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Esperanto
Babylon Café letterario
virtuale ed… esperanto!
Intervista a Davide Zingone a cura di Massimo Acciai
Scacchi
Etimologie
Quando i Romani
conquistarono l'Informatica
di Davide Zingone
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"Tenue rey, sesgo alfil, encarnizada
Reina, torre directa y peón ladino
Sobre lo negro y blanco del camino
Buscan y libran su batalla armada."*
Ajedrez II, Jorge Luis Borges
Nessun altro gioco come gli scacchi ha saputo stuzzicare la
fantasia di poeti e scrittori nel corso dei secoli. Cervantes,
Goethe, Poe, Montale, Bulgakov, Borges, tanto per citare i più
importanti, hanno dedicato nelle loro pagine una particolare
attenzione a questo gioco millenario. La ragione di tale
successo risiede probabilmente nel fatto che gli scacchi si
prestano facilmente a essere spogliati delle proprie
caratteristiche logico-matematiche, per conservare solo la
connotazione filosofica intrinseca nel gioco stesso. Ecco perché
attraverso la trasfigurazione artistica la scacchiera diventa un
universo manicheo dove lo scontro tra il bianco ed il nero è la
metafora dell'eterna lotta tra il bene ed il male,
dell'opposizione dei contrari, in definitiva della incessante
dialettica dell'universo, conteso tra immobilismo e divenire,
tra vita e morte, tra conscio e inconscio, e terreno di una
battaglia dell'uomo contro se stesso, che mina le sue certezze
ed apre la strada alla follia.
Come uno specchio gli scacchi riflettono le grandi passioni
della condizione umana e traducono in dimensione estetica la
drammatica lotta dell'uomo contro il tempo e contro le proprie
limitazioni, più che contro quelle dell'avversario. L'ex
campione del mondo Karpov era solito affermare che le guerre
dovrebbero essere combattute sulle scacchiere dai migliori
giocatori di ogni nazione, per evitare spargimenti di sangue tra
le popolazioni inermi. Ed infatti, non a caso, la sfida del 1972
a Reykjavik, in Islanda, tra il russo Spasskij e l'americano
Fischer fu vista come la migliore metafora delle tensioni della
guerra fredda: il primo, dallo stile sobrio e classico, chiaro
esponente della pianificazione sovietica; l'altro, imprevedibile
e brillante, incarnazione del sogno americano, non si
scontrarono con bombe e pistole, bensì con l'intelletto, l'arma
più nobile dell'uomo.
Pare che il gioco degli scacchi sia nato verso il V secolo d.C.
in India con il nome di chaturanga, cioè "quadruplice armata",
come evoluzione di un gioco importato secoli prima dalla Cina.
Sulla scacchiera si scontravano le quattro componenti
dell'esercito indiano: elefanti, cavalleria, fanteria e carri da
guerra. Nato come semplice rappresentazione della guerra ridotta
a schema per il divertimento dei re, esistono varie leggende
intorno alla nascita del gioco, una delle quali narra che
l'inventore degli scacchi rifiutò la metà del regno che il suo
re gli aveva offerto per la sua invenzione, chiedendo in cambio
solo un chicco di grano raddoppiato per ognuna delle 64 caselle
della scacchiera. Dapprima il re sorrise della faciloneria del
suo suddito ma, appena i suoi contabili gli ebbero fatto il
conto dei sacchi di grano che avrebbe dovuto sborsare, il re
impazzì dalla rabbia e fece tagliare la testa al geniale
inventore. Leggende a parte, alcuni studiosi odierni si trovano
concordi nel considerare il Latruncolorum lusus, cioè "il gioco
dei soldati", un antico gioco da tavolo che i soldati romani
avevano probabilmente imparato durante le guerre in Oriente,
come un antenato diretto degli scacchi. In effetti molte
attestazioni letterarie tardo-latine ce lo descrivono come un
gioco di pedine su uno scacchiere che rappresenta una banda di
soldati che attaccano o difendono una postazione fortificata. La
differenza fondamentale con gli scacchi è che il "gioco dei
soldati" fa uso dei dadi, e quindi la somiglianza tra i due
giochi potrebbe essere solo casuale.
Dall'India, comunque, gli scacchi si spostarono seguendo il
cammino del sole, lungo le vie commerciali e di conquista:
dapprima giunsero in Persia, dove chaturanga si deformò in
chatrang, poi approdarono nel mondo arabo, dove il gioco
al-shatranj trovò enorme favore. In Europa gli scacchi
penetrarono tra VIII e X secolo attraverso la conquista islamica
della Spagna e le crociate in Terra Santa e si diffusero
rapidamente, come confermano vari documenti: per esempio, il
testamento risalente all'XI secolo del Conte di Urgel, in
Catalogna, che lasciava tutti i suoi beni, tra cui una preziosa
scacchiera, alla Chiesa; e una lettera del 1060 del cardinale
Pietro Damiani al Papa Alessandro II, nella quale si lamentava
del fatto che il gioco dei mori stava conquistando i fedeli
cristiani. Inoltre, molti poemetti medievali, soprattutto
francesi, si ispirarono agli scacchi, in particolare per le
possibilità uniche che questo gioco dava allo sviluppo delle
scene d'amore: a quei tempi una partita a scacchi era uno dei
pochi motivi per cui una visita nelle stanze private di una
donna non appariva sconveniente e, oltretutto, dava agli
innamorati la preziosa possibilità di sedere vicini. Senza
andare troppo lontano, basterà ricordare che Tristano e Isotta,
ma anche Lancillotto e Ginevra, usarono questo espediente per
incontrarsi, ed esistono alcune illustrazioni che ritraggono lo
stesso Re Artù intento a giocare a scacchi. Nel medioevo gli
scacchi furono definiti "il gioco dei re, il re dei giochi", e
si racconta che il grande Napoleone Bonaparte, come molti altri
generali prima di lui, preparasse minuziosamente su una
scacchiera le sue tattiche belliche.
Il nome italiano scacchi, che indica tanto il gioco in sé quanto
le singole pedine, deriva dal persiano shah "scià, re",
attraverso l'arabo al-shag e il provenzale escac. La famosa
espressione scacco matto, che indica la mossa vincente della
partita, non è altro che il calco della locuzione persiana shah
mat "il re è morto". Nel lungo viaggio verso l'Europa i pezzi
del gioco originario si andarono trasformando adeguandosi al
modo occidentale di dar battaglia. Rimasero perciò invariati il
re, il cavallo ed i pedoni (dallo spagnolo peón "soldato di
fanteria", a sua volta dal tardo latino pedo, accrescitivo di
pes "piede"). Modifiche invece subirono la torre, anticamente
chiamata rocco, da rokh, nome dato dai persiani al cammello
montato da arcieri e, per assimilazione di forma, al pezzo degli
scacchi che rappresentava un elefante che portava una torre in
groppa; la regina, in francese vierge "vergine", ottenuto per
falsa etimologia popolare dal persiano ferz, che valeva invece
"condottiero, visir": il capitano in pratica cambiò sesso per
trasformarsi, ironicamente, in regina, il pezzo più potente
della scacchiera; e l'alfiere, che ci giunge dall'arabo al-fil
"l'elefante", in quanto presso gli orientali quel pezzo
rappresentava, appunto, un pachiderma. Da notare che l'italiano
alfiere, nel senso di "ufficiale della milizia incaricato di
portare la bandiera", ci giunge anch'esso dall'arabo, ma da una
parola diversa: al-faris "il cavaliere". E' singolare che
l'alfiere è l'unico pezzo che cambia nome a seconda della
lingua: nei paesi anglofoni è un vescovo (bishop), in Germania è
un corridore (Laufer), in Francia è un pazzo (fou). Quest'ultima
definizione ci piace particolarmente, perché sembra alludere al
movimento dell'alfiere in diagonale, lungo la prospettiva più
strana dello spazio a tre dimensioni: la potremmo definire "la
diagonale del pazzo", il titolo migliore per la vita di tutti
gli uomini che si ritrovano a tracciare linee immaginarie di
fronte a una scacchiera metaforica, a loro volta pedine di una
partita giocata a più alto livello, come diceva il poeta
persiano del XII secolo Omar Khayyam: "Noi siamo i pedoni della
misteriosa partita a scacchi giocata da Dio. Egli ci sposta, ci
ferma, ci respinge, poi ci getta uno a uno nella scatola del
nulla."
* "Delicato re, obliquo alfiere, spietata
regina, torre diritta e astuto pedone
sul bianco e nero del cammino
cercano e conducono la loro battaglia armata."
Traduzione mia.
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