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Fotografia
Miti mutanti 10
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"La solitudine dei numeri primi"
Saverio Costanzo
(Eurcine, 1)
Che peccato! E che occasione mancata! La storia di
Alice e Mattia, che dopo aver conquistato con il
romanzo oltre un milione e mezzo di lettori, avrebbe
potuto raggiungere fette ancora più ampie di
spettatori, non colpisce e non emoziona. Un vero
peccato! Innanzi tutto, per la prima mezz'ora, chi
non avesse già letto il romanzo, fa fatica ad
individuare l'identità dei personaggi, che
trapassano continuamente dall'infanzia,
all'adolescenza, alla giovinezza e ritorno, creando
non poca confusione negli spettatori ignari del
testo. E questo, per un narratore, mi sembra una
grande pecca. La destrutturazione e ricostruzione di
una trama attraverso più tasselli che si compongono
in un ordine tassativamente non cronologico, non mi
ha persuaso. So bene che il dolore erompe a suo
insindacabile arbitrio, ignorando qualsiasi
linearità temporale, e riuscire ad esprimere questa
incontrollabilità intervenendo nella strutturazione
narrativa è una sfida troppo allettante per un
autore, sia esso regista o scrittore, ma tutto ciò
non può portare ad un'incomprensibilità così lunga e
palese. A titolo di cronaca, la sceneggiatura è
firmata dallo stesso regista, Costanzo, e
dall'autore del romanzo, Paolo Giordano.
Inoltre il film, per lunghi tratti, risulta noioso
mentre le pagine del romanzo tengono attaccato alla
pagina il lettore fino alla fine, assolutamente
senza neppure l'ombra di un passo noioso; anzi.
L'appunto maggiore che faccio al romanzo è nel
manicheismo con cui vengono tracciati i genitori di
entrambi i protagonisti, senza alcuna sfumatura
tratto che trovo tipicamente adolescenziale,
psicologicamente immaturo e nell'aspra rigidità che
alberga negli animi di Alice e di Mattia, due figli
durissimi con i rispettivi genitori; due figli che
non conoscono parole come comprensione o perdono. Se
per loro è stato così imperdonabile essere figli di
genitori così inadeguati (che nel film, ignoro il
motivo, diventano "mostruosi"), bè, anche per quei
genitori non deve essere stato facile aver a che
fare con dei figli così chiusi, torvi e arcigni.
Artificiosa poi mi è parsa la scelta di usare
musiche da giallo alla profondo rosso o da thriller
orrorifico perché essa carica di suspanse posticcia
una tensione che è già nelle vicende dei personaggi
e non c'è bisogno di alcuna sottolineatura. Una
scelta che sembra fatta a freddo, una scelta di
testa, decisa a tavolino. Così come quella di
spostare le scene drammatiche che provocano il
trauma verso la fine del film, allestendo così un
mistero che oltre ad essere artificiosamente
costruito, appunto, non giova alla vicenda narrata.
Quindi della storia di due creature prigioniere di
un trauma che, rendendoli un po' diversi dai loro
coetanei e dal loro omogeneo conformismo, li isola
in una solitudine che entrambi non riescono a
violare, che resta nel film? Essere prigionieri di
un corpo, su cui i due trasferiscono i loro disagi
più profondi, incapaci di manifestarli verbalmente,
e non ricevendo alcun aiuto dal mondo degli adulti
che li circonda, ecco, questa mi sembra la lettura
più avvincente del romanzo. E nel film? La
manipolazione dei corpi (che sia l'anoressia,
l'autolesionismo o l'ingrassare per indifferenza) dà
un senso di potenza che nasconde l'incapacità e
l'impotenza di operare un mutamento, una vera
trasformazione delle proprie coordinate interiori;
una trasformazione capace di aprire i due personaggi
all'amore e alle relazioni tout court. Il dominio
sul proprio corpo viene attuato per coprire
l'incapacità di sciogliere vecchi traumi-nodi che li
imprigionano in un'incapacità di amare e di
perdonare (e di perdonarsi, aggiungo io). Ebbene,
tutto questo c'è nel film? Io credo che non sia
sufficiente mostrare ferite e tagli o il corpo
ischeletrito dell'attrice protagonista né quello
imbolsito dell'attore protagonista. La profondità di
un simile dolore, mi dispiace dirlo, non passa; in
pellicola, non passa. E gli esercizi di stile del
regista, che si avvale tra l'altro di una splendida
fotografia, non colmano questa distanza, questo non
riuscire ad arrivare alla mente e al cuore dello
spettatore. È apprezzabile che si sia voluto
asciugare, alleggerire un po' il grande carico di
dolore che sostanziava il romanzo; ma il punto è che
il film non tocca, non colpisce, risultando così
eccessivamente freddo e schematico oltre che
narrativamente confuso.
Peccato! Dopo "Private", di cui fui entusiasta
ammiratrice, dopo l'ambiziosissimo e suggestivo
seppur irrisolto "In memoria di me", mi aspettavo
molto da Saverio Costanzo. E mi dispiace essere
uscita così delusa dalla visione di questo suo terzo
lungometraggio. Detto questo, gli attori Alba
Rohrwacher (straziante il suo inappagato desiderio
di amore, che si esprime con sguardi lancinanti e
frasi smozzicate, ed impressionante il suo corpo
scavato, che si muove come una marionetta
disarmonica), Isabella Rossellini (che dona alla
madre di Mattia un tono dolente e diverse, finissime
sfumature, che il personaggio nel libro non ha) e
Arianna Nastro (un'adolescente all'esordio che ha
nel volto e nel corpo una misteriosa riservatezza
che conquista) sono bravi, molto bravi e
straordinariamente in parte, ma il film nonostante
questo apporto interpretativo non riesce proprio a
prendere il volo.
La prigioniera
di Maria Antonietta Nardone
"In carne e ossa"
Christian Angeli
(Filmstudio)
Ecco finalmente uscire in una sala romana il primo
lungometraggio di Christian Angeli, promettentissimo
regista di cortometraggi, tra cui l'intenso eppur
asciutto "Fare bene Mìkles", letteralmente sommerso
di premi internazionali. Questo suo primo film,
intitolato "In carne e ossa", girato nel giugno del
2007 e pronto nel 2008, trova infine la possibilità
di essere visto dagli spettatori ossia di avere
finalmente una vita propria.
In una villa isolata e maltenuta, Edoardo e Alice si
apprestano a festeggiare il loro venticinquesimo
anniversario di matrimonio. La coppia, lui, un
medico agli arresti domiciliari, lei, una pianista
che pensa solo ai suoi concerti, ha una figlia
venticinquenne, Viola, che vive reclusa nella
propria camera, dove divora libri su libri,
mostrando evidenti segnali di un serio disturbo
mentale che lambisce l'anoressia (si nutre solo di
caffè e biscotti) e trova sfogo nell'autolesionismo
(fisico e psichico). In questo universo chiuso e
concentrazionario arriva François, uno psichiatra
giovane ma già professionalmente affermato, chiamato
a risolvere i problemi di Viola. Apparentemente
sembra essere questo il motivo del suo arrivo alla
villa. In realtà egli è spiato e osservato di
nascosto non solo da Viola, ma anche dai suoi
genitori. E la macchina da presa che segue i
movimenti dello psichiatra quasi fosse uno sguardo
animale, perfino ansimante, pronto a studiare e
cacciare la sua preda è molto efficace.
Tutti e tre, distintamente, ambiscono a conquistare
e tirare dalla propria parte François, raccontando,
ciascuno, la propria versione dell'origine di un
disagio che stringe l'intero nucleo famigliare.
Ciascuno, nel proprio racconto, si presenta come
vittima dei congiunti. E sul ricorso al vittimismo
che scorre in tante depressioni e in tanti vissuti
paranoici si potrebbero scrivere pagine e pagine, ma
non è certo questa la sede. Riuscirà François a
districarsi da queste maglie ingarbugliate e a
portare un effettivo aiuto all'infelicissima Viola?
Non saranno tuttavia i racconti di parte a svelare
il mistero di questo malessere bensì le azioni, i
comportamenti nascosti di alcuni e coraggiosamente
scoperti da altri. E la vicenda, a poco a poco, si
illumina, e si mostra per quello che è; un dramma
del disamore. Un disamore così profondo che ammala e
sfinisce tutti e tre i componenti di questa tremenda
famiglia, sia pure con gradi e responsabilità
diverse. È il padre, Edoardo, che ruba alla figlia
le frasi del suo toccante diario per scrivere un
romanzo, firmato da lui solo. È Edoardo che sottrae
al computer dello psichiatra francese i files di
pazienti che potrebbero comprometterlo e li usa con
intento ricattatorio proprio verso la donna amata da
François, una politica che non può permettersi
scandali. È Edoardo che ha un'azione manipolatoria
nei confronti di tutti gli esseri umani con cui
entra in contatto e a cui risucchia tutta la loro
creatività, tutta la loro linfa vitale. Accanto a
questa volontà manipolatoria e vampiresca di
Edoardo, si affianca il gelo affettivo di Alice, su
cui è cresciuto come una pianta velenosa un cinismo
che a tratti sfiora la caricatura - strappando
spiazzanti risate in sala -. Una coppia di genitori
insani che proiettano la malattia sulla figlia
(l'elemento più debole), in modo da nascondere le
proprie rispettive patologie, tenendo così insieme e
"legata" una famiglia che senza questa nefasta
proiezione si slaccerebbe all'istante. E Viola, la
sensibile ma determinata Viola, alla fine ed anche
un po' a sorpresa, fugge da questa prigione di
violenza e sopraffazione. Fugge, si emancipa; anzi,
si libera. Il tutto raccontato con grande
sottigliezza psicologica e senza pesantezze.
A ciò hanno contribuito, oltre alla regia e alla
sceneggiatura, attori e collaboratori artistici in
maniera determinante. Luigi Diberti interpreta il
padre Edoardo in maniera magnifica e dà a questo
padre spregevole tocchi che mi hanno ricordato il
terribile padre dei fratelli Karamazov, Fjòdor
Pàvlovic, desideroso di carpire la simpatia altrui
nascondendo in realtà un'anima cattiva e mefitica;
all'atmosfera di Dostoevskij mi hanno portato anche
quelle sue "assenze" epilettiche o paraepilettiche
come in Smerdjàkov (il figlio concepito con una
serva) nelle quali lo scrittore russo rintracciava
una delle possibili origini del male. Qui a Viola,
per fortuna, basta la fuga, la liberazione senza
ricorrere al parricidio. Maddalena Crippa disegna
una madre così gelida che più gelida non si può, in
flagrante contrasto con quel suo vestito rosso
fuoco; e lo fa con un sarcasmo ed un'asciuttezza che
non hanno eguali. Ivan Franeck dona al suo
psichiatra un'instabilità tanto affascinante quanto
inquietante; una fragilità che quasi si respira
nello sguardo più bruciantemente d'ebano che mi sia
mai capitato di incontrare nelle mie visioni
filmiche. Alba Rohrwacher è bravissima nel
tratteggiare con una naturalezza assoluta "la
prigioniera" di due genitori anaffettivi e
straordinariamente egoisti. Bravissima ad esprimere
con tutto il corpo, con i movimenti, con le ferite,
un'infelicità e una sofferenza entrambe altissime. E
lo fa con una disinvoltura e una delicatezza che
stupiscono e conquistano.
La ricerca formale e la sensibilità pittorica, così
inconsuete in un film italiano (Guadagnino a parte),
si mostrano attraverso la fotografia semplicemente
meravigliosa di Giovanni Battista Marras; una
fotografia ora calda, ora onirica, ora visionaria
ben coadiuvata da una scenografia di grande e
sottile eleganza. Splendida, visivamente, la
cameretta di Viola; una cameretta che rimarrà
impressa a lungo nella mia memoria. E una certa,
voluta freddezza nel modo di girare è in contrasto
con i colori accesi degli interni, i tendaggi rossi,
inattese colorazioni viola che descrivono un mondo
netto, manicheo, irrealistico. Mentre durante la
fuga in macchina i colori assumono un tono
naturalistico, quotidiano, per non dire ordinario, a
sottolineare una salutare entrata nella realtà.
Efficace poi mi è parsa anche la musica di Terrinoni,
che si esprime con incisivi e suggestivi suoni di
chitarra.
Angeli dirige con mano sicura e scioglie una materia
narrativa non facile da sbrogliare, grazie anche
alla sceneggiatura firmata assieme a Gianni Cardillo.
La scommessa di ambientare l'intera storia in una
villa è stata audace eppur riuscita. Narrativamente
c'è qualche momento eccessivo e non del tutto in
tono con la tonalità del racconto (con un
involontario sbocco comico che risulta stonato) e a
volte il desiderio di mostrare e dimostrare la
propria bravura, più che perdonabile e comprensibile
per un regista all'esordio; ma questi sono dettagli
che non inficiano la riuscita del film. Quando la
sua mano si muove leggera tra veli, ombre, porte
chiuse, fruscii di foglie si sente il tocco di un
regista di razza capace di sostanziare in maniera
convincente un mistero affine a certi quadri
vagamente minacciosi di Magritte e a certe scene
sprizzanti inquietudine di Linch. Con fiduciosa
pazienza, dunque, attendiamo l'opera seconda.
Postilla
Mi permetto di dire che il titolo "In carne e
ossa" non è azzeccato. Il fulcro del film non è
l'anoressia, che pur c'è ma solo come sintomo finale
di una sopraffazione famigliare che ha portato Viola
ad un'insidiosa depressione. E se "Il tuo
disprezzo", titolo originario, non è parso
abbastanza accattivante per qualcuno (promotion
oblige), quello con cui è stato sostituito è
incongruo e fuorviante.
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