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Miti mutanti 27
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DHEEPAN - Una nuova vita
di Jacques Audiard
con Jesuthasan Antonythasan, Kalieaswari Srinivasan,
Claudine Vinasithamby, Vincent Rottiers
Premessa: sono stata in Sri Lanka. Sono stata in
tanti paesi asiatici (una ventina) e credo di
conoscere un po' questo mondo; tuttavia come vivano
qui, gli asiatici, quando vengono ad abitare nelle
nostre città europee, quali siano gli elementi
salienti della loro vita quotidiana, quali le loro
effettive e profonde difficoltà, bè, di questo mondo
so poco, molto poco.
Cinematograficamente parlando, ricordo il delicato
ed intenso film italiano Io sono Li di Andrea Segre,
che racconta la vita di una giovane cinese a
Chioggia. Per il resto, poco o nulla - ad eccezione,
naturalmente, del cinema britannico che ha
raccontato le comunità indiane e pakistane che
risiedono da più tempo in Gran Bretagna. Ora, grazie
a Jacques Audiard e al suo potente film (eccetto il
finale), ne so finalmente qualcosa di più e,
soprattutto, qualcosa di sostanziale.
Sivadhasan è un guerrigliero delle Tigri Tamil, in
Sri Lanka, che combatte da anni contro l'esercito
del governo cingalese. Morti e massacri sono da
entrambe le parti. L'uomo, dopo un'ennesima
mattanza, impossessatosi del passaporto di un morto,
di nome Dheepan, tenta di fuggire dal proprio paese
per recarsi in Francia; la fuga gli riesce perché
forma una finta famiglia assieme a Yalini, una
giovane che prende con sé un'orfana di nove anni,
Illalayaal, facendola passare per sua figlia.
Il film racconta con forza e delicatezza il
difficile ambientamento dei tre nella periferia di
Parigi, tra palazzoni presidiati da gang locali che
controllano il traffico e lo spaccio di varie
sostanze stupefacenti e che si fanno guerra tra
loro. Scappati dalla violenza immane della guerra
civile nel loro paese, si ritrovano così di nuovo
nella violenza quotidiana della banlieue parigina,
uno spazio urbano che è un distillato di
marginalità, diseguaglianza e povertà intellettuale.
Dheepan, assunto come "guardiano", svolge il suo
lavoro con scrupolo, e quel piccolo appartamento a
pianoterra dove si stabilisce, senza mobili, ma con
l'acqua potabile in casa, a lui sembra una reggia.
Yalini, che avrebbe voluto andare in Inghilterra,
dalla cugina, accetta di fare la badante di un uomo
disabile, e quei cinquecento euro al mese, tradotti
in rupie, a lei sembrano un'enormità. Illalayaal,
dopo un primo spaesamento, è la più veloce ad
integrarsi in questa nuova vita: non a caso è lei
che impara prima e meglio la nuova lingua, il
francese; è lei che, dopo un primo momento di
difficoltà, studia a scuola con profitto e con
piacere. Ovvio poi che la maggiore difficoltà non
sia quella linguistica, bensì quella antropologica e
culturale. Usi e costumi, religioni e culture troppo
diverse per riuscire a comprendersi senza
conoscersi. La più consapevole di questa situazione,
tuttavia, è Yalini.
In questa convivenza a tre "forzata", nasce
inaspettatamente un legame via via più forte che
unisce Dheepan a Yalini, che unisce l'uomo alla
donna, che unisce i due adulti in una vera
preoccupazione e responsabilità per Illalayaal, la
finta figlia, e che sta per fare dei tre una
famiglia autentica. Davvero toccante il bisogno di
essere e sentirsi in una famiglia che si prenda cura
dei vari membri; il bisogno di ricostituire una
famiglia perduta in cui scorra attenzione, affetto
e, appunto, cura. Il tutto raccontato con forza,
grazie alle splendide facce degli interpreti
srilankesi - che non hanno, però, la maestria degli
interpreti dei film precedenti del regista, Il
profeta e Un sapore di ruggine e di ossa - ma anche,
come dicevo, con delicato lirismo - e penso ai sogni
di Dheepan che sono abitati dallo sguardo fondo e
struggente di un enorme elefante che si muove nella
giungla più fitta perché non si possono dimenticare
le proprie origini, la propria terra, la propria
religione (hindu), la propria cultura. Anche se, a
dirla tutta, delle due interpreti femminili non
vediamo mai i loro sogni né sappiamo mai come fosse
la loro vita in Sri Lanka, come invece avviene al
protagonista maschile. È questa, comunque, la parte
pregevole del film di Audiard. È questa la parte
credibile della storia.
Quando cresce la violenza delle gang che minacciano
la pace e l'incolumità di questa sua "nuova"
famiglia - l'uomo aveva perso la moglie e i figli in
quella lunga guerra civile che aveva devastato il
suo paese - si risveglia in Dheepan, suo malgrado,
la vecchia anima di temibile e spietato guerrigliero
Tamil, che imbracciando un macete in una mano, una
pistola nell'altra, e trovando anche il modo di
lanciare bottiglie molotov, fa strage di questi
giovani criminali, uno dopo l'altro, uno dopo
l'altro, pensando di "salvare" così la sua bella.
Questa parte finale del film, da giustiziere
solitario di un far west urbano incastonato nella
banlieue parigina, seguito dal finale da happy end
con i tre, felici, in Inghilterra, assieme al figlio
nato dalla loro unione, non l'ho proprio capita! Non
l'ho capita né narrativamente né psicologicamente. È
incongrua rispetto a tutto quello che era stato
raccontato fino a quel momento; incongrua al punto
che, in qualche modo, danneggia ed inficia l'intero
film. Anche perché, nelle due pellicole citate
sopra, c'era già il discorso sul corpo o sui corpi -
e sulla violenza dei corpi e sui corpi - svolto però
con ben altra finezza (ne Il profeta) o potenza (in
Un sapore di ruggine e di ossa).
L'aspetto interessante indagato resta il difficile
passaggio da una vita all'altra, dall'Asia
all'Europa, e, specificatamente, dallo Sri Lanka
alla Francia. La vera battaglia è nei cuori, nelle
teste e nelle menti dei nuovi arrivati per capire i
cuori, le teste e le menti degli indigeni quando a
risultare estraneo - straniero, incomprensibile - è
anche l'umorismo dei locali. E c'è una scena, quando
Yalini dice nella sua lingua la differenza tra il
sorridere, anche nelle difficoltà, nel suo paese, e
il sorridere continuamente in Francia (o in Europa),
dove, se lo fai, ti prendono per stupido, che lo
evidenzia nettamente. Questo dialogo, che lei e il
francese Brahim (il figlio dell'uomo di cui è
badante) svolgono ciascuno nella propria lingua,
senza capirsi nelle frasi, ma come captandosi e
trovandosi in una stessa lunghezza d'onda, è, forse,
la scena più bella - grandiosa - di tutto il film.
Spostare tutto sulla violenza esteriore mi è
sembrato puerile e fuorviante.
Detto questo, restano impressi nella memoria i volti
di Jesuthasan Antonythasan (Dheepan), Kalieaswari
Srinivasan (Yalini), Claudine Vinasithamby (Illayal)
accanto a quello del francese Vincent Rottiers
(Brahim).
Per la cronaca cinematografica, il film ha vinto la
Palma d'oro al Festival Internazionale del Cinema di
Cannes 2015.
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