|
|
Libri a fumetti
Cinema
Pittura
Miti mutanti 3
|
|
L'unico peccato è la stupidità
Sono passati diversi mesi dall'ultimo, come di
consueto tutt'altro che memorabile, festival di
Sanremo, durante il quale il Roberto nazionale
pronunciò le parole del titolo. Si riferiva, in
quell'occasione, alla polemica scatenata
dall'insulsa filastrocca di un cantante a nome Povia.
Ma in fondo lo sosteneva anche il sommo Einstein che
aveva dubbi sull'infinitezza dell'Universo, ma non
su questa grave pecca dell'essere umano.
Mi piacerebbe allora fare un breve excursus nella
stagione cinematografica appena trascorsa, su tre (o
quattro) film particolarmente significativi che
sembrano sospendere, almeno per una manciata d'ore,
i giudizi poco compassionevoli sulla nostra specie.
Comincio da Milk di Gus Van Sant, il racconto
dell'ascesa politica di un gay dichiarato
nell'America degli anni Settanta, baluardo dei
diritti civili e fiero oppositore della Proposition
6 che, fra le mille assurdità, voleva impedire agli
omosessuali l'accesso all'insegnamento ravvisando il
rischio di emulazione da parte dei discenti.
Milk non è probabilmente il capolavoro del regista
statunitense, manca, a mio avviso, la giusta
distanza teorizzata dai linguisti: il coinvolgimento
emotivo diretto in una vicenda, la non elaborazione
del lutto rendono un'opera artistica più
didascalica, più dogmatica, capace di convincere
solo chi già lo era (penso a Ken Loach che comunque
amo e del quale desidererei più epigoni).
Detto ciò Milk è e resta, a mio giudizio, un film
irrinunciabile.
C'è la passione, c'è l'amore per una causa che non
sia solo la fioritura del proprio orticello, c'è il
respiro grande di chi sa di essere un eroe perché è
cosciente del rischio che corre. Sean Penn è
grandissimo nella sua umanità, nel dolore che emana
dallo sguardo luminoso, James Franco sa essere sexy
(molto!) ed allo stesso tempo dolce e comprensivo,
Josh Brolin è viscido e schifoso come qualcuno che
in questo momento non mi sovviene (ma sono quasi
certa che il nome cominci per esse…), Emile Hirch
ribalta lo stereotipo del giovane emarginato e
problematico e dà vita ad un personaggio
meravigliosamente sopra le righe. Il connubio, anche
recitativamente, funziona.
E quando il connubio funziona non c'è bisogno del
movimento di macchina o dell'effetto fine a se
stesso, l'emozione passa "dal poco" molto più che
"dal troppo". Gus Van Sant dimostra anzi
intelligenza registica nel saper adattare la forma
alla sostanza e non viceversa: la sua scelta spiazza
i detrattori "ad ogni costo" e non si piega alla
supremazia del mezzo sul messaggio, patologia che
affigge, ahinoi, moltissima video arte e molto
cinema contemporaneo, avviluppati su loro stessi,
onanismi destinati a pochi fedeli, adepti, capaci di
toccare le teste (nei casi migliori), ma mai i cuori
di chi guarda.
Se il rifacimento di Psyco era forse stylish (il
termine però calza fino ad un certo punto), un
esercizio di stile ed un omaggio al Maestro
Hitchcock sulla necessità del quale si può dibattere
all'infinito, mi sembra infatti che in questo caso
che il regista abbia relegato la sperimentazione
linguistica ad un ruolo secondario rispetto al plot
che intendeva approfondire. Per far questo si è
avvalso di una sceneggiatura studiata fin nei minimi
dettagli (anche storicamente) e di un protagonista
che, vale la pena ribadirlo, si dimostra
strabiliante nella sua capacità di adattamento
mimetico come anche nella rielaborazione soggettiva
di un dead man walking conscio del rischio che corre
e tuttavia eroico nella caparbietà della sua
battaglia civile ed umana contro il pregiudizio.
Sean Penn, e come lui pochissimi altri, Johnny Depp,
Benicio Del Toro e il padre putativo Marlon Brando,
pare davvero avere qualcosa di sovrumano, non
altrimenti definibile…
E poi c'è Mickey, domatore assoluto del secondo film
sul quale vorrei spendere due parole: The Wrestler
di Darren Aronofsky.
Il film narra la storia di Randy "Tha Ram",
lottatore di wrestling la cui distruzione fisica va
di pari passo con quella esistenziale, che tenta di
rimettere in piedi la propria carriera e la propria
vita dopo che un infarto lo aveva costretto ad
abbandonare il ring.
L'ariete prova così a recuperare il rapporto
naufragato con la giovane figlia, si mette a
lavorare come addetto al bancone gastronomico in un
supermercato, trova persino l'amore nel corpo
bellissimo e nell'anima ammaccata della
spogliarellista interpretata da Marisa Tomei.
Sconfitto però in ogni suo tentativo di rinascita
torna là dove la sua esistenza si era
metaforicamente interrotta, torna sul ring a
combattere e morire come un leone vero.
Ci sarebbe molto da dire sul questa opera,
vincitrice alla passata edizione della Mostra del
Cinema di Venezia, ed allo stesso tempo le
considerazioni si riducono ad una sola,
onnicomprensiva: Rourke è il film.
Mickey di Nove settimane e mezzo, Mickey San
Francesco per Liliana Cavani, Mickey prode allievo
dell'Actor's Studio e Mickey della boxe (che ne ha
tumefatto il seducente volto) e degli eccessi. Un
uomo, senza dubbio, ammaccato, eppure con un lampo
negli occhi da tigre pronta a tentare il balzo.
Tuttavia tenero, (auto)ironico, gentile, quasi
pudico (cosa rara nei giovani, gasatissimi
attorucoli italiani pompati da fiction di dubbio
valore e promossi a suon di fanfara nei principali
programmi "gggiovani"). Rourke è il film, lo
ribadisco, eppure ho provato disagio nel guardarlo
poichè non sono riuscita a scindere il vero dal
fittizio: vedo un uomo che soffre, che sceglie di
vivere "a modo suo", che sceglie la sua fine e il
suo finale. Vedo il grande, redivivo Mickey Rourke
(ed insieme a lui il suo Randy, non viceversa) e la
voglia di urlare che a stento trattiene tra le
labbra gonfie.
Rourke non è, recitativamente parlando, migliore di
Sean Penn che è perfetto in Milk (ed è maestoso
ovunque, alla faccia della compiaciuta incompetenza
di taluni recensori). Ha il talento di Bukowski, un
talento meravigliosamente sporco, ibrido, incazzato.
La sua rabbia di "loser" inevitabile è la nostra
rabbia e ad Aronofsky va il merito, per niente
trascurabile, di averla saputa assecondare con
perizia chirurgica.
La tristezza che mi accompagnato ben oltre la
visione di The Wrestler temo non sia imputabile alla
sospensione dell'incredulità e lo stesso è accaduto,
per altre, ovvie ragioni, dopo la proiezione del
dittico di Steven Soderbergh dedicato ad Ernesto
"Che" Guevara (distribuito da noi in due parti
uscite al cinema ad una ventina di giorni di
distanza l'una dall'altra).
Che -L'Argentino e Che - Guerrilla sono le due facce
complementari di una vicenda umana e politica
imprescindibile e, allo stesso tempo, due opere,
anche visivamente, molto diverse.
La prima parte è incentrata sulla Rivoluzione
cubana, dall'incontro del giovane, medico Ernesto
(non ancora "Che", appellativo che risale ad
un'usanza argentina, molto buffa per i cubani, di
apporre questo prefisso ai nomi) con Fidel Castro e
con gli esuli del 26 Luglio, alla decisione di
tentare l'impresa a bordo del Granma (una barcarola
incapace, almeno sulla carta, di trasportare 82
uomini da Tuxpan a La Colorada). E dunque la
battaglia, prima sulla Sierra Maestra e poi in
pianura fino a La Habana, l'incontro con la seconda
moglie (anche lei combattente) Aleida March e
l'amicizia profonda con Camilo Cienfuegos (uno dei
figli del Che si chiama Camilo, in onore dell'amico
"barbudo" scomparso prematuramente).
La seconda parte, Guerrilla, riguarda invece la
campagna di Bolivia nella quale il Che, stanco,
provato dall'asma, tradito da chi avrebbe dovuto
supportarlo, fu imprigionato ed ucciso, in una
scuola a La Higuera, dai militari del dittatore
Barrientos (per volere della CIA, sarà il caso di
ricordarlo). Dopo quarant'anni dalla morte del
dottore argentino, postilla mia, nel luogo
dell'esecuzione domina la statua di colui che viene
chiamato dagli abitanti della zona "Sant'Ernesto de
La Higuera" e l'attuale Presidente boliviano Evo
Morales ha pubblicamente fatto menzione
dell'importanza storica e politica del sacrificio
(consapevole, come quello di ogni eroe) del Che per
l'avvento della nuova Bolivia.
Per tornare a noi, quella di Soderbergh è un'opera
quasi brechtiana, asciutta fino all'essenziale pur
nei tempi necessariamente dilatati della narrazione,
compatta, antiretorica e antispettacolare. Parziale
certo (ma come si può raccontare la grandezza di un
Uomo, di quell'Uomo, con "solo" quattro ore e mezza
di film?), tuttavia densa e lontanissima
dall'apologia o dallo sberleffo hollywood style
(direbbe Manzoni, "vile encomio o codardo
oltraggio").
Perché diciamocelo, l'impresa di Soderbergh e,
soprattutto, di Del Toro, era a dir poco improba:
hanno lavorato circa otto anni per ricostruire la
Storia di un Eroe del Novecento poco gradito agli
Stati Uniti (per usare un eufemismo), hanno
condensato in un lungo film (ma pur sempre un'opera
cinematografica) le vicende, lunghe circa dieci
anni, di un Uomo che ha mutato per sempre la storia
dell'America Latina e del mondo intero.
E poi c'era lui, il Che, ed il rischio, non
indifferente, di santificarne solo l'icona. E'
indubbio infatti che la figura di Ernesto Guevara
sia inscindibilmente legata allo scatto di Alberto
Korda (realizzato il 5 marzo 1960 al funerale per le
cento vittime causate dall'esplosione commissionata,
anch'essa, dalla CIA, della nave Coubre) che
campeggia su bandiere e magliette di tutto il mondo.
In questo caso è però evidente come il valore
iconografico, non demonizzabile tout court, sia
saturo di un valore storico che deve essere
conosciuto e tramandato.
A questo si aggiunge la straordinaria complessità
umana ed intellettuale del personaggio: il
guerrigliero rivoluzionario, certo, e poi il medico
che cura i feriti in battaglia in ordine di gravità
(compagni e nemici, senza distinzione), il fine
intellettuale che scrive di politica economica (a
leggere oggi quelli scritti viene da pensare ad un
profeta) e tramanda in infiniti diari, con grande
autoironia, la propria, straordinaria vita. Il
Comandante, in groppa al donchisciottesco asino, che
sbaraglia l'esercito di Batista è lo stesso Uomo che
dialoga (in francese, lingua che conosce alla
perfezione) con il filosofo esistenzialista Jean
Paul Sartre e che ammutolisce, "senza perdere la
tenerezza", la platea ostile che, all'incontro delle
Nazioni Unite, nel '64, lo accoglie al grido di
"assassino".
Il film diretto, con mirabile padronanza di mezzi e
contenuti, da Steven Soderbergh riesce, pur nella
parzialità di analisi (il ruolo politico e
strategico di Fidel meritava un maggiore
approfondimento, ma sarebbe probabilmente servito un
altro film) a restituire tale complessità.
Merito anche (e forse soprattutto)
dell'interpretazione dell'uomo che volle farsi Che,
parafrasando il titolo di un celebre film di John
Huston, Benicio Del Toro: recita in spagnolo e
restituisce, nei silenzi e negli sguardi, negli
affanni asmatici e nei sorrisi caldi, tutta la forza
ideologica di un pensiero attualissimo. E' possibile
pensare ad un film diverso, ma non ad un Che senza
che lui gli dia corpo e voce.
Il film non termina, ultimo atto d'amore, con la
straziante soggettiva della fucilazione, ma con un
immagine, quasi sognante, del Che a bordo del Granma
(ricordiamo che Guevara non ha mai visto Cuba prima
di allora): la Storia è più forte di un vile
proiettile e ricomincia da quella nave scalcinata e
dal sogno di un Uomo che ha dato la vita per i
propri ideali.
Diceva, qualche mese or sono, Roberto Benigni:
"l'unico peccato è la stupidità".
Aggiungo l'ignoranza (anche indotta, se vogliamo) e
chiudo proprio citando il Che: "nel tempo
dell'inganno universale, dire la verità è un atto
rivoluzionario".
|
|
|