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Come si diventa editori: intervista a Renato Saggiorato

con un breve articolo di Massimo Acciai sul mestiere di impaginatore... di Massimo Acciai

I luoghi di Don Milani

immagini inedite della scuola e della chiesa di Barbiana
per gentile concessione di Renato Saggiorato

Don Milani vive ancora

Nasce il trimestrale “I Care”
di Adisa

Come si diventa editori:
intervista a Renato Saggiorato

di Massimo Acciai

 

Renato Saggiorato, medico, laureato a Padova nel luglio del 1969 ha prestato servizio dapprima preso l’Istituto di Patologia Generale dell’Università di Padova ed in seguito presso l’Istituto di Ematologia dell’Università di Verona. Nel 1974 lavora presso il laboratorio dell’Ospedale di Aosta e dal 1977 al 1983 è direttore del Laboratorio Regionale di Igiene e Profilassi della Valle d’Aosta. Successivamente è passato alla direzione scientifica di Menarini Diagnostici di Firenze e alla direzione di Amplifon di Milano. Al termine di queste esperienze ha iniziato la propria attività autonoma di Editore creando le Edizioni Tierre  

 

È il 17 agosto 2004: un afoso primo pomeriggio in una città ancora deserta. Non c’è nessuno a giro, infatti mi stupisco – ma non troppo – di trovare al lavoro il dottor Saggiorato, l’infaticabile editore che fu a suo tempo mio datore di lavoro; solo, davanti al computer, mentre sono tutti a godersi le meritate ferie. Nell’ufficio c’è l’aria condizionata ed una penombra che richiama atmosfere monastiche, quelle in cui immagino i monaci-artigiani che lavoravano secoli fa alla trasmissione del sapere. A pensarci un po’ è quello che viene fatto ancor oggi nelle piccole case editrici che ancora resistono al sempre più invadente monopolio dei colossi editoriali. Qua c’è pace e silenzio, in contrasto con la frenesia che conoscevo in altre stagioni, e c’è il tempo per fare una bella chiacchierata su un tema che spero possa interessare i nostri lettori come ha interessato me.

M: Massimo Acciai (intervistatore)
S: Dott. Renato Saggiorato

M: Da quanto tempo fa l’editore? Come le è venuto in mente di fare questo mestiere?

S: Io faccio l’editore da circa 18 anni, da quando, come hobby o lavoro complementare, ho cominciato a pubblicare la rivista Il Diabete & l’Infermiere. Quella è stata la prima rivista; prima ho fatto qualche prova con volumi come Educazione sanitaria col paziente diabetico del professore Erle di Vicenza, però a livello di hobbistica.

M: Quali riviste pubblica e ha pubblicato in passato? Quanti libri?

S: Non ho un catalogo vero e proprio di libri ne tantomeno un catalogo organico. Ho pubblicato parecchi libri, forse una trentina. Sono sempre stati un accessorio, un qualcosina di più, complementare alle riviste o alla nostra attività di marketing nell’ambito della diabetologia. Per quanto riguarda le riviste, attualmente ce ne sono otto; nel passato ce ne sono state delle altre che poi sono finite. Non hanno più avuto un significato per cui le abbiamo interrotte – ad esempio Eurospital Journal, che era una rivista di immunologia collegata ad un’azienda farmaceutica di Trieste, o la rivista che abbiamo avuto con la Glaxo per quanto riguarda le cefalee; Pro capite laborantibus, o ancora quella con la Menarini i Quaderni di diagnostica. Hanno avuto il loro ruolo, poi sono finite.

M: Come nasce una rivista? Più precisamente: come viene presa la decisione di creare una rivista? Qual è il lavoro preparatorio che precede l’impaginazione e la stampa, ossia la creazione fisica della rivista?

S: La decisione di creare una rivista nasce in genere da qualcosa di spontaneo, da qualcuno – che posso essere io o può essere un’altra persona, una persona qualunque interessata a certe materie - che ritiene sia necessario comunicare agli altri la materia e le proprie esperienze. In genere è soltanto una sensazione; per far nascere una rivista vera e propria c’è poi tutto l’aspetto di programmazione e pianificazione che non è semplice, anche perché richiede un’indagine di mercato, una valutazione finanziaria piuttosto complessa che deve tenere conto del grado di distribuzione delle risorse dell’editore e di quanto la gente è disponibile a spendere per acquistare la rivista o per inserire delle pubblicità nella rivista. Da un lato c’è un consenso, ma non sempre il consenso viene suffragato dal successo (per successo intendo dire una rivista che nasce, riesce a vivere autonomamente dal punto di vista finanziario, eccetera). Viene fuori in genere da un’esigenza individuale di qualcuno nel set-tore o da una valutazione di mercato da parte dell’editore, oppure è l’editore che fa una valutazione di mercato sulla proposta di qualcuno. In genere però sono sensazioni molto superficiali, epidermiche inizialmente; queste sono poi suffragate da ricerche di mercato oppure da esperienze. Spesso la rivista può nascere per poi morire subito, perché si capisce che o bisogna avere tanti soldi oppure perché era solo una semplice sensazione epidermica.

M: Per quanto riguarda le varie fasi che stanno tra l’arrivo dei documenti “grezzi” (file world, powerpoint, immagini, tabelle in excel, eccetera) e la stampa delle pellicole, lavoro di cui mi sono occupato in prima persona, ne ho fatto un breve resoconto a parte per i nostri lettori [leggi]. Una volta che il libro o la rivista è stata fisicamente stampata e consegnata dalla tipografia, cosa avviene? Quali sono i canali di distribuzione di cui si serve?

S: Per quanto riguarda le riviste ci sono due canali di distribuzione diversi; la rivista può avere degli abbonati oppure la si trova in edicola. Noi abbiamo fatto una sola prova a livello di distribuzione di edicola; in questo caso l’edicola richiede un sacco di risorse finanziarie. La rivista che va in edicola deve avere un target piuttosto ampio, perché se il target è molto limitato, come può essere l’appassionato di una cosa strana, l’edicolante non la vuole perché sono poche le persone appassionate di cose strane; quindi la rivista deve avere un target ampio tra la popolazione normale. C’è in alternativa l’abbonamento che può essere gratuito – nel senso che il finanziamento deriva dal fatto che la rivista è organo di qualche associazione – oppure a pagamento, in questo ultimo caso bisogna fare una campagna piuttosto intensa, per esempio come per l’ultima rivista I Care su Don Milani; è la prima volta che facciamo una rivista veramente su abbonamento. In questo caso le difficoltà sono maggiori; bisogna fare pubblicità, diffusione. L’argomento “Don Milani“ ha più appassionati di quelli che mi aspettavo. In altri casi l’abbonato è iscritto ad un’associazione, a un gruppo o a un club e il discorso è molto più semplice; in questo caso l’abbonamento può essere fatto insieme al pagamento della quota di associazione oppure c’è la pubblicità delle aziende inserzioniste; in questo caso la rivista si autofinanzia.
Per quanto riguarda i libri il discorso è diverso; la loro distribuzione assomiglia molto alla distribuzione delle riviste in edicola. Bisogna andare da un distributore, il quale ha degli agenti che vanno nelle librerie. I librai se non c’è pubblicità non comprano i libri, li vogliano in deposito. Un libro in deposito è un libro che rimane lì per tanto tempo finché casualmente qualcuno lo cerca. Alla fine il libraio si stanca e non lo vuole più. O c’è tanta pubblicità che informa dell’esistenza del libro, e al-lora il successo è più o meno assicurato, oppure bisogna cercare altri canali. I nostri libri sono distribuiti soprattutto attraverso i lettori delle nostre riviste; abbiamo target ben definiti che vengono informati, oppure stampiamo libri per le aziende farmaceutiche che ne comprano un numero elevato e per noi il libro è finito e se qualcuno poi va in libreria, benissimo, sennò non importa.

M: Torniamo un attimo indietro, al momento dell’impaginazione. Cosa è cambiato, da quando ha iniziato, dal punto di vista tecnologico? Come si faceva prima di programmi quali Pagemaker e Photoshop?

S: Prima che il computer diventasse uno strumento da desk in qualunque ufficio c’erano dei service che facevano questo lavoro. Si andava là, ci davano prima delle bozze “brutte”, poi delle bozze un po’ più impaginate; noi dovevamo fare l’impaginazione praticamente con le forbici, tagliando la carta e adattandola al foglio. Con l’avvento del computer da tavolino le cose sono cambiate enor-memente; uno si può costruire da solo la rivista, quindi l’impaginazione diventa molto più aderente alle esigenze dell’autore che comunque ti propone una sua impaginazione. Attualmente è ancora più semplice perché puoi andare direttamente in macchina, senza bisogno di pellicole o di lastre; questa è una cosa innovativa degli ultimi mesi. La stampa digitale ha semplificato tutti i passaggi, li ha resi più economici e soprattutto c’è la possibilità di non fare magazzino, ossia non avere della carta ferma e quindi dei soldi fermi, per cui quando mi vengono richieste dieci riviste di quelle che stampo in digitale ne faccio dieci e non di più. In questo momento per me è importante non fare magazzino perché ha immobilizzato milioni su milioni [di lire, n.d.i.] di materiale che diventa presto obsoleto e che è facilmente danneggiabile; basta che il bagno dell’inquilino che abita sopra il magazzino perda e si è già rovinato un capitale. Oggi con la stampa digitale le cose sono totalmente rivoluzionate; è più semplice e più bello, più fa-cile essere creativi perché hai in mano un sacco di strumenti di semplice uso. Quando ho iniziato si lavorava ancora con i piombi ed era molto più complesso – parlo del 1985 o 1986, non secoli fa! – poi c’è stato il periodo in cui chi aveva le macchine per la fusione dei piombi continuava a far tutto a piombo, stampava poi su carta e fotografava lo stampato dal piombo. Quella fotografia sostituiva le pellicole attuali. L’investimento della macchina a piombo era altissimo, per cui per ammortizzare uno continuava ad utilizzare le sue macchine, che facevano il fotolito, invece del computer; questo è successo con una rivista non mia, di cui ero responsabile; Il patologo clinico.

M: Quali sono i problemi tipici che si trova ad affrontare un editore?

S: Il primo problema è l’autore del libro o dell’articolo che ritiene che l’umanità senza quel libro o quell’articolo non possa andare avanti. A questo magari fa seguito l’insuccesso commerciale; è un libro o un articolo come un altro. I rapporti con gli autori è forse la parte più complessa. L’altra parte è l’aspetto finanziario; l’editoria è infatti in crisi finanziaria. Se non si hanno forti risorse finanziarie è difficilissimo entrare nei sistemi di distribuzione delle edicole. Si può lavorare bene rimanendo in tirature limitate.

M: Le parole chiave dell’èra attuale, battezzata “èra digitale” sono: multimedialità, mass media, integrazione, virtualità. Cosa hanno cambiato le nuove tecnologie digitali nel mondo editoriale? Manterrà il proprio ruolo il testo cartaceo di fronte al dilagare di Internet e degli ipertesti? Cosa pensa delle riviste online?

S: Io dico una frase che non so se si può pubblicare: finché al gabinetto si va con i libri, la carta rimarrà importante. Ci sarà però una grossa rivoluzione a cui assisteranno le nuove generazioni di lettori che non sentiranno più la differenza tra carta e display elettronico, la carta sarà più o meno finita; avrà sì il suo ruolo però le nuove tecnologie aprono nuovi orizzonti. Le riviste online sono importanti perché permettono di avere informazioni in tempo reale, inoltre l’online permette di avere grossi archivi a disposizione in qualunque momento, anche se si rischia di soffocare per le troppe informazioni che sono così tante e così rapide che non si riesce più a distinguere bene e si creerà, come si sta già creando, un rifiuto. Ci sarà un grosso lavoro da parte di aziende e di gruppi per selezionare le informazioni; l’utilizzatore si rivolgerà a loro perché sa che la pensano come lui e gli forniranno informazioni già selezionate verso un certo argomento.

M: Ci può parlare delle pubblicazioni non di carattere medico delle Edizioni Tierre? Come è nato l’interesse per Don Milani?

S: L’interesse per Don Milani è nato casualmente; da ragazzo ho sentito parlare di lui ma non mi ha interessato più di tanto perché la situazione che ho trovato a Barbiana è una situazione che avevamo anche noi in campagna, soltanto che noi reagivamo in modo diverso. La ribellione forse sarebbe stata giusta. Non mi sento di dover niente a Don Milani né di essere molto diverso dai suoi allievi; gli stessi problemi li ho avuti anch’io, li hanno avuti i miei compagni e compaesani. L’approccio con Don Milani è ritornato in questi ultimi anni quando ho potuto constatare come lui avesse creato un metodo didattico – quello dei lavori di gruppo e della scrittura collettiva – estremamente impor-tate, che usiamo nel settore sanitario; sia nell’educazione del paziente cronico che nella preparazione degli operatori sanitari. Abbiamo pubblicato numerosi articoli su Il Diabete & l’Infermiere nel tentativo di far conoscere Don Milani; ci siamo accorti che la gente legge poco e male, o forse ci siamo espressi male noi (anche se gli articoli erano fatti da persone che sanno scrivere bene), insomma la gente ha frainteso, ha capito che Don Milani era diabetico visto che se ne parlava in una rivista sul diabete. La realtà del lettore poco attento è molto frequente. Ho avuto l’occasione di ap-procciarmi a molte persone appassionate a Don Milani; ci sono dei gruppi di milaniani molto forti in Veneto, in Calabria, in Puglia, Emilia Romagna, eccetera, per cui la rivista I Care si sta espandendo, sta crescendo. Io non mi posso ancora definire un cultore milaniano, penso però che sia stata una persona intelligente, una persona che aveva qualcosa da dire e l’ha detto senza mezzi termini ed ha affrontato in maniera intelligente una serie di problematiche di estrema attualità come la guerra e gli emarginati.

M: Un anno fa ho avuto l’occasione di intervistare la pittrice toscana Marta Mangiabene (vedi sdp n.3, del settembre 2003), che mi ha parlato della vostra amicizia e del rapporto di collaborazione che si è concretizzato tra l’altro nella pubblicazione di un catalogo e in una galleria virtuale ospitata presso il sito delle Edizioni Tierre. Cosa ci dice al riguardo?

S: Con Marta c’è una grande amicizia. Marta è una persona estremamente sensibile e carina, una pittrice preparata e capace. Il legame si è approfondito dal momento che sempre più ho utilizzato i suoi disegni per le copertine delle mie riviste con un notevole successo, perché viene apprezzata in maniera universale. Merita un grosso successo. La galleria virtuale su Internet è nata grazie a lei; ho pensato di fare una galleria virtuale per ospitare gli artisti a prezzi modici. Non l’abbiamo però ancora organizzata bene, dobbiamo riprenderla, ci vorrà ancora un po’ di tempo a causa dell’aspetto finanziario ancora limitato. Molti artisti italiani hanno aderito, però gestire una serie di clienti dal punto di vista economico implica un’organizzazione che non avevamo ancora, quindi nel sito è rimasta Marta per l’amicizia e per l’uso che facciamo dei suoi quadri per le nostre copertine. So che l’hanno vista e apprezzata anche all’estero.

M: Cosa pensa delle cosiddette autoproduzioni?

S: Sono una realtà in espansione grazie alle nuove tecnologie. Uno oggi spendendo pochissimi soldi può crearsi il libro o la rivista che vuole, con un sistema estremamente comodo e capillare. È uno dei pochi strumenti che permette la libertà di stampa in quanto l’editoria sta cadendo sempre più in un monopolio dove i piccoli editori come noi sono destinati, se non intervengono fattori nuovi, ad essere soffocati. La possibilità di questi microeditori, a carattere personale, offrono questa opportunità. Perché questi possano emergere e dare i loro risultati occorrerà una catalogazione in modo che possano essere facilmente reperibili qualora qualcuno ne abbia bisogno. Questo potrebbe essere il compito di un nuovo editore che dice: “adesso faccio il catalogo dei microeditori”.

M: Ultima domanda: cosa dovrebbe fare un nostro lettore che ipoteticamente volesse fare l’editore? Quali sono i passi, anche burocratici, che deve seguire? Che consigli si sentirebbe di dargli?

S: Non ci sono passi burocratici specifici per poter fare l’editore se non quelli normali delle attività commerciali o artigiane o industriali, dipende al livello da cui uno vuole partire. Se uno vuole partire per fare l’editore di riviste deve secondo me legarsi a gruppi, per cui fa una rivista per un gruppo già esistente in modo tale da avere immediatamente un certo numero di lettori. Se vuole fare l’editore partendo da solo con una testata, è molto dura perché bisogna che si cerchi, lui personalmente, l’abbonato. Se uno vuol partire regolarmente dovrebbe avere accordi con un’agenzia pubblicitaria che cerchi pubblicità in loco, avere un’analisi del mercato piuttosto fine e capillare, avere dei collaboratori che non si stanchino – perché inizialmente c’è sempre un entusiasmo che però poi crolla e rimane nelle peste chi si ritrova con delle riviste e senza qualcuno che scrive gli articoli o ancora peggio che li scrive in ritardo. Deve crearsi uno staff assiduo, cosciente del fatto che il suc-cesso non arriva subito ma arriverà dopo qualche anno; deve avere quindi la pazienza e la costanza nel lavoro. Una rivista è meglio farla bene o non farla proprio. Una rivista che esce saltuariamente è destinata all’insuccesso.
Per quanto riguarda i libri è importante trovarsi dei distributori oppure, se questo è un lavoro accessorio, un qualcosa in più, uno può occuparsi lui stesso di distribuirsi i libri e quindi da un lato fare l’editore e dall’altro impegnarsi anche nel lato commerciale, però deve avere comunque un secondo lavoro che gli permetta di vivere.

 

L'imaginatore

di Massimo Acciai

Il lavoro di un impaginatore presenta molti aspetti affascinanti e creativi; aspetti insospettati per chi prende in mano un libro o una rivista, o qualunque cosa che è stata stampata – e pertanto “impaginata” – senza domandarsi come un file word o persino un manoscritto abbia potuto trasfor-masi in quell’oggetto di carta e inchiostro che tiene in mano. Non è una magia; in quell’oggetto c’è il lavoro di molte figure tra cui quella misteriosa dell’”impaginatore”. Ma cosa fa un impaginatore oggi? Come lavora? L’impaginatore è un tipo che se ne sta davanti ad un computer ed usa generalmente programmi di impaginazione (quali Pagemaker o Quark X-Press) e di elaborazione di immagini (quali Photos-hop); il suo lavoro viene dopo quello dell’autore, che scrive il testo, e prima del tipografo, che tra-sforma in realtà tangibile il suo lavoro “virtuale”. Può avere una maggiore o minore libertà di mo-vimento, ma ciò che crea porta sempre la sua impronta, in qualche modo, inevitabilmente. L’impaginatore a volte assomiglia al bambino che gioca col Lego, combinando pezzi – cioè spo-stando immagini e blocchi di testo – secondo quanto gli suggerisce la sua fantasia, salvo poi ricon-durre tutto ad uno schema coerente ed equilibrato che soddisfi il datore di lavoro, ma alla fine anche lui – l’impaginatore – è magicamente soddisfatto. A volte l’impaginatore coincide con l’editore, magari un “microeditore” che “pubblica” libri per se o per gli amici; allora ha completa carta bianca – o dovrei dire “schermo bianco” – e può sbizzarrir-si davvero. E si diverte abbestia, come direbbe un mio caro amico pisano. Ringrazio il dottor Saggiorato per avermi insegnato questo mestiere affascinante, un paio abbon-dante di anni fa.  

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