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Libri a fumetti
Teatro
Miti mutanti 22
Un artista a
Coverciano 8
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In memoria di un Sissy Boy
"Sissy Boy (La conferenza del
sig. S.B.)"
di Franca De Angelis, con Galliano Mariani, regia di
Anna Cianca
Teatro Lo Spazio (Roma)
Ma che spettacolo intenso è "Sissy Boy"! Che
regia limpida ed incisiva, che testo delicato e
dolente, che interpretazione magnifica!
Su uno schermo a lato vediamo una mamma degli anni
settanta, sotto il casco del parrucchiere, sfogliare
una rivista di pettegolezzi, e, allo stesso tempo,
intrattenere una conversazione con un'altra donna,
soffermandosi sui meravigliosi occhi azzurri di Ugo
Pagliai - tra l'altro, questo pomeriggio, attento
spettatore in sala - nel mitico sceneggiato "Il
segno del comando", chiedendosi se Lucia,
l'intrigante personaggio femminile interpretato da
Carla Gravina, fosse un fantasma oppure no.
È questo l'incipit folgorante di un monologo che
scivola veloce e lieve sciogliendosi in un'ora e
venticinque minuti di sofferenza e sorrisi, desideri
dolcissimi ed altissime violenze subite.
Su un proscenio vuoto, abitato solo da due cubi, da
cui usciranno bambole e barbie, da un lato,
soldatini e mitragliette, dall'altro, racconta la
sua storia, sotto forma di conferenza, Sergio Bello,
il Sissy Boy del titolo - la parola sissy,
nell'Oxford Dictionary, è così riportata:"(Tipical
of) effeminate or cowardly person" -; noto con
stupore, e non solo filologico, l'accostamento di
persona effeminata a persona vigliacca. Mah!
Comunque sta a significare, in tono dispregiativo,
un "maschio-femmina".
È un bambino, è solo un bambino, Sergio, quando si
scopre a giocare con le barbie della sorella, a
preferire la poesia ai giochi maneschi del fratello
maggiore, ad adorare Maga Maghella e la sua ingenua
canzone, sigla finale di una "Canzonissima" del
1971. Ed è proprio questa sua passione per Maga
Maghella a spingerlo ad indossare il suo costume di
maga e a ballare e cantare davanti a tutta la
famiglia. Questo suo exploit, involontariamente
rivelatorio, preoccupa molto la madre, la quale,
venuta a conoscenza di un dottore capace di curare
comportamenti effeminati, tale dottor G. di Bologna,
penserà bene di portare il figlio da lui, per
"correggerlo" in tempo. Le scene delle sedute in cui
Sergio è lasciato da solo nello studio dello
psicologo, osservato dal medico e dalla stessa
madre, attraverso uno specchio come quello delle
sale degli interrogatori di un posto di polizia,
direi anzi "sorvegliato e punito", mentre,
credendosi libero, gioca contento con le barbie più
in voga o all'ultimo grido, sono bellissime e
struggenti.
Dopo venti mesi, il bambino non è più un "maschio-femmina",
non gioca con le bambole; in realtà non gioca più,
bensì descrive ossessivamente il perimetro del
giardino, scavando metaforicamente e mentalmente, da
quel momento in poi, la sua esistenza di "talpa".
Una talpa invisibile a se stessa e agli altri. Il
tempo scorre. Adolescente, baciato da un suo
compagno di classe, sente affiorare in sé tutta la
dolcezza e la forza del desiderio, ma, all'istante,
lo stomaco gli si contorce in terribili spasmi e la
nausea lo sovrasta. Stessa reazione se osa mangiare
il suo dolce preferito, un innocuo tiramisù. Inizia
a lavorare in banca. Incontra Marcello, e con lui
l'amore, un grande amore, ma strategie varie e
strenue opposizioni non riescono a liberarlo dai
terribili morsi allo stomaco né dalla nausea. Dovrà
ritirarsi e rinunciare a questo amore. Qual è stata
dunque la cura del dottor G.? Semplice: associare
allo sbocciare di ogni suo desiderio più autentico,
una sensazione di dolore insopportabile, con
contorsioni allo stomaco, accompagnate da conati di
vomito.
Sergio continua la sua esistenza di talpa, anche
quando si sposa con una sua collega di banca, anche
quando la moglie perderà il bambino che stava
aspettando; un bambino concepito peraltro grazie
all'aiuto della forza dirompente dell'immaginazione.
Sergio entra infine in analisi, scopre la sua stessa
sofferenza in altri pazienti; riemergono alla luce
le immagini e le sensazioni di quelle lontane sedute
col dottor G. e l'uomo di oggi sprofonda in quelle
lontane emozioni, saltando in platea, in una specie
di scatola aperta dove gli spettatori scrutano, ad
altezza d'occhi, i suoi ricordi e i suoi traumi -
splendida soluzione registica! -.
Vuole vivere, Sergio; vuole finalmente appropriarsi
di una vita autentica, capace di seguire i propri
sogni, i propri desideri, le proprie inclinazioni
creative. Che ne è di un individuo se gli si sono
tolti il sentimento, l'eros, l'amore, il desiderio?
Che potrà essere mai un individuo così vitalmente
mutilato? Il pozzo oscuro di una vita devitalizzata,
infine, lo risucchia in un'inevitabile volontà di
autosoppressione.
Lo spettacolo si chiude sullo stesso schermo con cui
è iniziato e dove appare la scritta che ricorda come
il testo si sia ispirato alla vera storia
dell'americano Kirk Andrew Murphy, morto suicida a
trentotto anni dopo essere stato in cura, appena
cinquenne, presso il dottor George Rekers della
National Association for Research and Therapy of
Homosexuality, il quale garantiva la "guarigione"
dei bambini effeminati (i sissy boys) in soli 22
mesi (sic!). Ah, infida potenza della pubblicità!
La pièce, scritta da un'ispirata Franca De Angelis,
alterna patimenti a sorrisi, violenze psicologiche e
sogni soffocati che continuano tuttavia ad affiorare
e a riproporsi, senza scadere mai nel
sentimentalismo o in un pietismo che sarebbe stato
molto facile da suscitare, bensì mantenendo un
tocco, una misura ed una finezza, oltre che una
tenuta drammaturgica notevole, che sorprendono ed
incantano - nonostante la dolorosità dei temi
trattati -. Questo tocco, profondo ed elegante ad un
tempo, mi ha riportato alla mente l'opera "La serra"
di Harold Pinter. Lì erano i matti ad essere
brutalizzati dal Direttore di un istituto
psichiatrico; e il dolore di quei matti era
infinitamente superiore alla violenza, bruta e
accademica, del Direttore Roote, così come il dolore
di Sergio è infinitamente superiore alla violenza
psicologica del dottor G. e dei tanti dottori G.
sparsi per il globo. Un dolore purtroppo
irredimibile, inscioglibile per il personaggio
Sergio così come per il realmente vissuto Kirk. È la
forza repressiva di una società e di una cultura che
schiacciano i desideri, i palpiti, l'anima di un
individuo condannandolo ad un'esistenza di
disconoscimento di sé e dei propri sentimenti.
Sembra quasi che gli studi di Foucault (sulle
istituzioni correttive e sui sistemi repressivi,
esteriori ed interiori) siano passati invano o senza
lasciare durevole traccia.
La regia di Anna Cianca è trasparente, attenta a
seguire con grande sensibilità il testo e l'attore,
l'unico attore. Con pochi oggetti è riuscita a
ricreare ambienti e tanti personaggi solo alludendo,
suggerendo, evocando. A me sono rimasti impressi il
suono del battito cardiaco in alcuni momenti
cruciali e lo sprofondamento in platea della
dimensione inconscia del protagonista, dove i
giocattoli non sono più colorati, come nel racconto
diurno, diciamo così, bensì grigi e neri, spenti,
morti come è ormai morta l'anima di Sergio. Perché
prima di puntare la pistola sulla propria tempia,
prima di premere quel grilletto, Sergio, in realtà
era già morto; la sua anima, nella sua interezza,
nella sua libertà, nella sua autenticità, era già
spenta, cinerea, morta.
L'interprete, Galliano Mariani, è e resterà
memorabile. Usa tantissimi registri, tanti toni; è
ora bambino, ora giovane, ora adulto con grande
maestria, optando per una recitazione asciutta
eppure tenerissima, capace inoltre di evocare tutti
gli altri personaggi con cui entra in contatto, ma
mai presenti, in carne ed ossa, sulla scena.
Indimenticabile, per me, soprattutto in due momenti:
quando non riesce a capire perché la mamma dopo
alcune sedute dal dottor G. è fredda e non lo
abbraccia più, e lui si interroga su dove può aver
sbagliato (davvero straziante) oppure quando viene
trascinato per mano dalla stessa mamma e noi vediamo
l'attore girare attorno in quadrato, a braccio
alzato, a passo affrettato, cercando di tenere il
passo materno, con il corpo tutto ondeggiante e la
mente del bambino che non comprende, non riesce
proprio a comprendere la stizzita e furiosa reazione
della donna (davvero toccante).
Né il testo, né la regia, né l'interpretazione lo
dichiarano in una maniera esplicita. Ma lo
spettatore, che ha assistito a questo spettacolo,
però, può farlo; lo spettatore pensante è sospinto a
farlo: chissà se i responsabili di simili brutalità,
se i complici di simili terapie "correttive" avranno
mai un sussulto, nelle loro vite - e nelle loro
carriere -, per il così grande e profondo male
portato a creature innocenti! Chissà!
(febbraio 2014)
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