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Libri a fumetti
Cinema
Miti mutanti 6
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Regia di James Cameron. Con
Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver,
Stephen Lang, Michelle Rodriguez. Giovanni Ribisi,
Joel Moore. Genere Fantascienza, produzione USA,
Gran Bretagna, 2009. Durata 162 minuti circa.
Non sono riuscito a vedere il tanto declamato 3D; mi
sono accontentato della normale versione al cinema
più vicino a casa mia. Non so cosa mi sono perso ma
penso che un film debba poter reggere anche senza
tanti artifici: così per fortuna è stato il caso di
questo "Avatar", molto discusso colossal
fantascientifico che - bisogna ammettere - mantiene
tutte le promesse: spettacolarità, effetti speciali
di prim'ordine ed una trama davvero alla portata di
tutti. La morale è chiara fin dall'inizio e senza
sfumature: i terrestri sono gli invasori cattivi e
gli alieni difendono giustamente il loro pianeta,
pur se con armi primitive. È la storia degli indiani
d'America rivista in chiave fantascientifica, con
gli indigeni che nonostante l'evidente svantaggio
tecnologico, riescono a tenere testa ai razzi ed
ordigni atomici terrestri con delle improbabili
frecce. Le atmosfere richiamano in certi momenti
vaghi ricordi da Guerre Stellari (la battaglia nella
foresta di Pandora somiglia un po' a quella sulla
luna boscosa di Endor). Interessante la religione
panteistica dei Na'vi, gli indigeni. Niente di
originale, ma va bene così.
A
giudicare dalle immagini che vediamo, dal viaggio
nel Paese delle Meraviglie della piccola Alice, a
quello del rendez-vous burtoniano, sono passati
diversi anni.
La bionda fanciulla londinese si è fatta grande, è
in età da marito, come caldeggiano madre apprensiva
e sorella cornuta (e ignara…). Aspirano, per la
giovane donna, ad un futuro da massaia, molto
distante dai reali desideri dell'avventurosa
interessata, ancora convinta che le rose bianche si
possano dipingere di rosso. E a dirla tutta, ed a
complicare le cose, almeno agli occhi della giovane,
ci si mette pure il pretendente di turno, un
rampollo di agiata famiglia, bruttarello e con
sospetti problemi di digestione.
Povera Alice, divisa fra il matrimonio di comodo,
suggeritole dalla famiglia, e la prospettiva di fare
la fine dell'attempata zia, farneticante circa un
principe azzurro che mai arriverà.
Non le resta che fuggire seguendo le orme del
Bianconiglio che l'aveva già guidata, a disneyana
memoria, nel precedente viaggio.
E così, non ancora donna e non più bambina, ma
confinata in quello strano limbo che chiamiamo
adolescenza, Alice si ritrova catapultata nel
Sottomondo tiranneggiato dalla spietata e
macrocefala Regina di cuori ("tagliategli la testa",
ricordate?).
Nessuno, o quasi, dei vecchi compagni di avventure
sembra avere la certezza che sia proprio lei l'Alice
che stanno cercando (per far cosa mica ve lo
racconto, se no che gusto c'è?) e per scovare la
quale era stato inviato in avanscoperta il pavido
coniglio col panciotto e l'orologio da taschino.
E a dire il vero, nemmeno Alice rivendica con forza
la propria identità, rispondendo alle obiezioni
degli strampalati interlocutori un semplice "questo
è il mio sogno e scelgo io come viverlo".
Già, tutto un sogno, facile a dirsi. Ma per sognare,
come per vivere, ci vuole fantasia e la fantasia è
appannaggio dei bambini, innocenti, curiosi,
spensierati. Il mondo degli adulti non prevede
nessuna incursione di folli cappellai ballerini o di
gatti evanescenti, solo scadenze e responsabilità.
Alice è un'adolescente ormai, l'Alice bambina che
gli strambi abitanti di Wonderland hanno conosciuto
anni orsono, quella bambina capace di ingigantirsi e
rimpicciolire, leccando un fungo bianco e rosso, non
esiste più. Alice è costretta a comportarsi da
grande perché il suo mondo, quello "reale", la vuole
così.
A meno che…a meno che non ci pensi Tim Burton con il
suo microcosmo brulicante di personalissime
creature, con le sue ossessioni ed i suoi rimandi (Edward
Scissorhands è il giardiniere ufficiale della Regina
di cuori, non ci sono dubbi!). E così, il regista
statunitense, trapiantato in Inghilterra per amore,
ormai padre, ormai "adulto" sceglie di far sua una
tematica classica, non per bambini in senso stretto
(i testi di Carroll sono più un viaggio lisergico
ante litteram che tranquillizzanti favole), mettendo
in scena in scena la tensione della fanciullezza che
si dissolve nell'età adulta. Di conseguenza, si
instaura la battaglia fra il potere tirannico e
simmetrico (la simmetria come piattezza, come
rinuncia alla fantasia?) eppure posticcio, falso
della Regina rossa e il potere del sogno, della
follia, della "deliranza"di una regina bianca ed
eterea che non disdegna di farsi abile fattucchiera,
all'occorrenza.
E se ad una bambina non pare vero di confrontarsi,
armi in pugno, col feroce Jabberwock,
all'adolescente Alice occorre più tempo per
scegliere quale sia la storia che vuole vivere…
Burton, dal canto suo, non ha mai avuto bisogno del
buio. Il suo mondo poe-tico di freaks esplode con la
stessa dirompente forza immaginifica sia che il
regista scelga di affrontare tematiche propriamente
dark (Sweeney Todd, Il mistero di Sleepy Hollow
ecc.), sia che si immerga nel mondo a colori di
Willy Wonka o di Edward Bloom (nome affatto casuale,
se si pensa che è la fusione di una delle creature
più belle partorite dalla mente di Burton con il
protagonista joyciano dell'Ulisse).
In questo senso, si colloca la figura del Cappellaio
Matto (ottimo, come sempre, Depp), un pierrot
malinconico nel quale la follia dell'esistere
alterna momenti di buffonesca e colorata clownerie
ad altri di mesta e tetra consapevolezza.
La predilezione per la tenebra ed il gusto gotico
non riguardano infatti soltanto la scelta
fotografica (c'è, del resto, qualcosa di più
intimamente "nero" dello scintillante A Clockwork
Orange?), come i burtoniani d.o.c. sanno benissimo.
Al centro della riflessione cinematografica e
pittorica, più policroma di quanto si sia disposti a
credere, dell'artista di Burbank, c'è piuttosto la
dicotomia fra "la normalità" e l'a-normalità",
socialmente intese, concetti tanto labili dal
rendersi quasi indistinguibili alla pronuncia. Sul
crinale tra i due si collocano molti dei personaggi
più riusciti di Burton: impalpabili, puri, capaci di
dar valore ad un sogno quanto ad un bacio.
Evanescenti come un gatto del Cheshire.
Non stupitevi quindi se alla fine di "Alice in
Wonderland" vi starete ancora chiedendo perché i
corvi assomigliano a scrivanie…
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