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Libri a fumetti

ODISSEA NELLA PREISTORIA
Un viaggio tra cavernicoli e dinosauri a fumetti 
 

di Andrea Cantucci

Cinema

Avatar
di Massimo Acciai
Alice in Wonderland
di Ilaria Mainardi

Miti mutanti 6

Strisce di Andrea Cantucci

Avatar

 

recensione di Massimo Acciai
 


Regia di James Cameron. Con Sam Worthington, Zoe Saldana, Sigourney Weaver, Stephen Lang, Michelle Rodriguez. Giovanni Ribisi, Joel Moore. Genere Fantascienza, produzione USA, Gran Bretagna, 2009. Durata 162 minuti circa.

Non sono riuscito a vedere il tanto declamato 3D; mi sono accontentato della normale versione al cinema più vicino a casa mia. Non so cosa mi sono perso ma penso che un film debba poter reggere anche senza tanti artifici: così per fortuna è stato il caso di questo "Avatar", molto discusso colossal fantascientifico che - bisogna ammettere - mantiene tutte le promesse: spettacolarità, effetti speciali di prim'ordine ed una trama davvero alla portata di tutti. La morale è chiara fin dall'inizio e senza sfumature: i terrestri sono gli invasori cattivi e gli alieni difendono giustamente il loro pianeta, pur se con armi primitive. È la storia degli indiani d'America rivista in chiave fantascientifica, con gli indigeni che nonostante l'evidente svantaggio tecnologico, riescono a tenere testa ai razzi ed ordigni atomici terrestri con delle improbabili frecce. Le atmosfere richiamano in certi momenti vaghi ricordi da Guerre Stellari (la battaglia nella foresta di Pandora somiglia un po' a quella sulla luna boscosa di Endor). Interessante la religione panteistica dei Na'vi, gli indigeni. Niente di originale, ma va bene così.



 

Alice in Wonderland

 

recensione di Ilaria Mainardi


A giudicare dalle immagini che vediamo, dal viaggio nel Paese delle Meraviglie della piccola Alice, a quello del rendez-vous burtoniano, sono passati diversi anni.
La bionda fanciulla londinese si è fatta grande, è in età da marito, come caldeggiano madre apprensiva e sorella cornuta (e ignara…). Aspirano, per la giovane donna, ad un futuro da massaia, molto distante dai reali desideri dell'avventurosa interessata, ancora convinta che le rose bianche si possano dipingere di rosso. E a dirla tutta, ed a complicare le cose, almeno agli occhi della giovane, ci si mette pure il pretendente di turno, un rampollo di agiata famiglia, bruttarello e con sospetti problemi di digestione.
Povera Alice, divisa fra il matrimonio di comodo, suggeritole dalla famiglia, e la prospettiva di fare la fine dell'attempata zia, farneticante circa un principe azzurro che mai arriverà.
Non le resta che fuggire seguendo le orme del Bianconiglio che l'aveva già guidata, a disneyana memoria, nel precedente viaggio.
E così, non ancora donna e non più bambina, ma confinata in quello strano limbo che chiamiamo adolescenza, Alice si ritrova catapultata nel Sottomondo tiranneggiato dalla spietata e macrocefala Regina di cuori ("tagliategli la testa", ricordate?).
Nessuno, o quasi, dei vecchi compagni di avventure sembra avere la certezza che sia proprio lei l'Alice che stanno cercando (per far cosa mica ve lo racconto, se no che gusto c'è?) e per scovare la quale era stato inviato in avanscoperta il pavido coniglio col panciotto e l'orologio da taschino.
E a dire il vero, nemmeno Alice rivendica con forza la propria identità, rispondendo alle obiezioni degli strampalati interlocutori un semplice "questo è il mio sogno e scelgo io come viverlo".
Già, tutto un sogno, facile a dirsi. Ma per sognare, come per vivere, ci vuole fantasia e la fantasia è appannaggio dei bambini, innocenti, curiosi, spensierati. Il mondo degli adulti non prevede nessuna incursione di folli cappellai ballerini o di gatti evanescenti, solo scadenze e responsabilità.
Alice è un'adolescente ormai, l'Alice bambina che gli strambi abitanti di Wonderland hanno conosciuto anni orsono, quella bambina capace di ingigantirsi e rimpicciolire, leccando un fungo bianco e rosso, non esiste più. Alice è costretta a comportarsi da grande perché il suo mondo, quello "reale", la vuole così.
A meno che…a meno che non ci pensi Tim Burton con il suo microcosmo brulicante di personalissime creature, con le sue ossessioni ed i suoi rimandi (Edward Scissorhands è il giardiniere ufficiale della Regina di cuori, non ci sono dubbi!). E così, il regista statunitense, trapiantato in Inghilterra per amore, ormai padre, ormai "adulto" sceglie di far sua una tematica classica, non per bambini in senso stretto (i testi di Carroll sono più un viaggio lisergico ante litteram che tranquillizzanti favole), mettendo in scena in scena la tensione della fanciullezza che si dissolve nell'età adulta. Di conseguenza, si instaura la battaglia fra il potere tirannico e simmetrico (la simmetria come piattezza, come rinuncia alla fantasia?) eppure posticcio, falso della Regina rossa e il potere del sogno, della follia, della "deliranza"di una regina bianca ed eterea che non disdegna di farsi abile fattucchiera, all'occorrenza.
E se ad una bambina non pare vero di confrontarsi, armi in pugno, col feroce Jabberwock, all'adolescente Alice occorre più tempo per scegliere quale sia la storia che vuole vivere…
Burton, dal canto suo, non ha mai avuto bisogno del buio. Il suo mondo poe-tico di freaks esplode con la stessa dirompente forza immaginifica sia che il regista scelga di affrontare tematiche propriamente dark (Sweeney Todd, Il mistero di Sleepy Hollow ecc.), sia che si immerga nel mondo a colori di Willy Wonka o di Edward Bloom (nome affatto casuale, se si pensa che è la fusione di una delle creature più belle partorite dalla mente di Burton con il protagonista joyciano dell'Ulisse).
In questo senso, si colloca la figura del Cappellaio Matto (ottimo, come sempre, Depp), un pierrot malinconico nel quale la follia dell'esistere alterna momenti di buffonesca e colorata clownerie ad altri di mesta e tetra consapevolezza.
La predilezione per la tenebra ed il gusto gotico non riguardano infatti soltanto la scelta fotografica (c'è, del resto, qualcosa di più intimamente "nero" dello scintillante A Clockwork Orange?), come i burtoniani d.o.c. sanno benissimo.
Al centro della riflessione cinematografica e pittorica, più policroma di quanto si sia disposti a credere, dell'artista di Burbank, c'è piuttosto la dicotomia fra "la normalità" e l'a-normalità", socialmente intese, concetti tanto labili dal rendersi quasi indistinguibili alla pronuncia. Sul crinale tra i due si collocano molti dei personaggi più riusciti di Burton: impalpabili, puri, capaci di dar valore ad un sogno quanto ad un bacio. Evanescenti come un gatto del Cheshire.

Non stupitevi quindi se alla fine di "Alice in Wonderland" vi starete ancora chiedendo perché i corvi assomigliano a scrivanie…

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