interi mondi immaginari e utopici,
o un'altra autrice di fantasy come Marion Zimmer
Bradley, che ha rielaborato la materia arturiana in
chiave femminile ispirandosi al culto della dea
madre celtica.
Negli ultimi decenni del '900 si sono anche
moltiplicati i saggi sulle problematiche femminili,
da parte di un agguerrito piccolo esercito di
psicologhe armate di penna e tastiera,
prevalentemente statunitensi, che hanno trattato un
po' tutti gli aspetti della vita che possono rendere
le donne infelici, dalla mancanza di autostima a una
sessualità insoddisfatta, dall'aspetto fisico ai
disturbi dell'alimentazione, dai traumi dovuti alle
violenze subite alla perdita di autocontrollo, temi
spesso affrontati però un po' a compartimenti
stagni.
Tra i saggi di questo genere uno dei più
interessanti è forse "Il Complesso di Cenerentola",
pubblicato nel 1981 non da una psicologa ma da una
semplice casalinga di nome Colette Dowling, che
attraverso le proprie esperienze personali e altre
testimonianze, mette in evidenza come spesso siano
le donne stesse a scegliere più meno inconsciamente
di essere dipendenti da altri, a temere la
responsabilità che comporta vivere in modo autonomo
facendo le proprie scelte, ad aspettare che qualche
"principe azzurro" arrivi simbolicamente a salvarle,
invece di trovare in sé stesse la forza di aiutarsi
da sole di fronte alle difficoltà. Va detto però che
non è un meccanismo solo femminile. Specialmente in
politica è comune anche a interi popoli, ma in
effetti, nel caso di donne cresciute in ambienti
particolarmente retrogradi e severi, il
condizionamento sociale ad un'eterna dipendenza
mentale e fisica dai genitori o dal marito può
essere subito a livelli molto profondi.
Da questo punto di vista è incoraggiante e utile,
per la causa delle donne, che negli ultimi decenni
siano sensibilmente aumentate le scrittrici
originarie di paesi del cosiddetto Sud del mondo, in
molti dei quali i diritti delle donne (ma anche
degli uomini) non sono esattamente sempre garantiti…
Scrittrici come la cilena Isabel Allende, la
sudafricana Bessie Head, o l'india guatemalteca
Rigoberta Menchù, hanno lasciato il loro paese per
sfuggire a persecuzioni politiche, vivendo a lungo
in esilio e usando le loro storie per schierarsi non
solo dalla parte delle donne, ma in generale delle
classi più deboli e perseguitate di tutto il mondo.
Hanno lasciato la loro terra anche narratrici di
stati a prevalenza islamica, come la sociologa
nigeriana Buchi Emecheta, la dottoressa algerina
Malika Mokeddem o la fumettista iraniana Marjane
Satrapi, che hanno rievocato le loro esperienze
giovanili dopo essersi trasferite in Europa,
portando all'attenzione dell'Occidente la storia
recente e le condizioni di vita dei rispettivi
paesi, nonché le difficoltà di integrazione delle
immigrate.
Anche certe scrittrici arabe-palestinesi in esilio,
come Salwa Salem o Sahar Khalifah, hanno ambientato
sullo sfondo storico delle espropriazioni e delle
prolungate ingiustizie subite dal loro popolo dei
romanzi più o meno autobiografici, incentrati sulle
vite di ragazze palestinesi un po' ribelli e
anticonformiste.
Altre autrici hanno pubblicato i loro libri in
patria, come la messicana Angeles Mastretta, la
sudafricana Zoë Wicomb, o l'indiana Bulbul Sharma,
che nei loro romanzi spesso si concentrano su
aneddoti domestici e familiari, ma narrano storie,
soprattutto femminili, che hanno ugualmente delle
forti valenze sociali, essendo profondamente immerse
nelle rispettive culture e nelle specifiche Storie
dei popoli a cui appartengono.
Più particolari sono i casi di autrici come
l'indiana Ravinder Randhawa, emigrata in Inghilterra
da piccola, che
ha fondato un collettivo di scrittrici asiatiche per
analizzare la condizione delle donne immigrate, o
come la professoressa di letteratura Maryse Condé,
originaria delle Antille ma vissuta anche in
Francia, Africa e Stati Uniti, che in un suo romanzo
ha ricostruito la vita di una schiava di Salem
esistita alla fine del XVII secolo.
In conclusione, moltissime donne d'ogni paese hanno
dimostrato di padroneggiare come gli uomini sia i
materiali storici o fantastici che l'introspezione
psicologica, di saper raccontare efficacemente
eventi bizzarri o realistici, di riuscire a trattare
con competenza tanto argomenti politici e sociali
che questioni personali, di essere insomma in grado
di sfuggire del tutto ai clichè maschilisti che, non
potendo più impedire alle donne di scrivere, tendono
ingiustamente a vederle solo come possibili autrici
di romanzetti rosa. Le donne di oggi possono
raccontarsi e raccontare il mondo che le circonda a
molti livelli diversi, spostando gradualmente ma
inesorabilmente la visione delle cose dall'esclusiva
ottica maschile che ne ha contraddistinto per secoli
ogni interpretazione e contribuendo così in prima
persona a cambiare il corso della nostra e della
loro Storia…
Andrea
Cantucci
|
|
|