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Indagine sul destino in termini
di spiritualità laica: Cicli e ricicli
Ci si pone una domanda, da dove
sorge? Diamo una risposta da dove è venuta? Ora, ad
esempio, son qui che mi interrogo sulla realtà del
manifestarsi della nostra vita. Essa è compiuta da
un insieme di forze ed elementi congiunti che si
combinano secondo loro leggi, o dettami del caso,
oppure è il risultato di un agire volontario che
cerca in tutti i modi di forgiarne forma e
contenuti?
Questo investigare è alla base di ogni
concettualizzazione ed azione fisica o metafisica…
Nel tentativo di capire la natura del nostro pensare
ed agire si sono già interrogati gli uomini che ci
hanno preceduto e sarà così per quelli a venire…. E
la risposta?
Questo testo, ad esempio, che io sto scrivendo e che
tu leggi (presupponendo che qualcuno lo legga..) da
dove nasce? Le idee in esso contenute come hanno
potuto affiorate nella mente, come sono condivise e
comprese dall'ipotetico lettore? Il lettore
comprende la tematica quindi significa che
egualmente si è posto il dilemma… In ogni caso è
codesto scritto il risultato di una libera scelta,
un elaborato con un intento preciso, derivante da un
processo volontario, da una decisione di mettere in
atto l'azione del pensare e dello scrivere? O
piuttosto è conseguenza di una serie di impulsi
auto-generati che si uniscono sino a formulare
quest'articolo?
Seguendo un ipotetico processo razionale, di primo
acchitto, sarei portato a rispondere che sì, questo
scritto è frutto della mia decisione, è il risultato
di un mio personale ingegno compositorio che prende
questa forma descrittiva, impiegando le figure di un
ragionamento filosofico…
No, non ne sono sicuro… Non ne sono sicuro perché
"capisco" od intuisco che il mio ragionamento è
definibile solo dopo che spontaneamente e senza
alcuna intenzione da parte mia è apparso nella mia
mente. E' "apparso" e da dove? Il meccanismo della
comparsa dei pensieri è un aspetto sconosciuto ed in
conoscibile, essi sorgono da un non si sa dove….
Solo in seguito al loro presentarsi dinnanzi alla
nostra coscienza possiamo affermare "ho pensato a
questo…".
Insomma facciamo nostri i pensieri dopo che ci son
venuti incontro dal nulla, li possediamo come
qualsiasi altro oggetto che chiamiamo nostro (pur
essendo in realtà della terra)… ed allora il senso
del possesso è solo indicazione continuata d'uso, un
uso comunque limitato nel tempo e nella qualità del
suo godimento…
Ogni cosa che definiamo "nostra" o nella quale ci
identifichiamo, come "il mio corpo" -ad esempio- o
"la mia mente" è in verità nostra solo per una
consuetudine di impiego e di presenza. Quando
sogniamo siamo avvezzi ad identificarci con uno dei
personaggi del sogno e percepiamo questo personaggio
come un "me" che si rapporta con altri personaggi
operanti in un mondo, tutto il sogno in realtà si
presenta davanti alla nostra coscienza e su di esso
non abbiamo alcun controllo operativo, anche se,
come nello stato di veglia, riteniamo di agire con
uno scopo, ottenendo risultati oppure fallendo
nell'ottenerli.
Dico "come nella stato di veglia" per inserire una
rapida analogia comparativa con la realtà del nostro
operare da svegli….
Chiamiamo il nostro agire nel mondo il risultato di
un libero arbitrio e ce ne facciamo, di fronte a noi
stessi ed agli altri (esattamente come nel sogno),
responsabili, accettiamo lo sforzo del tentativo di
raggiungere uno scopo, ci sentiamo frustrati se
falliamo nel conseguimento, consideriamo che le
nostre azioni sono legate ad un processo di causa ed
effetto, ci arabattiamo nel cercare di prefigurarci
un fine, per poi eventualmente pentirci e cercare il
suo contrario.
Le religioni hanno utilizzato questo processo del
divenire e dell'instabilità della mente e del
desiderio di un risultato (immaginato come stabile e
definitivo ma vano) per ordinare la vita di ognuno
in termini di "responsabilità diretta" con
successivo premio finale in veste d'inferno o di
paradiso.
Nel dualismo religioso, sociale, o ideologico, nella
separazione dal Tutto, l'unica cosa che si può fare
è cercare di ottenere buoni risultati utilizzando la
propria volontà, da noi definita libera scelta,
illudendoci così di pervenire a qualche esito che
ingenuamente definiamo la "risposta" alla nostra
ricerca materiale e spirituale. Premio e castigo
sono nelle nostre mani… e con questo peso sul
groppone "commerciamo" e "speculiamo" con e su Dio
-se crediamo il lui- oppure con la Natura e le leggi
della giungla -se siamo atei materialisti- oppure
facciamo come i superstiziosi che dicono "non è vero
… ma ci credo!" finendo un po' di qua ed un po' di
là della barricata immaginaria, o magari, come
spesso avviene alla maggioranza di noi, cercando
tout court di dimenticare il problema immergendoci
nella soddisfazione delle esigenze e necessità
quotidiane.
Ma l'enigma ritorna…. È un qualcosa di sconosciuto
ed in conoscibile che torna a perseguitarci… Alla
fine diamo la colpa agli Dei ed alla forza del
destino! Infatti noi osserviamo per esperienza
diretta che alcune cose che abbiamo intenzione di
raggiungere ci sfuggono, mentre altre che aborriamo
accadono.
"Possiamo definire questa forza che fa accadere ogni
cosa Dio oppure "swabava", che significa l'inerente
natura di ognuno - diceva Anasuya Devi quando mi
trovavo a Jillellamudi - aggiungendo che "questa
forza si manifesta non solo negli eventi naturali e
ciclici ma anche nell'inaspettato e persino nel
tentativo dell'uomo di controllare l'inaspettato, e
persino nel senso di aver noi deciso di compiere un
determinata azione o corso di azioni".
Come dire che questa "forza" assume la forma di
compulsione interiore e che noi, facendo nostra la
formulazione, definiamo "libera scelta"… Insomma la
libera scelta non è altro che lo svolgimento mentale
consequenziale allo stimolo interiore ricevuto, il
modo banale attraverso il quale quella "forza" o "swabava"
ci fa compiere l'azione "volontariamente".
Ciò non toglie che nel nostro io, almeno quel
riflesso mentale della coscienza che definiamo "io",
siamo perfettamente convinti che l'azione compiuta è
frutto di una nostra decisione, che il pensiero
osservato è nostro proprio, che questo scritto è da
me arbitrariamente redatto, che tu stai leggendo di
tua propria opzione.
"Ma i frutti del nostro agire non sono permanenti -
diceva Ramana Maharshi - ed il rincorrerne i
risultati ci rende prigionieri dell'oceano del
"karma" (il divenire attraverso l'azione), impedendo
la comprensione della vera natura dell'Essere"
Ciò significa che le azioni da noi compiute con uno
scopo, e con appropriazione identitaria del
compimento, ci portano ad esperimentare piaceri e
dolori. Essi sono in verità limitati nel tempo ma
lasciano dei semi nella mente, causa di una
successiva fatica nell'evitare o perseguire certe
azioni. Questi semi (detti in sanscrito "vasana") ci
spingono in una serie apparentemente infinita di
coinvolgimenti ed atti, legando la nostra attenzione
al mondo esteriore ed impedendo la scoperta della
nostra vera natura interiore. Perciò
nell'intendimento dato all'azione non può esserci
affrancamento dall'io (ego), che è limitato al corpo
mente.
Si potrebbe obiettare che se non c'è intendimento
nemmeno l'evoluzione è possibile, né il
miglioramento della propria condizione….
Eppure accettando la crescita spontanea alla quale
la vita spontaneamente tende (come è nei fatti
comprenderlo) saremo "liberi" di portare a termine
tutte quelle azioni che naturalmente vanno nella
direzione della crescita, ad adempimento
dell'ispirazione interiore, senza assumercene
l'onere….
Chiamarlo "arrendersi" alla propria inerente natura
o svolgimento del proprio dovere karmico (dharma) a
questo punto non importa, succede e basta!
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