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Il terremoto e la bambina
nepalese
Maria Antonietta Nardone
"Considera che tutti gli
esseri umani hanno questa doppia natura come matrice
[inferiore e superiore]. Io sono l'origine ma anche
il dissolvimento dell'universo tutt'intero". (Krishna
nella Bhagavadgita)
"Ah, non merita forse il mondo questa buona sorte,
cioè che la tua mente provi compassione per tutte le
creature?". (dal Buddhacarita di Asvaghosa)
L'origine e il dissolvimento
Sabato 25 aprile 2015 alle ore 11,56 un terremoto di
magnitudo 7,8 della scala Richter ha colpito il
Nepal, con epicentro a 80 km a nord-ovest di
Kathmandu andando verso Pokhara, con scosse che si
sono avvertite in tutta la regione attorno all'Himalaya,
oltre che in India, in Bangladesh, in Tibet e in
Bhutan. Le immagini della distruzione di uomini,
case, scuole, palazzi storici e siti archeologici
rimbalzano da un telegiornale all'altro con
inquietante ossessività. Cominciano a vedersi anche
le immagini dei soccorsi internazionali: grandi
pacchi di cibo, medicinali e tende che vengono
caricati nella pancia di aerei pronti a partire.
Nuove immagini del disastro sostituiscono le
vecchie. Si aggiorna il conteggio dei morti, dei
feriti e dei dispersi. Si dà conto delle varie
emergenze: l'inquinamento dell'acqua,
l'impressionante numero di bambini rimasti orfani e
le innumerevoli famiglie rimaste senza un tetto
quando ormai sta per arrivare il monsone.
Resto per giorni e giorni incredula, imbambolata ed
abbattuta. Sono stata più volte in Nepal,
conquistata dal suo splendore
artistico-architettonico e dalla gentilezza
sorridente della sua popolazione. Mai e poi mai
avrei immaginato che Kathmandu, Patan, Bhaktapur
sarebbero state colpite da un terremoto che ne
avrebbe cambiato i connotati portandosi via migliaia
e migliaia di uomini, donne e bambini!
Eppure niente è più vicino all'impermanenza, al
concetto buddhista di impermanenza, di questo essere
spazzati via da una scossa devastante della terra,
così come allude anche il mandala, in specie quello
fatto di sabbia colorata, che viene dissolto una
volta compiuto, proprio a ricordare il mutamento
incessante a cui è soggetta l'esistenza tutta.
Tra pochi giorni questa "notizia" del terremoto
sparirà dai titoli dei quotidiani, dalle news dei
telegiornali così come è accaduto nel 2007 con la
rivolta dei monaci in Birmania, soppressa nel sangue
dalla giunta militare al potere, così come è
accaduto con quei tibetani che si sono dati fuoco
per protesta contro l'oppressione cinese a partire
dal 2006; sono tutti spariti dalla nostra vista e
dalla nostra mente.
E difatti, dieci giorni dopo, il Nepal è sparito non
solo dalle prime pagine dei giornali, ma anche da
quelle più interne. Chi vuole conoscere l'evoluzione
degli avvenimenti sarà costretto a ricorrere alla
stampa estera o ai vari siti asiatici. Se n'è
riparlato fugacemente il 12 maggio solo perché c'è
stata una nuova, fortissima scossa, con un altro
epicentro questa volta, a Namche Bazaar, l'ultimo
centro abitato, nella valle del Kumbu, prima di
raggiungere i vari campi-base dell'Everest o del
Lhotse dal versante nepalese. E poi, di nuovo, più
nulla. L'oscuramento più compatto.
Piangono i loro morti (prima); le bellezze
sbriciolatesi saranno ricostruite (dopo aver onorato
i loro morti)
Sulla bellezza di Kathmandu, di Patan, di Bhaktapur
ho già scritto altrove e non mi ripeto. Trovarsi in
questi luoghi, camminarvi, guardare attorno a sé,
respirare quest'aria è un'esperienza memorabile. E
la dolcezza e la mitezza della popolazione sono
inscindibili dalla bellezza di questi luoghi.
Intendo dire che senza la dolcezza e la mitezza di
questa popolazione, questi luoghi, pur esteticamente
fascinosissimi, sarebbero senza anima e senza vita.
E l'aspetto importante, al momento, non è che quanto
sarà ricostruito sia o sarà da considerarsi
"taroccato". Questi sono scrupoli di filologia
archeologica a cui i nepalesi non badano.
L'importante è ricostruire; è ripristinare una
bellezza colpita, ma non definitivamente perduta.
L'importante è che essi riabbiano il loro splendore
d'arte, cultura ed architettura. Kathmandu - la
valle di Kathmandu - non è Las Vegas. Non si è
formata e non sarà ricostruita con lo spirito di
un'alienante Las Vegas, ma con quello di Shiva
accanto a quello di Buddha. E, se permettete, la
differenza è incommensurabile.
I nepalesi, difatti, continueranno a fare offerte ai
loro dèi e ad essere immersi nel loro universo
religioso, sia esso hindu o buddhista. Un universo
religioso che da millenni ha scandito, scandisce e
scandirà ogni momento della loro giornata con una
gioiosa naturalezza che noi europei abbiamo perduto.
Ora è il tempo di piangere e di onorare i loro
morti. È tempo di effettuare le cerimonie funebri e
le cremazioni rispettandone i rituali e le
tradizioni. Le bellezze distrutte e ridotte a
polverosi calcinacci saranno ricostruite; magari ci
vorrà del tempo, magari un bel po' di tempo - e di
necessari aiuti internazionali - ma saranno
ricostruite. Chiunque sia stato in Asia o conosca
l'Asia sa che nelle ricostruzioni gli asiatici non
hanno scrupoli filologici, come scrivevo sopra. Il
reperto archeologico, quando è vecchio e cadente,
spesso viene distrutto e ricostruito da capo. Per le
metodologie archeologiche europee, lo so, questo è
un orrore. In Cina, nel Sud-est asiatico, in
Mongolia, in Asia centrale non vanno tanto per il
sottile. Il vecchio è vecchio. Una cosa, se rotta o
consunta, è meglio rifarla nuova. Bisogna conoscere
questo sostrato culturale ed antropologico se si
vuole comprendere qualcosa del paese in cui si è e
su cui spesso si discetta con superficiale sicumera.
I soccorsi internazionali e la compassione dei
buddhisti
È davvero inutile chiedersi perché i villaggi di
montagna colpiti dal terremoto nella regione del
Langtang non siano ancora stati raggiunti dai
soccorsi tre settimane dopo il sisma? È proprio così
retorico sostenere che se questi villaggi fossero
stati una prestigiosa località alpina in Europa o
nel Nord America i soccorsi sarebbero arrivati in un
tempo ragionevole - qualche giorno e non settimane e
settimane? No, io credo che non sia inutile né
retorico. È la realtà dei fatti e della situazione,
si dirà; una realtà triste, ingiusta e umanamente
insopportabile. Una realtà a cui le coscienze non
ignave non si rassegnano e non si vogliono
rassegnare.
Chi ama questo paese e la sua gente farà i salti
mortali (tante le iniziative di gruppi e soggetti
privati che risultano più efficaci e risolventi di
quelle degli Stati o delle "grandi" associazioni
internazionali) per riuscire a portare aiuti
concreti - e il bene concreto è anche l'autentico e
profondo senso del Vangelo. A chi non sa nemmeno
dove sia geograficamente il Nepal, continuerà a non
importare nulla di questo lembo di terra e della sua
popolazione sofferente; continuerà ad ignorare
questo paese e quanto è successo senza nemmeno
sapere quale danno, con questa inscalfibile
indifferenza, costui faccia alla sua anima. Un
buddhista invece lo sa ed avrà compassione della sua
stolta "ignoranza" per non aver percepito e compreso
una delle intuizioni fondamentali dell'esistenza: la
connessione di tutti gli esseri viventi e senzienti
e l'interrelazione che lega in una rete unitaria ed
universale ogni realtà.
I soliti soloni occidentali e il grande Hillary
Riguardo allo sfruttamento commerciale delle vette
dell'Himalaya, Everest in testa, stupisce l'ipocrita
moralismo di certi occidentali, che sembrano
accorgersi adesso, in occasione di questo terribile
terremoto, quanto accade su queste montagne, quanti
campi-base sono stati allestiti e quanto traffico e
via-vai ci sia ormai su quei costoni, nonostante
tutto, straordinariamente magici. Se gli sherpa -
portatori e guide d'alta quota - che sono circa
60.000 e contano centinaia e centinaia di dispersi,
sostengono che prima si riapre alle scalate e meglio
è per la vita delle famiglie nella valle del Kumbu,
perché non dar loro retta? Essi sono nella loro
terra, ci vivono da generazioni e generazioni,
conoscono queste montagne come nessun altro, sono
perfettamente consapevoli che il sostentamento delle
famiglie della valle dipende dal loro lavoro ed ecco
che arrivano i soliti soloni occidentali da quattro
soldi che con piglio
paternalistico-neocolonialistico spiegano loro per
quali motivi non è bene che si riaprano al più
presto le vie per nuove spedizioni alpinistiche.
Faccio notare che quando uno sherpa muore, la sua
famiglia è costretta ad emigrare e ad andare a
svolgere mansioni di servizio presso ricche famiglie
in India o nei paesi del Sud-est asiatico. Se uno
sherpa non lavora, che sia vivo, malato o morto,
questo è il destino che spetta alla sua famiglia. Il
fatto che i nepalesi siano poveri di beni materiali
non significa che si debba mancare loro di rispetto
o trattarli da minorati. E poi, andiamo, che cos'è
tutta questa preoccupazione per i templi distrutti
quando poi si manifesta una spessa insensibilità per
i sopravvissuti, per i loro effettivi bisogni e per
la loro dura condizione di vita?
Per fortuna, non tutti gli occidentali sono così
ipocriti e così ipocritamente moralistici. E allora
mi piace ricordare la storia di Edmund Hillary e
dello sherpa nepalese Tenzing Norgay, che per primi
raggiunsero il 29 maggio 1953 la vetta dell'Everest
senza voler rivelare chi dei due avesse praticamente
messo per primo il piede in vetta. Ci furono, a
questo proposito, le immancabili polemiche. Solo
qualche anno più tardi, Norgay dichiarò che il primo
a mettere piede in cima fu Hillary perché, in quel
momento, toccava a lui stare davanti. Tutto qui. Lo
scalatore neo-zelandese, dal canto suo, raccontò
sempre che raggiunsero la cima insieme e che non
c'era altro da dire. Lassù, in vetta, in quell'aria
sottile, Hillary piantò una croce, Norgay fece
un'offerta agli dèi di dolci e frutta, quindi, dopo
un quarto d'ora cominciarono a scendere per la
mancanza di ossigeno. Ecco, questa è la grandezza
d'animo che appartenne a quei due grandi uomini, a
quei due grandi amici "montanari".
Di quell'impresa ho visto le fotografie, come tanti,
ma soprattutto ho visto con i miei occhi gli
scarponi, i ramponi ed altre attrezzature piuttosto
rudimentali, che usarono questi due eccelsi
scalatori, esposti al Museo della Montagna di
Darjeeling, in West Bengala (India); vedere con
quali oggetti e con quali materiali hanno affrontato
il vento, la neve, il ghiaccio, il sole, il gelo dal
percorso del Colle Sud fino alla cima della "Dea
madre del mondo" - così i tibetani chiamano
l'Everest - mi indusse ad un grande stupore e ad
un'ancora maggiore ammirazione. Hillary, poi, non si
accontentò di essere stato il primo, assieme a
Norgay, ad aver scalato gli 8.848 metri della
montagna più alta della terra. Istituì un fondo, l'Himalayan
Trust, col quale operò nelle più remote regioni del
Nepal, costruendo scuole ed ospedali. Quando morì,
nel 2008, la popolazione dell'intera valle del Kumbu
si riunì per ricordarlo ed onorarlo.
La bambina di Patan
E mi tornano alla mente alcune immagini e sensazioni
di uno dei miei diversi viaggi in Nepal. Quando,
andando verso Kodari, al confine cinese, passando
per Dhulikhel, vidi lo splendore delle coltivazioni
a terrazza ma anche la precarietà di quelle loro
case, spesso palafitte erette sui dorsi delle
colline o delle montagne, che già allora destarono
in me, al solo guardarle, un'enorme preoccupazione.
C'erano donne che trasportavano enormi gerle sulle
spalle o con una fascia legata sulla fronte, bambini
seminudi che correvano e si rincorrevano giocando,
uomini che lavoravano ad un'ala della casa o a
riempire dei grandi sacchi eppure, tutti sempre
sorridenti, sempre pronti, loro, a dare una mano a
noi, viaggiatori stranieri, se si impantanava la
jeep, se avevamo bisogno di cambiare una gomma o di
acqua per il radiatore. E sempre pronti ad offrirci
del thè bollente con cui ristorarci e fare insieme
quattro chiacchiere.
A Patan, per una coda imprevista del monsone che si
è allungata fino a fine settembre, cade una pioggia
battente. Mentre continuo a gironzolare anche sotto
la pioggia, d'un tratto, sento prendermi per mano.
Mi volto e vedo una bambina minuta, magra, che avrà
7 o 8 anni che mi guarda sorridente dal basso verso
l'alto. È tutta bagnata ed infreddolita, le labbra
quasi viola. Non vuole lasciare la mia mano ed
andare a casa, a ripararsi, come le dico più volte.
Dal momento che vuole a tutti i costi accompagnarmi,
le regalo uno dei miei kway che, una volta
indossato, le fa praticamente da impermeabile. Ci
fermiamo presso un banchetto; compro latte, biscotti
e chewing gum e li do alla bambina che mi promette
che andrà subito a casa - è questo il nostro patto.
La vedo allontanarsi contenta e girarsi
continuamente per salutarmi.
Se io, sotto tutta quella pioggia, per un cappello
che ha lasciato passare acqua e umidità, mi sono
presa un raffreddore megagalattico, che cosa sarà
successo a questa bambina, la cui mano tremava di
freddo nella mia?
Vedo una vecchia dall'età indefinibile che cammina
tranquillamente con delle ciabatte infradito nelle
pozzanghere marroni di fango.
È davvero così difficile costruire delle strade che
ad ogni pioggia non diventino una pozza di fango e
detriti?
Gli odori, che sia l'incenso nei templi o che siano
alcune zaffate miste e indecifrabili, sono ovunque
travolgenti.
A Kathmandu, tutti i quartieri sono congestionati da
un traffico caotico ed anarchico, a cominciare da
Thamel, Freak Street fino a Durbar Square;
automobili, moto, biciclette, rikshaw a pedali o a
motore producono un incessante scampanìo di clacson,
il sottofondo acustico più persistente.
Piove anche a Pashupati, dove si possono vedere
agghindatissimi e pitturatissimi santoni turistici
ossia coloro che si mettono in bella posa per una
fotografia ma anche molte, davvero molte famiglie
indiane che entrano per la puja.
Pioggia, fumo di pire funerarie, scimmie che si
tengono nascoste, l'acqua densa e marrone del sacro
fiume Bagmati, tutto questo mi riporta alla mente la
contiguità ineludibile tra morto e vivente così come
la riscontrai a Varanasi anni fa, sia pure con ben
altro impatto emotivo e visivo.
L'imponente Bodnath, o Bouddhanath, emana una
genuina atmosfera di preghiera e devozione,
nonostante la corona di negozi e negozietti che
vendono di tutto.
La raffinatezza di Bhaktapur, che emerge perfino in
una giornata grigiamente nuvolosa alternata da una
fastidiosissima pioggia, con i suoi slanciati templi
pagoda, la sua piazza di terracotta, è temperata
dall'assedio sciamante dei venditori, spesso bambine
o adolescenti che ti mettono sotto il naso
borsettine e portafogli, per non parlare di
mastodontiche collane e braccialetti.
In una giornata finalmente piena di sole, mi inoltro
per i villaggi di Bungamati e di Khokna, a otto
chilometri da Kathmandu; è un tuffo nella miseria
più nera. Case cadenti con i muri a secco,
sporcizia, convivenza e promiscuità con pecore,
capre e cani, eppure si vedono volti sorridenti,
bambini che giocano esultanti, anziani che al
pomeriggio sono seduti fuori casa a chiacchierare,
madri che spidocchiano i loro bambini o danno loro
da mangiare, imboccando i più piccoli.
Il cadavere di una capra è accanto allo spiazzo in
cui giocano a pallacorda alcuni bambini, una ragazza
filtra il riso, una famigliola è intenta a separare
la sabbia dal sabbione, alcune vecchie ruotano un
arcolaio antelucano, di quelli che ho visto in
fotografia accanto al Mahatma Gandhi. Intorno al
villaggio si stendono, verdissime e splendenti, le
coltivazioni a terrazza della valle di Kathmandu.
La povertà mi investe con più violenza di qualsiasi
bellezza, di qualsiasi odore o di un improvviso
scroscio di pioggia.
Proprio accanto al secondo villaggio, Khokna, si
erge la villona di un qualche locale altolocato (un
ministro, mi dicono): videocamere sparse ovunque, il
giardino curatissimo presso il quale sosta un
soldato armato di tutto punto, enormi parabole sul
tetto ed una torretta di guardia con un altro
soldato dietro una mitragliatrice. È una contiguità
questa, tra ricco e povero, che aggroviglia lo
stomaco e pervade l'animo di una non casuale
indignazione.
E, d'un tratto, in questo pomeriggio pieno di sole,
mi sembra di sentire nella mia mano, la mano
infreddolita della bambina di Patan di qualche
giorno prima; mi sembra di sentire le sue dita
percorse dai brividi e segnate dalla rugosità dei
polpastrelli per l'eccessiva permanenza sotto
l'acqua. E mi sembra anche di vederla mentre mi
sorride con denti, per fortuna, ancora bianchissimi
e non tarlati dalla carie - come è purtroppo
diffusissimo qui - e con occhi lucenti e fiduciosi.
Si chiude così, con l'immagine luminosa di questa
bambina, la mia rievocazione di uno dei miei diversi
viaggi in Nepal degli anni passati.
*
Auguro ai nepalesi colpiti dalla perdita dei loro
cari e delle loro case di ricostruire le loro case e
le loro scuole, di riprendere la loro laboriosa
quotidianità, di riaprire presto il loro bellissimo
paese al mondo, agli occhi ammirati di vecchi e
nuovi viaggiatori. Auguro ai nepalesi di ritornare
ad avere il sorriso sulle loro labbra, la luce
splendente nei loro occhi ed una calda fiducia nei
loro cuori.
(maggio 2015)
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