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di Patty Jenkins. Con C. Theron, C.Ricci, B.Dern
Dramma a tinte forti basato sulla storia vera della serial killer Aileen Wuornos. Una Charlize Theron irriconoscibile, l’ex bambolina sudafricana è brava e ben diretta da Patty Jenkins, che ha scritto anche la sceneggiatura. Non per niente questo personaggio le vale un oscar e un golden globe.
Vicenda toccante, film intenso, in cui non tutto risulta approfondito. In pratica il film condanna la società americana che impedisce ed emargina, ma evidenziando il lato umano della pluriomicida, ne dimentica un po’ il lato oscuro. Aileen dapprima aspira ad uscire dalla squallida nativa cittadina del Michigan, a salire la scala del successo come ogni ragazzina americana, è perfettamente inserita nella mentalità che anima il meccanismo di soldi e fama, solo che non riesce ad entrare nell’ingranaggio, che la rifiuta, la espelle. La società crea e poi aumenta il disadattamento. Il carattere sin da ragazzina già un po’ sopra le righe, la mentalità della provincia americana, un aborto, la solitudine, a tredici anni la prostituzione, le droghe e l’alcool. All’inizio del film è adulta e sulla soglia del baratro, qui incontra la ragazzina Selby, che s’innamora di lei. Selby è la sola che si sia mai interessata a lei, l’unica persona che l’abbia fatta mai sentire una persona. La vita può ancora cambiare, no? Parrebbe l’inizio di una bella favola. Invece si spalanca la porta che conduce a sette omicidi. Violenza e disperazione, amore e morte. Il rapporto delle due donne è assoluto, al di là del bene e del male, in nome dell’amore, passando sopra sette cadaveri. Proprio questo ossimoro rende il film più inquietante.
Aileen uccide per lei, per far sopravvivere il loro sogno in fuga, oppure uccide per vendetta, o, come pare nel primo omicidio, per legittima difesa? Va oltre la presunzione di farsi giudice e carnefice e si spinge sino ad inventarsi le accuse, a convincersi delle prove, ad uccidere anche per non sapere cos’altro si può fare, scendendo il percorso a spirale in cui la vittima diviene mostro. Aileen non ha altra strada che quella, la società non prevede uscite, né forme di assistenza, di recupero, di cura, solo la condanna a morte dopo. Il vero mostro è la società con le sue barriere e meccanismi. Siamo portati subito a condividere, coinvolti dall’intensità del film. Sì, ci si identifica più facilmente se la vittima fa fuori il proprio carnefice, poi una prostituta, proprio la categoria più presa di mira dai serial killer. Insomma le diamo ragione. Stiamo lì a chiederci: “questo sarebbe un mostro?” Ma nel frattempo chiediamoci pure: “era questa la donna, quella che si vede nel film?” Difficile a dirsi. Si racconta il passato di Aileen, la si giustifica, ma resta in disparte il disturbo di cui soffre, frutto della parte malata di una società intera, i chiaroscuri interiori dell’omicida sono sottili sottili. Traspaiono dalla protagonista le cicatrici, meno le difficoltà interiori, la propensione al sadismo, considerata base del carattere dei serial killer. Monster sceglie il caso raro di una serial killer donna per creare interrogativi sulla giustizia, ma forse non fa giustizia alla condannata neppure il film.
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