|
Intervista a Renato Sarti:
il teatro che si fa popolare per tramandare valori
e proporre speranze nuove
La storia al teatro: questo è l'elemento
conduttore unitario dell'impegno artistico nelle tue
rappresentazioni teatrali, da Ravensbrück a Mai morti. Il teatro
quindi può diventare anche teatro pedagogico a livello civile?
Diciamo di sì, purchè conservi alcuni elementi, ossia il ritmo e
un tempo drammaturgico, che è una delle sue nature peculiari. A
volte ci si può confondere con il teatro di narrazione, dove la
parola si fa azione. Quindi il teatro può diventare pedagogico
ma solo se non scade nella noiosità.
E' vero che la storia deve essere trasmessa alla comunità
tramite la ricerca di altre fonti, come il teatro d'impegno o il
cinema di genere? Cosa può fare l'arte dove la scuola, i libri,
i testi e le documentazioni lette non riescono a fare?
Ci sono due tipi di teatro in realtà molto vicini nei contenuti,
anche se diversi tra loro: il teatro dei miti antichi, tragedia
greca, shakespeariana, e il teatro dei miti attualizzati. Il
secondo tipo cerca di parlare all'oggi facendo in modo di
mantenere ancora qualcosa di arcaico. "Mai morti" prende spunto
dalla tipica tabulazione, mentre la "Risiera di San Sabba" ,
strutturato sulla tematica della violenza sulla donna, dal
teatro che pone in primo piano la figura femminile. In ciascuno
di queste opere esiste, poi, un elemento che giunge alla fine:
la speranza. Quando utilizzi i libri per insegnare la storia
colpisci una certa parte dell'immaginario. Il teatro penetra,
invece, nella coscienza della mente. Gioca sulle intuizioni,
sulla commozione, sulla risata. "Nome di battaglia Lia" è una
tragedia che induce anche al ridere, come anche "Mai morti": vi
è un contrasto forte tra due emozioni diverse e profonde. Due
sensazioni sono, queste, che penetrano nei meandri della
coscienza dove la storia scritta, il convegno non riescono a
penetrare in senso generale.
Il tuo teatro è teatro di memoria: la memoria storica in
questo Paese vive momenti di forte attacco da parte di
revisionismi e di riletture strumentali del passato. Quali sono
le opere che maggiormente influiscono a mettere in scena la
memoria tramite la recitazione?
Quasi tutte le mie opere fungono a questo scopo. Anche il solo
mettere in scena il classico, apparentemente meno storico,
rileva alcuni elementi di forte attualità. Adesso urge trovare
una via che faccia della memoria il proprio perno portante: è
urgente perché rischiamo di perdere con il tempo le fonti vive
della memoria. Con conseguenze deleterie: il 60% degli studenti
dell'ITC non sa dove collocare storicamente la strage di Piazza
Fontana e credono che sia stata colpa delle Brigate Rosse.
Questa generazione è privata dal senso della storia a livello
scientifico: è urgente dedicarmi a questo campo.
Il teatro ha e deve avere un grande influsso emotivo sul
pubblico per trasmettere concetti e principi che altri canali
non riescono a trasmettere in modo così sensazionale?
Ci sono teatri diversi con proprio modo di agire: io sono per un
teatro popolare, in cui tutti possano comprendere il linguaggio
utilizzato. Il pericolo del teatro, spesso, è scadere nel teatro
elitario. I grandi registi, da De Filippo a Fo, da Moliere agli
antichi greci avevano promosso, invece, partecipazione tramite
il teatro.
Possiamo dire che il teatro, come definisce Peter Brook, deve
essere metaforicamente considerato un buon ristorante quando il
pubblico, alla fine della rappresentazione, che è come una
pietanza piacevole, esce soddisfatto perchè la recitazione è
riuscita a conferirgli motivi di speranza ideale e tensione
civile maggiori?
E' una buona definizione: quando faccio corsi sul teatro con gli
studenti nessuno mi risponde alla domanda "che cos'è il teatro"
che è un lavoro, un mestiere. Io spesso faccio qualcosa che è
parallelo all'attività del cuoco. Al ristorante non sai perché
una pietanza sia buona: perché esiste una preparazione
dietrostante, che è un'arte vera e propria. Il teatro è un
lavoro di sapienza enorme: dietro esiste una vera preparazione.
E' un lavoro, quindi, un mestiere: bisogna saper calibrare bene
e al tempo giusto il comico con il tragico, che diventano
nell'occasione ingredienti che danno sapore. Il problema è che
questa accezione di definizione di teatro è in via d'estinzione.
Tu nasci a Trieste e artisticamente vieni a contatto a Milano
con i più celebri registi teatrali: Strehler, De Capitani,
Salvatores, Bruni. Questa tua formazione quanto ha influito
nella tua matuazione artistica?
Molto: i maestri sono sempre importanti. Strehler era sapiente:
dopo il suo "Arlecchino", oppure la "Tempesta", o ancora
"L'anima buona", il "Faust" io uscivo con la sensazione di avere
qualcosa di più. Il suo era un carattere difficile, ma aveva un
patrimonio immenso: insegnava le piccole sfaccettature del
mestiere, appunto. Il teatro dell'Elfo, poi, per me è stata una
vera palestra: sette anni di partecipazione, anche con parti
minime, a ogni rappresentazione. Questo è stato importante: come
è importante per il meccanico avere un buon capo officina e fare
molta pratica. Ho appreso come capire gli umori del pubblico e
come comprendere quando le cose vengono fatte bene. De Capitani,
De Gabriele: compagnie teatrali, le loro, che andavano a livello
artistico oltre i tempi. La mia terza "scuola" di formazione è
stato il teatro di vita, dalla scuola di vita, rappresentato
nella "Risiera di San Sabba": ho avuto, in quell'occasione,
delle testimonianze di vita reale, vissuta. E' stata una reale
traditio, un teatro orale che tramanda racconti. Alcune storie
erano lezioni di vita incredibili. Nel lavoro di elaborazione
dello spettacolo molte di queste storie sono state da me
riportate di pari passo: perché la ricchezza artistica era nella
forza delle parole, nella loro capacità di sintesi espressiva.
Ho dovuto, nella fase di preparazione dello spettacolo,
elaborare le testimonianze che venivano dal "basso". Lia, il
personaggio, è la tipica ragazza milanese che vive realmente la
una quotidianità in un determinato ambito storico.
La risiera di San Sabba, prima rappresentata all'interno del
Monumento Nazionale Risiera di San Sabba al 50° Anniversario
della Liberazione, messa in scena, poi, in varie città italiane
nella kermesse teatrale dal titiolo "I me ciamava per nome:
44.787", è l'opera che ha aperto il tuo impegno storico
artistico di teatro della memoria sul tema della Resistenza, che
troviamo anche in altre rappresentazioni: quanto il teatro può
dare alla trasmissione dei valori della Resistenza, oggi posti
sotto attacco?
Può fare molto come ogni forma di comunicazione. La scuola,
l'Università, la famiglia, la televisione sono molto carenti in
questo ambito, negli ultimi anni. Del 27 gennaio, per esempio,
solo oggi se ne parla. Guccini ha dovuto, addirittura, per
esemplificare lo scadimento dei media, cambiare il titolo della
canzone Auschwitz per presentarla in TV. I valori base della
Resistenza vengono buttati alle ortiche. Le nuove generazioni
hanno miti di portata terribile a livello valoriale. Si
considerano, poi, da parte di autorità istituzionali, i campi di
sterminio essere stati come luoghi di villeggiatura. E'
reazionario tutto questo, ma nasconde la punta di un iceberg di
grave rilevanza. Il mio teatro è politico perché risponde a un
problema di sedimentazione di principi in una collettività, in
cui vi sono sedimentazioni di altri elementi difficili da
estirpare: è una questione culturale. Parlare e tramandare la
memoria significa, oggi, fare rimanere a galla qualcosa che deve
essere conosciuto. Questo è un problema che amareggia molto i
nostri Partigiani.
Da pochi anni dirigi lo storico Teatro della Cooperativa, in
un quartiere periferico e popolare, quale il Niguarda di Milano.
La realtà di quartiere è molto difficile: esiste disagio,
emarginazione, povertà. Il teatro in questi casi può fungere da
elemento aggregatore civile? Hai riscontrato nell'ultimo periodo
questa possibilità?
Certamente grazie all'opera storica della Cooperativa presente
il Niguarda è un quartiere con meno problemi degli altri
quartieri periferici, anche se, bisogna dire, il disagio esiste
e si vede anche in questa zona. E' una tipica zona dormitorio,
con ridotta attività civile aggregatrice, dove ognuno rimane a
casa propria a vedere le amenità prodotte dal sistema mediatico.
La televisione è un potente mezzo micidiale, di alta concorrenza
per il teatro. Ho trovato, però, con le opere che ho proposto,
tramite la logica popolare, una rispondenza da parte di fasce
diverse di popolazione. Devo, però, amaramente riscontrare
un'assenza di sostegno da parte delle istituzioni. Anche se
ringrazio la cooperativa edificatrice del luogo perché ha fatto
molto, dandoci la sede; abbiamo, poi, un buon rapporto con la
Provincia di Milano. Ma altre realtà rilevanti di stampo
intellettuale e culturale poco hanno ancora fatto.
Ma il tuo teatro non è solo teatro di testimonianza storica:
è anche teatro di impegno sociale su temi di forte attualità:
dalla privatizzazione dell'acqua, al dramma umanitario
dell'immigrazione clandestina: quali sono le opere che possono
rientrare in questo filone?
Cerco sempre di porre elementi di forte attualità nella
narrazione. La xenofobia è un problema presente anche oggi. Ed è
presente in "Lia", nella "Risiera": la prima, poi, pone in primo
piano la violenza sulle donne, operata dal nazismo. Problema,
questo, ancora attuale: c'è ancora molto da fare sulla questione
femminile. Esiste ancora oggi molta emarginazione contro le
donne.
E' difficile per un regista teatrale, oggi in un ambito in
cui vi è un forte controllo del potere istituzionale riguardo i
temi proposti a livello informativo, esporsi in senso politico
culturale e dichiararsi artista dal forte impegno civile?
No, non è difficile. Il teatro deve divenire luogo di contatto
con il pubblico, il popolo. Il Piccolo Teatro era un luogo in
cui gli anziani usufruivano di un canale di comunicazione e di
cultura. L'Elfo è un patrimonio di teatro popolare che rischia
di disperdersi, oggi. Noi ci innestiamo in quel tipo di filone.
Buona parte dell'intellighenzia intellettuale gestisce questi
luoghi, ora, con una logica da "salotto" elitario. Non ho paura
di cosa fanno chi mi contrasta a livello ideale, ma voglio
pensare a cosa devo fare io per ovviare alle mancanze che la
cultura progressista e di avanguardia ha, molte volte, commesso;
ossia lo scadere nell'autoreferenzialismo, nella ricerca
artistica di caratura elitaria, aulica e incomprensibile. Si è
voluto abbandonare il teatro popolare perché si considerava il
medesimo, da parte di certi settori "d'avanguardia", come teatro
vecchio. E' questo il grosso errore da eliminare, da combattere.
Alcuni artisti hanno perso la capacità di commisurarsi con la
civiltà. E un teatro autoreferenziale è, appunto, un teatro in
cui chi viene per assistere esce fuori senza aver capito niente.
Tra il palco e lo spettatore deve esserci una zona estesa che
stimola la coscienza del vivere. |
|
|