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Libri a fumetti

LE IMMAGINARIE LINGUE DEL FUMETTO
Prima parte: Terre inesplorate e animali parlanti

Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

Una nuova vita?
Recensione di Maria Antonietta Nardone

Teatro

Laika
Recensione di Erika Gherardotti

Miti mutanti 27

Tavola di Andrea Cantucci

Una nuova vita?
 

Maria Antonietta Nardone

 


DHEEPAN - Una nuova vita
di Jacques Audiard
con Jesuthasan Antonythasan, Kalieaswari Srinivasan, Claudine Vinasithamby, Vincent Rottiers

Premessa: sono stata in Sri Lanka. Sono stata in tanti paesi asiatici (una ventina) e credo di conoscere un po' questo mondo; tuttavia come vivano qui, gli asiatici, quando vengono ad abitare nelle nostre città europee, quali siano gli elementi salienti della loro vita quotidiana, quali le loro effettive e profonde difficoltà, bè, di questo mondo so poco, molto poco.
Cinematograficamente parlando, ricordo il delicato ed intenso film italiano Io sono Li di Andrea Segre, che racconta la vita di una giovane cinese a Chioggia. Per il resto, poco o nulla - ad eccezione, naturalmente, del cinema britannico che ha raccontato le comunità indiane e pakistane che risiedono da più tempo in Gran Bretagna. Ora, grazie a Jacques Audiard e al suo potente film (eccetto il finale), ne so finalmente qualcosa di più e, soprattutto, qualcosa di sostanziale.
Sivadhasan è un guerrigliero delle Tigri Tamil, in Sri Lanka, che combatte da anni contro l'esercito del governo cingalese. Morti e massacri sono da entrambe le parti. L'uomo, dopo un'ennesima mattanza, impossessatosi del passaporto di un morto, di nome Dheepan, tenta di fuggire dal proprio paese per recarsi in Francia; la fuga gli riesce perché forma una finta famiglia assieme a Yalini, una giovane che prende con sé un'orfana di nove anni, Illalayaal, facendola passare per sua figlia.
Il film racconta con forza e delicatezza il difficile ambientamento dei tre nella periferia di Parigi, tra palazzoni presidiati da gang locali che controllano il traffico e lo spaccio di varie sostanze stupefacenti e che si fanno guerra tra loro. Scappati dalla violenza immane della guerra civile nel loro paese, si ritrovano così di nuovo nella violenza quotidiana della banlieue parigina, uno spazio urbano che è un distillato di marginalità, diseguaglianza e povertà intellettuale. Dheepan, assunto come "guardiano", svolge il suo lavoro con scrupolo, e quel piccolo appartamento a pianoterra dove si stabilisce, senza mobili, ma con l'acqua potabile in casa, a lui sembra una reggia. Yalini, che avrebbe voluto andare in Inghilterra, dalla cugina, accetta di fare la badante di un uomo disabile, e quei cinquecento euro al mese, tradotti in rupie, a lei sembrano un'enormità. Illalayaal, dopo un primo spaesamento, è la più veloce ad integrarsi in questa nuova vita: non a caso è lei che impara prima e meglio la nuova lingua, il francese; è lei che, dopo un primo momento di difficoltà, studia a scuola con profitto e con piacere. Ovvio poi che la maggiore difficoltà non sia quella linguistica, bensì quella antropologica e culturale. Usi e costumi, religioni e culture troppo diverse per riuscire a comprendersi senza conoscersi. La più consapevole di questa situazione, tuttavia, è Yalini.
In questa convivenza a tre "forzata", nasce inaspettatamente un legame via via più forte che unisce Dheepan a Yalini, che unisce l'uomo alla donna, che unisce i due adulti in una vera preoccupazione e responsabilità per Illalayaal, la finta figlia, e che sta per fare dei tre una famiglia autentica. Davvero toccante il bisogno di essere e sentirsi in una famiglia che si prenda cura dei vari membri; il bisogno di ricostituire una famiglia perduta in cui scorra attenzione, affetto e, appunto, cura. Il tutto raccontato con forza, grazie alle splendide facce degli interpreti srilankesi - che non hanno, però, la maestria degli interpreti dei film precedenti del regista, Il profeta e Un sapore di ruggine e di ossa - ma anche, come dicevo, con delicato lirismo - e penso ai sogni di Dheepan che sono abitati dallo sguardo fondo e struggente di un enorme elefante che si muove nella giungla più fitta perché non si possono dimenticare le proprie origini, la propria terra, la propria religione (hindu), la propria cultura. Anche se, a dirla tutta, delle due interpreti femminili non vediamo mai i loro sogni né sappiamo mai come fosse la loro vita in Sri Lanka, come invece avviene al protagonista maschile. È questa, comunque, la parte pregevole del film di Audiard. È questa la parte credibile della storia.
Quando cresce la violenza delle gang che minacciano la pace e l'incolumità di questa sua "nuova" famiglia - l'uomo aveva perso la moglie e i figli in quella lunga guerra civile che aveva devastato il suo paese - si risveglia in Dheepan, suo malgrado, la vecchia anima di temibile e spietato guerrigliero Tamil, che imbracciando un macete in una mano, una pistola nell'altra, e trovando anche il modo di lanciare bottiglie molotov, fa strage di questi giovani criminali, uno dopo l'altro, uno dopo l'altro, pensando di "salvare" così la sua bella. Questa parte finale del film, da giustiziere solitario di un far west urbano incastonato nella banlieue parigina, seguito dal finale da happy end con i tre, felici, in Inghilterra, assieme al figlio nato dalla loro unione, non l'ho proprio capita! Non l'ho capita né narrativamente né psicologicamente. È incongrua rispetto a tutto quello che era stato raccontato fino a quel momento; incongrua al punto che, in qualche modo, danneggia ed inficia l'intero film. Anche perché, nelle due pellicole citate sopra, c'era già il discorso sul corpo o sui corpi - e sulla violenza dei corpi e sui corpi - svolto però con ben altra finezza (ne Il profeta) o potenza (in Un sapore di ruggine e di ossa).
L'aspetto interessante indagato resta il difficile passaggio da una vita all'altra, dall'Asia all'Europa, e, specificatamente, dallo Sri Lanka alla Francia. La vera battaglia è nei cuori, nelle teste e nelle menti dei nuovi arrivati per capire i cuori, le teste e le menti degli indigeni quando a risultare estraneo - straniero, incomprensibile - è anche l'umorismo dei locali. E c'è una scena, quando Yalini dice nella sua lingua la differenza tra il sorridere, anche nelle difficoltà, nel suo paese, e il sorridere continuamente in Francia (o in Europa), dove, se lo fai, ti prendono per stupido, che lo evidenzia nettamente. Questo dialogo, che lei e il francese Brahim (il figlio dell'uomo di cui è badante) svolgono ciascuno nella propria lingua, senza capirsi nelle frasi, ma come captandosi e trovandosi in una stessa lunghezza d'onda, è, forse, la scena più bella - grandiosa - di tutto il film. Spostare tutto sulla violenza esteriore mi è sembrato puerile e fuorviante.
Detto questo, restano impressi nella memoria i volti di Jesuthasan Antonythasan (Dheepan), Kalieaswari Srinivasan (Yalini), Claudine Vinasithamby (Illayal) accanto a quello del francese Vincent Rottiers (Brahim).
Per la cronaca cinematografica, il film ha vinto la Palma d'oro al Festival Internazionale del Cinema di Cannes 2015.

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