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Teatro

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Intervista a Renato Sarti:
il teatro che si fa popolare per tramandare valori e proporre speranze nuove

di Alessandro Rizzo


La storia al teatro: questo è l'elemento conduttore unitario dell'impegno artistico nelle tue rappresentazioni teatrali, da Ravensbrück a Mai morti. Il teatro quindi può diventare anche teatro pedagogico a livello civile?

Diciamo di sì, purchè conservi alcuni elementi, ossia il ritmo e un tempo drammaturgico, che è una delle sue nature peculiari. A volte ci si può confondere con il teatro di narrazione, dove la parola si fa azione. Quindi il teatro può diventare pedagogico ma solo se non scade nella noiosità.

E' vero che la storia deve essere trasmessa alla comunità tramite la ricerca di altre fonti, come il teatro d'impegno o il cinema di genere? Cosa può fare l'arte dove la scuola, i libri, i testi e le documentazioni lette non riescono a fare?

Ci sono due tipi di teatro in realtà molto vicini nei contenuti, anche se diversi tra loro: il teatro dei miti antichi, tragedia greca, shakespeariana, e il teatro dei miti attualizzati. Il secondo tipo cerca di parlare all'oggi facendo in modo di mantenere ancora qualcosa di arcaico. "Mai morti" prende spunto dalla tipica tabulazione, mentre la "Risiera di San Sabba" , strutturato sulla tematica della violenza sulla donna, dal teatro che pone in primo piano la figura femminile. In ciascuno di queste opere esiste, poi, un elemento che giunge alla fine: la speranza. Quando utilizzi i libri per insegnare la storia colpisci una certa parte dell'immaginario. Il teatro penetra, invece, nella coscienza della mente. Gioca sulle intuizioni, sulla commozione, sulla risata. "Nome di battaglia Lia" è una tragedia che induce anche al ridere, come anche "Mai morti": vi è un contrasto forte tra due emozioni diverse e profonde. Due sensazioni sono, queste, che penetrano nei meandri della coscienza dove la storia scritta, il convegno non riescono a penetrare in senso generale.

Il tuo teatro è teatro di memoria: la memoria storica in questo Paese vive momenti di forte attacco da parte di revisionismi e di riletture strumentali del passato. Quali sono le opere che maggiormente influiscono a mettere in scena la memoria tramite la recitazione?

Quasi tutte le mie opere fungono a questo scopo. Anche il solo mettere in scena il classico, apparentemente meno storico, rileva alcuni elementi di forte attualità. Adesso urge trovare una via che faccia della memoria il proprio perno portante: è urgente perché rischiamo di perdere con il tempo le fonti vive della memoria. Con conseguenze deleterie: il 60% degli studenti dell'ITC non sa dove collocare storicamente la strage di Piazza Fontana e credono che sia stata colpa delle Brigate Rosse. Questa generazione è privata dal senso della storia a livello scientifico: è urgente dedicarmi a questo campo.

Il teatro ha e deve avere un grande influsso emotivo sul pubblico per trasmettere concetti e principi che altri canali non riescono a trasmettere in modo così sensazionale?

Ci sono teatri diversi con proprio modo di agire: io sono per un teatro popolare, in cui tutti possano comprendere il linguaggio utilizzato. Il pericolo del teatro, spesso, è scadere nel teatro elitario. I grandi registi, da De Filippo a Fo, da Moliere agli antichi greci avevano promosso, invece, partecipazione tramite il teatro.

Possiamo dire che il teatro, come definisce Peter Brook, deve essere metaforicamente considerato un buon ristorante quando il pubblico, alla fine della rappresentazione, che è come una pietanza piacevole, esce soddisfatto perchè la recitazione è riuscita a conferirgli motivi di speranza ideale e tensione civile maggiori?

E' una buona definizione: quando faccio corsi sul teatro con gli studenti nessuno mi risponde alla domanda "che cos'è il teatro" che è un lavoro, un mestiere. Io spesso faccio qualcosa che è parallelo all'attività del cuoco. Al ristorante non sai perché una pietanza sia buona: perché esiste una preparazione dietrostante, che è un'arte vera e propria. Il teatro è un lavoro di sapienza enorme: dietro esiste una vera preparazione. E' un lavoro, quindi, un mestiere: bisogna saper calibrare bene e al tempo giusto il comico con il tragico, che diventano nell'occasione ingredienti che danno sapore. Il problema è che questa accezione di definizione di teatro è in via d'estinzione.

Tu nasci a Trieste e artisticamente vieni a contatto a Milano con i più celebri registi teatrali: Strehler, De Capitani, Salvatores, Bruni. Questa tua formazione quanto ha influito nella tua matuazione artistica?

Molto: i maestri sono sempre importanti. Strehler era sapiente: dopo il suo "Arlecchino", oppure la "Tempesta", o ancora "L'anima buona", il "Faust" io uscivo con la sensazione di avere qualcosa di più. Il suo era un carattere difficile, ma aveva un patrimonio immenso: insegnava le piccole sfaccettature del mestiere, appunto. Il teatro dell'Elfo, poi, per me è stata una vera palestra: sette anni di partecipazione, anche con parti minime, a ogni rappresentazione. Questo è stato importante: come è importante per il meccanico avere un buon capo officina e fare molta pratica. Ho appreso come capire gli umori del pubblico e come comprendere quando le cose vengono fatte bene. De Capitani, De Gabriele: compagnie teatrali, le loro, che andavano a livello artistico oltre i tempi. La mia terza "scuola" di formazione è stato il teatro di vita, dalla scuola di vita, rappresentato nella "Risiera di San Sabba": ho avuto, in quell'occasione, delle testimonianze di vita reale, vissuta. E' stata una reale traditio, un teatro orale che tramanda racconti. Alcune storie erano lezioni di vita incredibili. Nel lavoro di elaborazione dello spettacolo molte di queste storie sono state da me riportate di pari passo: perché la ricchezza artistica era nella forza delle parole, nella loro capacità di sintesi espressiva. Ho dovuto, nella fase di preparazione dello spettacolo, elaborare le testimonianze che venivano dal "basso". Lia, il personaggio, è la tipica ragazza milanese che vive realmente la una quotidianità in un determinato ambito storico.

La risiera di San Sabba, prima rappresentata all'interno del Monumento Nazionale Risiera di San Sabba al 50° Anniversario della Liberazione, messa in scena, poi, in varie città italiane nella kermesse teatrale dal titiolo "I me ciamava per nome: 44.787", è l'opera che ha aperto il tuo impegno storico artistico di teatro della memoria sul tema della Resistenza, che troviamo anche in altre rappresentazioni: quanto il teatro può dare alla trasmissione dei valori della Resistenza, oggi posti sotto attacco?

Può fare molto come ogni forma di comunicazione. La scuola, l'Università, la famiglia, la televisione sono molto carenti in questo ambito, negli ultimi anni. Del 27 gennaio, per esempio, solo oggi se ne parla. Guccini ha dovuto, addirittura, per esemplificare lo scadimento dei media, cambiare il titolo della canzone Auschwitz per presentarla in TV. I valori base della Resistenza vengono buttati alle ortiche. Le nuove generazioni hanno miti di portata terribile a livello valoriale. Si considerano, poi, da parte di autorità istituzionali, i campi di sterminio essere stati come luoghi di villeggiatura. E' reazionario tutto questo, ma nasconde la punta di un iceberg di grave rilevanza. Il mio teatro è politico perché risponde a un problema di sedimentazione di principi in una collettività, in cui vi sono sedimentazioni di altri elementi difficili da estirpare: è una questione culturale. Parlare e tramandare la memoria significa, oggi, fare rimanere a galla qualcosa che deve essere conosciuto. Questo è un problema che amareggia molto i nostri Partigiani.

Da pochi anni dirigi lo storico Teatro della Cooperativa, in un quartiere periferico e popolare, quale il Niguarda di Milano. La realtà di quartiere è molto difficile: esiste disagio, emarginazione, povertà. Il teatro in questi casi può fungere da elemento aggregatore civile? Hai riscontrato nell'ultimo periodo questa possibilità?

Certamente grazie all'opera storica della Cooperativa presente il Niguarda è un quartiere con meno problemi degli altri quartieri periferici, anche se, bisogna dire, il disagio esiste e si vede anche in questa zona. E' una tipica zona dormitorio, con ridotta attività civile aggregatrice, dove ognuno rimane a casa propria a vedere le amenità prodotte dal sistema mediatico. La televisione è un potente mezzo micidiale, di alta concorrenza per il teatro. Ho trovato, però, con le opere che ho proposto, tramite la logica popolare, una rispondenza da parte di fasce diverse di popolazione. Devo, però, amaramente riscontrare un'assenza di sostegno da parte delle istituzioni. Anche se ringrazio la cooperativa edificatrice del luogo perché ha fatto molto, dandoci la sede; abbiamo, poi, un buon rapporto con la Provincia di Milano. Ma altre realtà rilevanti di stampo intellettuale e culturale poco hanno ancora fatto.

Ma il tuo teatro non è solo teatro di testimonianza storica: è anche teatro di impegno sociale su temi di forte attualità: dalla privatizzazione dell'acqua, al dramma umanitario dell'immigrazione clandestina: quali sono le opere che possono rientrare in questo filone?

Cerco sempre di porre elementi di forte attualità nella narrazione. La xenofobia è un problema presente anche oggi. Ed è presente in "Lia", nella "Risiera": la prima, poi, pone in primo piano la violenza sulle donne, operata dal nazismo. Problema, questo, ancora attuale: c'è ancora molto da fare sulla questione femminile. Esiste ancora oggi molta emarginazione contro le donne.

E' difficile per un regista teatrale, oggi in un ambito in cui vi è un forte controllo del potere istituzionale riguardo i temi proposti a livello informativo, esporsi in senso politico culturale e dichiararsi artista dal forte impegno civile?

No, non è difficile. Il teatro deve divenire luogo di contatto con il pubblico, il popolo. Il Piccolo Teatro era un luogo in cui gli anziani usufruivano di un canale di comunicazione e di cultura. L'Elfo è un patrimonio di teatro popolare che rischia di disperdersi, oggi. Noi ci innestiamo in quel tipo di filone. Buona parte dell'intellighenzia intellettuale gestisce questi luoghi, ora, con una logica da "salotto" elitario. Non ho paura di cosa fanno chi mi contrasta a livello ideale, ma voglio pensare a cosa devo fare io per ovviare alle mancanze che la cultura progressista e di avanguardia ha, molte volte, commesso; ossia lo scadere nell'autoreferenzialismo, nella ricerca artistica di caratura elitaria, aulica e incomprensibile. Si è voluto abbandonare il teatro popolare perché si considerava il medesimo, da parte di certi settori "d'avanguardia", come teatro vecchio. E' questo il grosso errore da eliminare, da combattere. Alcuni artisti hanno perso la capacità di commisurarsi con la civiltà. E un teatro autoreferenziale è, appunto, un teatro in cui chi viene per assistere esce fuori senza aver capito niente. Tra il palco e lo spettatore deve esserci una zona estesa che stimola la coscienza del vivere.

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