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"L'arte è il più breve cammino da un uomo ad un altro" - diceva
Paul Valery - evidenziando così l'importanza dell'arte come
espressione di sé, come momento comunicativo alto ma soprattutto
come momento di relazione. Tra tutte le arti, il teatro è quella
che si fonda più direttamente nella relazione. L'accadimento
teatrale è legato alla presenza fisica e contemporanea, nello
stesso spazio e nello stesso tempo di due elementi, l'attore e
lo spettatore. E' per questa sua natura di interazione umana che
il teatro può considerarsi un arte relazionale. La relazione non
si limita alla dinamica attore-spettatore, ma l'arte teatrale
mette in atto numerose e altrettanto complesse dinamiche di
relazione quali: attore-spazio, attore-colore, attore-forma,
attore-suono, attore-attore che sono gli elementi base del farsi
del teatro.
Il disagio nasce dalle difficoltà che, per motivi sociali o
psichici, alcuni incontrano nell'esprimere se stessi in codici
riconoscibili, nel creare, quindi una comunicazione vera che
permetta di instaurare delle relazioni in positivo e, attraverso
le relazioni, un ruolo. La diversità dall'altro, con le
sofferenze che può provocare, fonda l'esistere dell'esperienza
teatrale stessa, possibile solo nel distinguersi di un attore e
di uno spettatore. Di fatto il disadattato è colui che non ha un
ruolo e la costruzione di questo ruolo ci riporta sul "palco".
Il teatro, infatti attraverso i sentimenti, può ricostruire un
ruolo e un'apertura all'altro.
La presenza di una persona con disagi in scena è tuttavia un
segno teatrale complesso.
Innanzi tutto è un frammento di realtà. Qualcosa che ha il
sapore della vita vera, soprattutto dei sentimenti e delle
emozioni che appartengono all'esperienza della vita. E
l'autenticità della vita è data proprio dalla condizione di
disagio dei protagonisti. L'Altro che è in scena non è la realtà
che ogni giorno è sotto ai nostri occhi: i malati psichici, per
esempio sono proprio quelli che nella vita di tutti i giorni non
vediamo. Reali ma invisibili. E se li incontriamo casualmente
agli angoli di una strada o in una stazione, ci fanno
impressione, ci paioni "brutti".
La messa in scena di ciò che è socialmente occultato, sottratto
è lo scandalo di questo teatro, è il suo maggior rischio, ma è
anche il suo atto politico e civile più significativo, tanto più
rivoluzionario quanto più ciò che ci viene mostrato modifica la
nostra percezione della realtà e ciò che prima avremmo detto
brutto ora ci pare bello o ce ne facciamo interrogare.
L'opzione per il disagio e per il margine non sono nuove al
teatro, hanno radici antiche e spesso, tra Otto e Novecento, si
sono intrecciate con la scelta del realismo. Ma la drammaturgia
di cui parliamo non fa riferimento al teatro naturalista
francese e neppure al realismo politico di Brecht, piuttosto ci
fa pensare alle comunità teatrali degli anni '70 come il Living
Theater, l'Odin Teatret di Barba e le esperienze Grotowskiane,
il cui scopo dichiarato, non a caso era quello dell'azione
sociale. Non è un caso nemmeno che gli esercizi e le dinamiche
processuali usate negli odierni interventi nel sociale si
rifacciano per lo più a quelle esperienze di gruppo.
Margine e disagio sono i luoghi dolorosi della crisi in cui ogni
uomo si dibatte.
Nella pluralità dell'attuale fenomenologia teatrale, solo alcune
esperienze artistiche si fanno carico del rapporto con il
disagio. In realtà però una ricerca, nel campo del teatro come
in altri campi, non è veramente tale se non si confronta con le
diversità e con il disagio.
Storicamente il teatro nasce sul terreno delle diversità,
riconosce la sua voce essenziale quando si esprime a partire dal
margine dell'esistenza, perché è lì che si propone l'umanità
sofferente, rifiutata. E' dunque da questo mondo rifiutato che
può venire una testimonianza forte che fa della scena lo spazio
dove ciò che è negato riappare. Il rimosso, quando ritorna,
ritorna con un vivo rafforzamento di senso. In questa
prospettiva il teatro è il luogo dove il male può essere
riconosciuto, accettato, elaborato. Il teatro infatti parla
della sofferenza del mondo, cosa che non sarebbe possibile senza
il mistero della maschera e la scena. Kantor una volta disse che
ciò che gli interessava era il mondo delle prostitute, dei
ladri, dei malfattori…
Per tornare al disagio sul palco osserviamo che forse è la prima
volta che tante persone, che non sono attori professionisti,
trovano nel luogo del teatro la possibilità di raccontare in
prima persona di sé e, attraverso di sé, di una condizione umana
drammatica fatta di diversità. Solitudine, sofferenza, speranza,
amore, follia, gioia. Con sé queste persone portano una verità
non teatrale di grande impatto emotivo e comunicativo.
Ma dinanzi a questi spettacoli emerge un interrogativo: chi è
l'attore professionista?
Attore, si dice, è colui che sa fingere perché ha una tecnica,
per farlo negli anni ha messo a punto, in una scuola o
laboratorio o quant'altro, un vocabolario e una competenza
grammaticale e sintattica che gli consentono di usare il proprio
corpo strumentalmente e di produrre una verità teatrale. Sugli
sviluppi della tecnica (training fisico ecc.), su dove essa
debba insistere (livelli preespressivi o sviluppo competenze
emozionali), su cosa sia una verità teatrale (autenticità
emozione dell'attore e relazione attore-spettatore ecc,)
esistono varie scuole di pensiero. Ma in questi spettacoli
l'attore non c'è, o meglio chi agisce in scena non possiede una
competenza tecnica attoriale. La figura centrale in questo
teatro del disagio è senz'altro il regista-drammaturgo che
conduce il gruppo nell'esperienza della ricerca dei simboli
durante la fase delle prove. Queste spesso consistono in una
lungo periodo di improvvisazione aperta (spesso più di 40
giorni), talora totalmente libera oppure sollecitata in vari
modi e misure quali musica, oggetti, più raramente testi
verbali. La funzione principale del regista è in questa fase
quella di osservare gli attori secondo quanto già avveniva nella
pratica dell'improvvisazione del teatro di ricerca e
sperimentazione degli anni Settanta e Ottanta. Molto spesso come
raccontano i registi le cose più interessanti accadono nella
vita, fuori dalla sala prove: un viaggio, la prima volta su un
aereo possono far scaturire gesti o comportamenti che il regista
nota e poi ripropone nel lavoro teatrale.
Ad un tratto il disagio va in scena e si racconta.
Spesso gli spettacoli parlano di chi agisce in scena, della loro
condizione di persone al margine, o nel caso di disabili viene
spesso raccontato il linguaggio e le emozioni di dolore e di
amore di una condizione differente da quella "normale". Tuttavia
appaiono più riusciti gli spettacoli in cui queste persone
interpretano se stesse, o in cui danno corpo ad archetipi
mitici. Più che di personaggi, in queste drammaturgie, ci
troviamo di fronte a figure aperte, simboli drammatici a cui
l'autenticità dei portatori di handicap, dei malati psichiatrici
o dei detenuti, dà sostanza nutrendo la verità dell'arte con
quella della vita. Certo è che la problematica di lavorare con
persone che non sempre sono consapevoli della comunicazione che
stanno mettendo in atto è sempre presente.
In molti di questi spettacoli, c'è un'intenzionalità
comunicativa forte che si radica in un grande desiderio
dell'altro e della relazione. Sono spettacoli capaci di
provocare e di commuovere, raramente lasciano indifferenti.
Aperti a riconoscimenti e spesso fraintendimenti e critiche sono
comunque "rivolti a" e "fatti per" chi sta seduto in platea. In
tutti questi spettacoli c'è una ricerca di segni, come quelli
dei corpi, fatti di carne e segnati dalla vita vissuta.
Musica, danza parole, ma soprattutto corpi. Quello che più
colpisce sono infatti i corpi. In alcuni casi si ha la
sensazione che siano stati scelti dei corpi, non tanto delle
persone. Anche quando il rapporto artista e attore è segnato dal
rispetto e dall'amore per l'altro nella sua totalità di
corpo-persona, in scena si vedono innanzitutto i corpi di queste
persone, perché è nel corpo il segno della loro diversità. La
vita li ha segnati con le sue marche e le sue ferite. In questo
li sentiamo più simili a noi persone comuni rispetto ai soliti
corpi ben misurati ed atletici degli attori tradizionali.
Sulle scene quei corpi li avvertiamo nudi, esposti, fragili,
talvolta osceni. |
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