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Libri a fumetti

Gli eroi ritornano sempre
Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

Un Giobbe russo, la Legge e Dio
di Maria Antonietta Nardone

Interviste

Videointervista a Vincenzo Gualano
A cura di Massimo Acciai e Iuri Lombardi

Miti mutanti 25

Tavola di Andrea Cantucci

Un Giobbe russo, la Legge e Dio
 

Maria Antonietta Nardone

 



LEVIATHAN
regia di Andrej Zvjagincev
con Aleksey Serebraykov, Elena Lyadova, Roman Madyanov, Vladimir Vdovichenkov, Anna Ukolova, Valery Grishko

Era tanto che non vedevo un film così potente, così coraggioso e così profondo! "Leviathan", diretto da Andrej Zvjagincev, magistralmente girato, stupendamente interpretato e superbamente fotografato, lo è. E lo è al punto da rimanere in testa e nell'animo per giorni e giorni, capace come è di suscitare emozioni, interrogativi e riflessioni che investono l'umano sentire e pensare da che mondo è mondo.
La vicenda è presto detta - e va detta e raccontata. Nikolai, Kolia per gli amici, è un meccanico che vive in un remoto villaggio della penisola di Kola, sul mare di Barents, in una casa con annessa autofficina costruita con le sue stesse mani, assieme alla seconda moglie, la bella ed introversa Lilya, e il figlio adolescente avuto dalla prima moglie morta, l'insofferente ed immaturo Roman. Casa e terreno fanno gola al sindaco del villaggio, Vadim, il quale ha già pronto un piano di lucrosissima speculazione edilizia, e si sta muovendo per espropriargli la proprietà offrendogli in controparte una ridicola manciata di rubli. Kolia chiama in suo soccorso Dimitri, suo ex compagno nei parà, frattanto diventato un capace avvocato che opera a Mosca. È qui che ha inizio il film e la storia. L'amico avvocato tenta in un primo momento di avere la meglio seguendo la prassi legale, pur essendo consapevole della sua inefficacia. Non riuscendoci, considerata la corruzione e collusione di tutti e tre i poteri operanti (amministrativo, inquirente e giudiziario) ? la scena in cui i rappresentanti dei tre poteri sono riuniti in uno stesso tavolo è da brividi così come anche le scene della lettura delle sentenze ? tenta la carta del ricatto ai danni del sindaco prepotente e malavitoso. Ma la rete corruttiva è talmente diffusa da interessare perfino le autorità ecclesiastiche nella figura arcigna ed inquietante del vescovo ortodosso, presso cui il "devoto" sindaco va spesso a confidarsi e a chiedere consiglio, e che non fa che ripetere con sinistra sicumera:"Tutto il potere viene da Dio" (come se, per talune gerarchie ecclesiastiche, in quel 1789, non ci sia stata nessuna rivoluzione francese!). A questa rete Kolia non può sfuggire. Se poi a ciò si aggiunge anche la scoperta del tradimento della moglie proprio con il suo vecchio amico Dimitri, ecco che la situazione precipita.
E Kolia arriverà, complice anche l'incontrollabilità delle sue sistematiche bevute di vodka, che lo rendono ora inutilmente irascibile ora privo di coscienza, a perdere tutto: la casa in cui vive, l'amata moglie e, infine, perfino la libertà. Personaggio tutt'altro che simpatico, questo Kolia - e questo va a merito del regista che non ne ha fatto un improbabilissimo santino - tuttavia non si può non partecipare delle sue sventure e di quel senso di giustizia sbeffeggiato e sopraffatto dalla crassa ed impunita avidità del sindaco. Ma il regista siberiano punta più in alto riuscendo a dare all'intera vicenda un taglio profondamente metafisico.
Comprendiamo ora la ragione del titolo: "Leviathan". Si richiama al Leviatano della Bibbia, all'animale mostruoso che insidiava Giobbe così come anche al Leviatano di Hobbes, il filosofo del '600 che descrisse le derive di uno Stato che stritola e fagocita i suoi cittadini, ma che teorizzava anche la necessità dell'unione tra il potere di questo stesso Stato e il potere religioso, tra potere temporale e potere spirituale. E il regista racconta perciò entrambe le dimensioni, quella politico-sociale e quella religiosa, quella fisica e quella trascendente. Il potere, l'autorità, sia pure quelli di uno sperduto villaggio nella Russia del Nord, che schiacciano ed ingoiano gli uomini di cui dovrebbero invece essere al servizio. E il mostro biblico, che nel film è simboleggiato dalla carcassa di una balena blu adagiata sulla riva della spiaggia, è lì a ricordare non solo l'onnipotenza divina, la sua forza incommensurabile rispetto a quella umana, ma soprattutto la sua inaccessibile imperscrutabilità.
La storia di questo Giobbe russo, a cui però, alla fine, non sarà restituito alcunché e non invecchierà vedendo i suoi nipoti fino alla quarta generazione ma perderà tutto, ha così un esito diverso da quello biblico. Significativa la scena in cui il pope ripete senza convinzione proprio la storia di Giobbe ad un colpito, distrutto ed esterrefatto Kolia, ormai alle battute finali delle sue "disgrazie".
Film potente e coraggioso, scrivevo. Coraggioso non tanto - e comunque non solo - nella rappresentazione di uno Stato prepotente e violento, di una classe politica ed amministrativa corrotta e vessatoria ? è questo il coraggio più facile da vedere, per lo spettatore, ma non è il maggiore. Il grande coraggio, per quanto mi pare di aver compreso, è nella capacità di impegnarsi in profonde ed ineludibili riflessioni esistenziali sul destino, sulla giustizia - umana e divina - sul tradimento, sul silenzio di Dio e sulla bellezza indifferente ed inconsapevole della Natura.
E perciò, in esso, si sente muoversi e palpitare la letteratura russa dell'ottocento. La grande letteratura russa dell'ottocento, da Dostoevskij a Gogol. Kolia è un uomo pieno di passione e di cattive abitudini, facile all'ira e alle smodate bevute di vodka, come il Mìtja (Dmitrij) de "I fratelli Karamàzov", e, come lui, subirà, innocente, un processo, che perderà. Ed anche la fede religiosa è vista nelle sue due dimensioni: quella autentica e naturale di Alëša nel romanzo, nel film è rappresentata da Lilya e dalle donne che portano un pezzo di pane a chi ne ha bisogno e a quelle che lo ricevono; quella criticata e contestata da Ivàn, espressa nel suo poema "Il Grande Inquisitore", emerge nel film come la vittoria dell'istituzione religiosa e della pratica di potere (lontana anni luce dalle parole del Vangelo e che, se Cristo riapparisse sulla terra, lo ri-condannerebbe a morte, per non perdere il proprio potere) ed è rappresentata dalla figura del vescovo, che è in combutta col sindaco, e le cui parole finali, irrimediabilmente svuotate di ogni senso e di ogni credibilità, pronunciate durante la funzione religiosa, folta soprattutto degli abitanti più corrotti del villaggio, suonano sopratutto in tutto il loro glaciale ed impietoso vuoto. Un vuoto privo della più lontana forma di empatia, compassione e misericordia.
E non è un caso che, in Russia, le polemiche suscitate dal film e le intimidazioni più forti al regista siano state portate proprio da parte di certe gerarchie del clero ortodosso. Si è arrivati persino a chiedere di licenziare l'attore che interpreta il vescovo, Valery Grishko, dall'Accademia Statale di Arte Drammatica presso cui lavora. Anche se non sono mancate, dall'ala politica più reazionaria, le solite accuse di antipatriottismo che sembrano essere ormai la modalità con la quale qualsiasi tentativo, artistico o giornalistico, di mostrare la verità delle cose (terrene) di questo paese, viene puntualmente tacciato.
La descrizione del sindaco traffichino, invece, riporta ad echi gogoliani. Penso soprattutto al testo teatrale "L'ispettore generale", dove la macchina corruttrice sembra avvolgere ed inglobare tutto. Faccio notare che la pièce uscì nel 1836, ossia in piena epoca zarista. Questo per dire che la pratica della corruzione ha origini più profonde e più antiche della società odierna russa, che pure è affrescata con limpida decisione.
Le figure che mi hanno più emozionato sono quelle femminili. Non quelle che sono solo supine rotelle del Potere e dell'autorità costituita bensì quelle umanissime di Lilya e di Angela. Lavorano entrambe nella locale fabbrica del pesce, dove arrivano uscendo di casa prima dell'alba e dove le trasporta un pullmino che raccoglie tutte le operaie della zona; e, pur diversissime per carattere e temperamento, le due amiche sono capaci di provare sentimenti forti e tenaci e sanno che cosa sia la cura dell'altro, sia esso il coniuge, il figlio (anche non proprio) o l'amico. La sofferenza di Lilya l'ho sentita fino nella più profonda intimità dell'anima. La forza coriacea di Angela, quel suo fare sbrigativo e spiccio eppure sommamente affettuoso, di un'affettuosità vera, priva di smancerie sentimentalistiche mi sono arrivati con grande efficacia e naturalezza.
I personaggi maschili sono perlopiù ritratti nelle loro debolezze, nelle loro meschinità e nella loro mediocrità; quando hanno un giorno da festeggiare non trovano di meglio che andare a fare un pic-nic in una landa sperduta, a sparare ai ritratti dei vari leaders (Breznev, Lenin, Gorbaciov) che si sono succeduti nel tempo, non senza prima aver abbondantemente iniettato nel corpo massicce dosi di vodka. E qui la presa in giro del regista per la smodata passione per l'alcool dei suoi connazionali, per una sostanziale rassegnazione alle prepotenze dell'autorità e per una continuità nella visione storica della Russia più recente è molto acuta ed irriverente nonché soprattutto libera.
L'altro personaggio, potentissimo, è la Natura. La sua bellezza altera, quasi estranea all'uomo - almeno in questa storia. Ma anche un'umanità inconsapevole di questa altera, superba bellezza che resta lì anche senza l'uomo. Sembra restare lì anche senza l'uomo. O, al massimo, con la figura di un adolescente che piange sconsolato seduto su una roccia, davanti alla carcassa di una balena sulla spiaggia, ai relitti di alcune navi e alla splendente, ma distante luce del mare e del cielo.
Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano tedesco, rinchiuso nel carcere di Tegel dai nazisti - fu impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg nell'aprile del 1945 - così scriveva nel 1944 in una lettera indirizzata all'amico e cognato Hans von Dohnanyi:"Il nostro modo di diventare adulti ci porta a riconoscere, con realismo, la nostra condizione davanti a Dio. Dio si fa conoscere da noi che dobbiamo vivere come persone capaci di affrontare la vita senza Dio. Il Dio che è con noi è il Dio che ci abbandona. Il Dio che ci lascia vivere nel mondo senza pensare all'ipotesi che Dio operi in esso. Questo è il Dio davanti al quale noi stiamo in modo permanente. Davanti a Dio e con Dio dobbiamo vivere senza Dio […]". E più oltre riprende:"Dio è debole e impotente nel mondo e questo è esattamente il modo, l'unico modo in cui egli è con noi e ci aiuta".
Mi sono venute in mente queste considerazioni dopo la visione di questo film, di questa storia, di questo protagonista e di questo nostro tempo in cui la debolezza o il silenzio di Dio, del Divino, del Mistero, dell'Infinito vengono spesso interpretate come assenza di Dio, del Divino, del Mistero, dell'Infinito mentre, invece, si può darne un'altra lettura. Si può. Ne abbiamo facoltà. Sì, ne abbiamo proprio tutta la facoltà.
Un film che riecheggia e propone riflessioni fatte da Dostoevskij, da Gogol e da Bonhoeffer: e scusate se è poco!
Strutturalmente compiuto nelle sue due simmetriche parti, con immagini ed inquadrature belle ed eleganti, una scenografia maestosa ad opera di Andrej Ponkratov, la musica nientedimeno che di Philip Glass ed una sceneggiatura finissima, firmata da Oleg Negin e dallo stesso regista, il film offre anche una recitazione tanto grandiosa quanto naturalissima. Aleksey Serebraykov è un Kolia sanguigno e sopraffatto, desideroso di ottenere giustizia ed allo stesso tempo pieno di limiti (caratteriali) e difetti (il bere), ma è anche un uomo che ama la sua bella e giovane moglie Lilya, che ama il figlio adolescente Roman e il villaggio dove la sua famiglia vive da generazioni. Bravissimo! L'attrice che interpreta Lilya, Elena Lyadova, è di una bravura emozionante e portentosa; al punto che la sofferenza più profonda e più intensa è proprio quella trasmessa da lei. Indimenticabile! Come sono indimenticabili i suoi sguardi e la sua dolente malinconia. Roman Madyanov incarna con perizia la grassa e stolida avidità del sindaco Vadim; la sua faccia, simile in alcuni tratti a quella di un maiale, mi ha ricordato i disegni e i quadri di Grosz. Come a ribadire: l'arraffare traffichino e violento del capitalismo più selvaggio non riguarda solo la Russia contemporanea, ma affonda i suoi denti in tanti paesi così come anche in epoche diversissime. Vladimir Vdovichenkov è lo scettico Dimitri, l'amico avvocato, che crede solo ai fatti, che non esita dal ricorrere al ricatto, ma ne uscirà più che sconfitto, umiliato direi, e che per una brevissima, evanescente soddisfazione sessuale non esita a tradire l'amico di vecchia data. Anna Ukolova è una credibilissima Angela, e dà al suo personaggio sentimenti profondi e sani dietro a quel suo fare pragmatico e brusco. Valery Grishko è straordinariamente convincente nel prestare la sua bella figura all'ambiguo e perturbante vescovo ortodosso.
Cinematograficamente parlando, Zvjagincev è più Tarkovskij che Sokurov. E più Bresson che Kieslowski. Insomma, siamo davanti ad un autore di cui ricordo e segnalo il folgorante film d'esordio, "Il ritorno", che vinse il Leone d'oro alla Mostra Cinematografica di Venezia nel 2003. A cui ora si aggiunge questo preziosissimo e potentissimo "Leviathan", che ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura al Festival di Cannes 2014 e il Golden Globe 2015 come miglior film straniero.
Chiudo questo mio articolo ripetendo la frase di Bonhoeffer, già citata sopra, che mi sembra quella che più focalizza questo importante, importantissimo film:"Dio è debole ed impotente nel mondo e questo è esattamente il modo, l'unico modo in cui egli è con noi e ci aiuta".

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