|
|
Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Fiction di Giuseppe Costantino
Budetta, Memorie di
un cavaliere di Nicolò Maccapan,
Io sono cattivo
di Lorenzo Spurio,
Brigitta no di Lorenzo Spurio,
La verità del signor
Nolte di Mattia Tasso,
Il parroco di
Mattia Tasso
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, in lingua diversa
dall'italiano, purché rispettino i più
elementari principi morali e di decenza...
poesie di Lucia
Dragotescu,
Emanuela Ferrari
Recensioni
In questo numero:
- "Asini e filosofi" di Giuseppe Pulina, nota
di Massimo Acciai
- "La cura. Anche tu sei un essere speciale"
di Giuseppe Pulina, nota di Massimo Acciai
- "Le vele di Astrabat" (2a edizione) di
Antonio Messina, nota di Massimo Acciai
- "Perry Mason e il caso orologio sepolto" di
Erle Stanley Gardner, nota di Emanuela Ferrari
- "Sentire che stai male mi toglie il respiro…
perdutamente" di Alessandra Galdiero
- "Di esperanto in esperanto" di Giuseppe
Macrì
- "Dalla struttura alla poesia e dalla terza
alla quinta dimensione" di Nicola Mazzeo
- "Nascosta e lo Specchio" di Maria Carla
Trapani, recensione di Fortuna Della Porta
- "Coeva" di S.Capecchi, M.P.Carlucci, F.Corbi,
M.Verdini, recensione di Duccio Trombadori
- "Parcometri e dismissioni" di Paolo Ragni,
nota di Matteo Nicodemo
- "Poesie dei tempi di lotta" di Paolo Ragni
- "Interventi, saggi, recensioni" di Paolo
Ragni
- "Rapsodia su un solo tema - Colloqui con
Rafail Dvoinikov" di Claudio Morandini
- "Alice senza niente" di Pietro De Viola
- "Incidente em Antares" di Erico Verissimo,
recensione di Eugenio Lucotti
- "Iroca e l'ateo che inventò Dio Capitolo 1"
di Kylen Logan, nota di Massimo Acciai
- "Ostaggio del sesso" di Andrea Mucciolo,
nota di Massimo Acciai
- "Dolseur e altri racconti" di Giorgio
Michelangeli, nota di Enrico Pietrangeli
- "L'apostolo sciagurato" di Maddalena Lonati
Incontri nel giardino
autunnale
Interviste
Articoli
Letteratura per la Storia
|
|
Memorie di un cavaliere
Nicolò Maccapan
Introduzione:
Memorie di un cavaliere si vuole presentare come
racconto breve, la sua struttura trova forma in una
narrazione interna ed esterna, basando i dialoghi
dei personaggi come metodo descrittivo.
Il genere fiabesco del racconto pone come linea
fissa la descrizione della storia del protagonista
in maniera soggettiva, circondata da altri ''
piccoli racconti'' a narrazione esterna per il suo
approfondimento.
Lo schema canonico della fiaba, nel rispetto di
fabula e intreccio, una descrizione dettagliata,
l'approfondimento dei caratteri dei personaggi con
l'identificazione del protagonista, antagonista,
personaggi secondari, per arrivare al lieto fine, in
questo testo viene a modificarsi sotto una
sfaccettatura alternativa.
Memorie di un cavaliere narra le gesta di un giovane
principe, Nicolò, che durante la sua ascesa alla
nobiltà e alla fama, incontra diverse difficoltà sul
suo cammino, tra le quali: l'amore non sicuro della
sua futura sposa, il conflitto interiore tra nobiltà
e povertà, distinguendosi dagli altri nobili ma non
avvicinandosi al suo popolo, la scoperta che il suo
idolo, il re, non governa il regno con l'onore ma
con il denaro.
In questo racconto l'identificazione
dell'antagonista manca di fisicità; si sviluppa
parallelamente alla crescita interiore del
protagonista che, tramite l'utilizzo dello stile
fantasy, come metafora, troverà riscontro anche
nella vita contemporanea di tutti i giorni.
Il cavaliere incontrando i personaggi che si
porranno sul suo cammino si imbatterà in avvenimenti
benevoli e malevoli per il suo mondo, modificando la
sua personalità e la sua concezione di vita.
La narrazione di può definire di struttura
alternata, dando all'inizio dell'avvenimento la
spiegazione della scena tramite narratore esterno,
non dettagliata, vaga, aspettando la visione interna
del personaggio che con lo svilupparsi della storia
cambierà sempre più.
La volontà del racconto è quella di analizzare la
quotidianità della vita contemporanea, tramite la
favola, incontrando simbolismi semplici, posti come
fondamenta per la sua costruzione.
Il grande regno
C'era una volta, un antico regno prosperoso, ricco
di fama e tesori che stazionava esattamente al
centro del mondo conosciuto. Questo territorio
possedeva una fama eccezionale, in esso, erano
racchiusi i più grandi segreti dell'alta magia ed i
suoi abitanti si distinguevano in tutto il mondo
come i più valorosi ed orgogliosi di sempre.
Il nome di questo invidiabile regno era Cristina,
chiamato cosi in onore della prima regina che lo
governò, molto saggia, fu grazie a lei che queste
terre potevano vantare la loro fama.
Cristina, fu famosa per la sua grande capacità di
gestire ricchi e poveri alla pari e grazie alla sua
infinita bontà.
Le grandi terre di Cristina stazionavano esattamente
al centro del continente, circondata a nord ovest
dalle fredde terre selvagge, sconosciute, aride
spettrali,nelle quali nessun avventuriero osava
entrarvi, dove anche il coraggio dei più valorosi
cavalieri veniva a mancare difronte a miti e
leggende del posto.
A nord est si trovava il regno di Griffit, chiamato
cosi per le avventure di un prode principe che diede
prova del suo valore nelle sanguinose battaglie
contro il regno di Denise, una guerra tra le due
nazioni che si protraeva ormai da più di vent'anni.
In precedenza i territori di Griffit erano chiamati
''villaggi verdi'' a causa della loro struttura
espansiva; non possedeva una capitale ma una schiera
quasi infinita di cittadine autogestite da case
nobili. Fu proprio l'azione di Griffit, che con un
duello sconfisse il generale di Denise, e
risparmiandogli la vita, fece finire l'impura
guerra, riunificando il suo regno sotto la sua
effige.
I suoi abitanti però, abituati ad un regime
autarchico, incombevano in ire senza fine quando si
trovavano obbligati a trattare con il regno
Denisiano, unica nazione marinara del continente.
Quest'ultimo si affacciava sul grande mare per quasi
tutto il suo confine a sud.
Era un popolo di pescatori e contrabbandieri, alcuni
divennero persino pirati, causando drammi e rancori
a chi provasse ad inoltrarsi in mare.
L'ultimo regno conosciuto era quello di Alice. La
sua storia era molto simile a quella delle terre di
Cristina. Alice fu la prima regina e da essa quelle
terre presero il suo nome.
Prosperava grazie ad una ferrea agricoltura. In
queste lande nascevano frutti rari, sconosciuti dal
resto del mondo, dando al regno la possibilità di
prosperosi commerci.
La leggenda narra che Alice, la prima regina, fosse
una strega invidiabile e che questi frutti fossero
stati da lei appositamente creati per salvaguardare
e dare vanto alle sue terre.
La storia che ora sto per raccontarvi appartiene al
primo regno da me nominato.
Più che una storia è un avventura, L'avventura di un
giovane cavaliere che scoprì di avere molto
coraggio, forse troppo, e che otteneva questo non
dalla sua fredda ed affilata lama ma dal suo amore.
Il suo nome era Nicolò terzo. Apparteneva alla casa
nobile del ducato degli Zù.
Il padre di questo cavaliere, un uomo robusto dalla
forma erculea che aveva sofferto molto nella vita,
guadagnandosi dal nulla il titolo del suo nome,
aveva grande importanza tra le caste nobili e poteva
dare la sua opinione anche presso le congreghe reali
che si tenevano ogni anno a capodanno.
La madre di Nicolò non gli fu mai presentata,
parlarne col severo padre non trovava alcun profitto
ed egli si rassegnò all'idea che qualcuno fu sua
madre ma che a lui non rimaneva che la sua assenza.
Nicolò ricevette fin da quando fu nuovo un
educazione esemplare, era di bell'aspetto, dal
fisico prestante .Il galateo del cavaliere non gli
mancava e trovava grande gioia nello studiare ed
acculturarsi tra gli scritti della sua terra.
L'atteggiamento che teneva con i suoi conterranei
era nobile, ma non solo con persone di elevato rango
sanguigno, dai contadini ai guerrieri trattava tutti
nello stesso modo, consapevole della fortuna che
aveva per essere nato in quella casata e consapevole
della fatica che attanagliava il suo popolo per non
possedere nobili natali.
Le altre casate elette invidiavano la famiglia Zù e
i suoi vasti possedimenti.
Questi si trovavano nella prima zona montuosa, la
più ricca, colma di miniere. Vi si produceva in gran
misura legname e bronzo.
Di quei tempi però non era la ricchezza a causare
tanta invidia, erano le lodi che l'anziano re faceva
alla famiglia per essere alcuni dei suoi più fidati
servitori, a creare astio tra le casate.
A Nicolò la nobiltà non interessava molto, da circa
un anno pensava a quella cosa, solo a quella cosa...
Era da diverso tempo che i due giovani si
scrivevano, fin da quando erano fanciulli furono
legati dal destino in un futuro matrimonio, ed ora,
il concretizzarsi quel legame era alle porte.
Il suo nome era Roberta Andrea prima di Howl. Più di
cento lettere si mandarono prima di incontrarsi.
Roberta possedeva la fama di essere di una bellezza
unica, incantevole, elevando a rango divino ciò che
guardava passando attraverso il riflesso dei suoi
occhi.
Il nostro cavaliere si stava dirigendo al loro primo
incontro, agitato e fiero di inchinarsi difronte a
lei.
Si sa, le descrizioni fatte da altri di solito non
sono poi così attendibili.
Roberta, Roberta, conosciuta in tutto il regno per
la fama della sua bellezza... quel matrimonio
serviva ad intensificare i commerci e i domini delle
due casate... ma, al giovane cavaliere questo non
interessava. Con il valore del primogenito doveva
mostrare tutto il suo splendore di principe, forse
non abbastanza per la fama di lei, Roberta di Howl,
dai capelli dorati, dalla grazia regale, con i suoi
albeggianti occhi profondi come miniere, neri come
la notte, incantatori di bardi e musicisti.
Nicolò sentiva già il sentimento che portava dentro
ancor prima di vederla, la penna di Roberta era
fugace e nobile e dalle sue parole riusciva già ad
immaginare il suo sguardo, la sua voce e in sella al
suo compagno fidato partì per il ducato di Howl.
L'incontro
Ero li, il mio possente destriero divorava il
terreno da albero ad albero, ogni arbusto che si
infrangeva sotto i potenti zoccoli mormorava, allo
spezzarsi, al peso dello stallone sul morbido
terreno, galoppando come galoppava l'euforia in me,
sapendo, che di li a poco l'avrei vista, l'avrei
assaporata in tutta l'interezza e in tutta la
supremazia del dolore della sua mancanza.
Qualche falco esploratore si permetteva di volare
fino a qui, non aveva paura, io ne avevo. Sapevo che
difronte a me, difronte a quel castello attorniato
dal fossato, come me in quel momento, pieno di
pensieri, circondato ed estraniato da essi, come le
libere piume dei volatili che cadevano poco più in
la, si trovava una prova da superare, una sacra
missione che mi portava a spingermi senza coraggio,
lasciando una parte di me sul sentiero per la
conquista del mio amore.
Dentro di me si intonava un uggioso canto, saliva,
saliva, riecheggiava, continuava sempre più
intonato, sempre più forte, non si fermava, saliva
saliva ancora, fino ad esplodere, fino a sfinirmi.
L'ululato del vento sfiorava la catena del ponte
levatoio gettatosi a pochi passi da me, sormontando
il fossato.
Potevo entrare, potevo diventare prigioniero.
Con timidezza mi inoltrai tra le spesse mura del
castello, tra la folla che acclamava nobiltà ed
invidia, un frastuono mi colpì.
Li difronte a me, difronte a quella bella e nuova
prigionia che mi aveva sottratto il coraggio, che
veniva a mancarmi difronte a lei, troppo bella per
descriverla.
Ancora in sella al mio cavallo, così pensieroso, per
non dire agitato, colmo della mancanza della
tranquillità, colmo come i miei occhi che si
riempivano di lei, tra la folla, al suo centro, che
la elevava a rango di dea, che mi faceva notare
tutti i suoi lineamenti, riflessi dalla luce che
cadeva come masso sui suoi capelli dorati, che
riuscivano a rendere ridicole le mura, il giardino e
quel piacevole tugurio di persone che annuivano,
amavano, forse odiavano, ma tutti erano assieme,
assieme a lei, coesi nella sua intimità.
Scesi con prominenza e statuaria forma dalla
bardatura del mio fedele servitore, feci tre passi
innanzi a lei, forse erano troppi. La distanza
sembrava aumentare ad ogni battere di ciglia,
vedendo quel popolo protettore che la attorniava
farsi da parte, intimorito dalla mia scintillante
armatura che di li a poco, si inginocchiò difronte a
lei prendendole la mano.
La salutai con rispetto. Ero, ero agitato,
scioccato, era, era troppo bella non capivo,
pensavo.
Roberta mi fissava, io non riuscivo a guardarla.
Il pericolo della beatitudine del suo sguardo, dei
suoi occhi, di quegli occhi descritti da mio padre,
ispiratori del canto che dapprima si spingeva in
me... quel canto, stava rinascendo, era rinato, non
cedeva, non voleva essere colto di mortalità, non
potevo più sopportare di non intrecciare la sua
vista alla mia.
Ad un tratto la guardai, lei socchiuse gli occhi,
sorrise.
Non sapevo cosa dire, ero pietrificato, mai mi era
successo, nemmeno nei duelli più sanguinosi, nemmeno
difronte ad imponenti gruppi di felini inferociti.
Ero immobile ed ora? Ed ora? Non sapevo cosa fare il
panico riempiva me. Cercavo una rapida soluzione ma
non potevo trovarla, non potevo, non riuscivo,
urlai!
Urlai a squarciagola! Urlai difronte a quelle belle
persone che si attorniavano a me in cerchio,
rendendo mio quel momento unico, dopo tutti quel
tempo in cui la desiderai, in cui la ammirai,
L'idolatrai.
Dopo tutto quel tempo in cui fu mia!
Ascoltavo la mia voce, sibilosa, gracchiava,
emetteva tutto il fiato in un sol tragitto d'etere
che galoppava e si spezzava sul suo viso, accudito
dai suoi lineamenti estivi.
Come i ramoscelli che si spezzavano nel viaggio io
spezzai il silenzio e le gridai,
Ti amooo! Ti amooo!
E' singolare come dopo il grande tuono, incomba
cacciatore il silenzio. E' singolare come i suoi
occhi che si riempivano del mio coraggio.
Lei mi fissò, mi fissava, bofonchiava, il suo
respiro lieve ruggiva, scrutava dentro di me il
luogo, quel meandro antico che agli uomini è
sconosciuto, quella valle incantata da cui traevo il
mio amore.
Lei non lo trovò. Lei forse non trovava niente i
tutto questo, si avvicinò ancora, ancora, ancora...
Misterioso l'effetto dell'amore sulle persone, il
pensiero dell'uomo può presto rendere fugace la
ferocia dell'amore, ma in quel momento, al sentir
sul mio petto le sue adatte ed ossimore dita e la
contesa degli arti per avvinghiarsi a me, per
avvicinare il suo fiato al mio e nel sentimento più
grande, la paura, il pensiero, la concezione, la
ragione, la più grande emozione che bruciava in me
come il chiassoso brusio delle persone sotto il sole
ardente.
Per un attimo mi distolsi dal pensiero di lei, dal
bacio che riempiva le mie labbra di piacere, quel
bacio carico di timidezza che scalpitava e correva
con passione verso la mia più grande conquista, la
scoperta di essere diventato uomo.
Tutto il piccolo castello, la sua corte, le sue
torri di vedetta trovarono pace e tornarono alla
monotonia della quotidianità di tutti i giorni.
Dal fornaio al fabbro si iniziarono a sentire voci
sui due nobili, mano a mano che l'argomento trovava
piede tra le stradine della cittadina, tra i suoi
intricati sentieri , la storia andava via via
gonfiandosi, si parlava di amore, di matrimonio e di
come le due famiglie avrebbero conseguito
l'approccio dell'unione.
Tutti sapevano che i due, già fin dalla nascita
erano promessi sposi, ma entrambi i popoli sapevano
soprattutto che la voce di Roberta non era cosi
soave come poteva sembrare.
Quello che il capofamiglia della casata di Zù aveva
sempre nascosto al figlio riguardo alla sua futura
sposa, era che questa, come suo padre, come suo
nonno e come il susseguirsi dei suoi antenati, non
avevano alcuna capacità di parlare.
Nelle lettere che i due si mandarono con morbosità e
passione Roberta si era sempre estraniata dal
problema, eludendolo, non affrontandolo anche forse
per orgoglio della sua famiglia, nel timore che
Nicolò non la volesse più come sposa e si rifiutasse
di amarla.
La causa della mancanza di dialogo, il motivo della
triste diversità di quella futura famiglia, fu un
incantesimo, più che un incantesimo una stregoneria,
un sortilegio in parte maligno in parte protettore.
Roberto secondo, il trisavolo di Roberta Andrea
prima di Howl, fu una persona di spicco, contribuì
con Cristina alla formazione del più grande regno
conosciuto.
Fu il generale dell'esercito reale, la sua grande
fama, il suo successo e la sua grande schiera di
seguaci, lo facevano risaltare tra tutti gli altri
nobili.
Le sue più grandi gesta venivano ricordate tutt'ora.
Le grandi esplorazioni delle lande perdute o meglio
delle terre selvagge.
Fu in quel territorio arido, impervio, freddo e
senza nessuna possibilità di conforto se non il
canto dei suoi tenaci soldati, che riuscì a domare
un possente grifone, ponendolo al suo servizio.
Le leggende di quei territori erano e sono tutt'ora
spaventose, ma nulla fu più veritiero della
documentazione e dei reperti che quei prodi
guerrieri portarono a casa, dando prova del loro
coraggio,nel racconto di aver combattuto contro
mitiche fiere.
Domando quella creatura e le impervie difficoltà del
viaggio, Roberto allargò molto i confini del suo
regno.
Le sue grandi conquiste attirarono molto
l'attenzione della regina Cristina, nominandolo
primo nobile del regno.
La leggenda narra che in quanto a primo ministro
della nobiltà, anche se le sue origini non erano
delle più purpuree, si trasferì a palazzo reale con
sua moglie e i suoi tre figli.
Passarono dieci anni fino a che , la saggia regina,
scoprì che Roberto secondo non era interessato al
titolo nobiliare e alla prosperità che la sua casata
poteva ottenere, quanto invece si scoprì l'interesse
che aveva per lei, la grande saggia regina.
Una donna del genere, non poteva essere conquistata,
non poteva neanche essere guardata con occhi che non
fossero timidi ed impauriti.
Cristina aveva perso il marito nonché re, nella
grande guerra contro i pirati del mare del sud e si
era già rassegnata al fatto che da quel momento il
suo unico marito poteva essere solo il suo popolo.
Succube del matrimonio che stava fallendo, il
domatore di grifoni, un giorno, durante il consiglio
annuale dei nobili, la più alta tradizione del
regno, dove a capodanno il governante dispensa un
consiglio ad ogni casata, nell'unico momento in cui
lui poteva guardarla senza timore negli occhi e
poteva parlarle liberamente, ascoltò il suo amore,
prese coraggio e davanti ai più grandi nobili del
regno: il conte Shuff, il marchese Vincenzo, il
barone Enrico, il granduca Ivo di zù e tutti gli
altri nobili, persino difronte a sua moglie ed ai
suoi tre figli, si alzò in piedi davanti alla regina
e prese parola.
Quelle parole che sfociarono dalle sue labbra e che
vibravano nell'aria, non furono di consueta
burocrazia, parlavano del rispetto che lui aveva per
la regina, portandosi di li a poco verso l'amore che
lui provava per lei.
Cristina iraconda, molestata dalla bellezza e
dall'atrocità delle sue parole decise di punirlo,
togliendogli i titoli di merito, facendolo tornare a
nobile comune ed impartendogli una punizione
esemplare: per trenta generazioni lui compreso,
nessuna persona in cui scorresse il suo sangue
doveva più avere la possibilità di mettersi in
quella situazione di pericolo, il pericolo del suo
amore e con un sortilegio, studiato dallo stregone
di corte, Roberto terzo e la sua discendenza persero
la lingua e la possibilità di parlare per sempre.
Cristina lo fece per il rispetto che provava per lui
e per evitare una nuova possibilità di perdere tutto
per un amore incerto.
Ancora oggi si può sentire nei centri delle città
questa storia, qualche bardo non l'ha ancora
dimenticata.
La punizione per aver amato un altra donna ed
essersi dichiarato difronte a tutto il regno,
davanti a tutto ciò che lui era incaricato di
proteggere, mise disperazione nel nobile Roberto di
Howl.
La pena per amare l'essenza di ciò che si
rappresenta, la pena per amare troppo se stesso e
non voler sacrificarsi per preservare il suo amore
fu salatissima.
Da quel momento non poteva più esprimere emozione
con parola alcuna, non poteva più giurare, non era
più degno di essere un cavaliere.
In esilio su un colle distante ai confini delle sue
terre, ci fu l'ultimo ricordo noto di Roberto terzo
di Howl.
L'amore e il coraggio.
Impervio il grifone che domai
impervia la foga del suo dimenarsi
impervio il baglior del venir meno
della mia spada alla sua ala
inchinandolo, mostrandolo a me
come mio servo
Nel volar di ritorno a mura
alchemico pensiero non lungeva
domatore di grifoni
domatore di regine!
La bestia s' inchinava all'erculeo potere
la regina s' inchinava alla fredda armatura
la bestia succube del mio sguardo
la regina succube della mia lama
non più ammirerò
sottomission nei suoi occhi
non più sentirò
profumo di coraggio
mai più potei volar tra i suoi decori
mai più potei stimar la sua ferocia
nel far mio quel soffio sul lume
profondo dei suoi occhi
veder la bestia scomparir via
veder il regnar dal colle distante
e trenta generazioni dovrai aspettare
per poter cominciare ad amare
Il nostro cavaliere ripartì per le sue terre.
Aveva scoperto un grande segreto ed era scosso
dall'omissione ma rincuorato dall'amore.
Quel ti amo da lui proferito era ancora nell'aria,
non aveva avuto risposta, impossibile l'avesse ma
d'altronde, l'orgoglio di Nicolò pretendeva una
risposta.
Lui principe, nobile cavaliere si diresse verso
casa, pensieroso, cercando una nuova solitudine.
Un cuore puro
Ma cosa potevo fare? Il mio amore non era stato
ricambiato, sapevo che mi amava ma, ma....
Ti amo, donerei la mia armatura per poter sentire
anche solo una volta quella dolce frase, quel dolce
t'amo.
Guarda questa casa, sono un nobile, un principe,
tutti mi rispettano ma la storia, la storia è più
forte del futuro, come posso fare...
Sto soffrendo troppo, sto pensando troppo. Il sole
ormai è già calato e per tutto il suo calore ho
pensato a lei, ho pensato alla sua bellezza e a
quella maledizione accusata dai suoi antenati.
Le canzoni mentono sempre ma, se questa volta
fossero vere?
Se si cantasse la verità alla locanda? Trenta
generazione , trenta generazioni non potranno più
amare.
Lei mi ama , ma non può dirlo, forse è questo il mio
amore mancato.
Che fare? Il pulsare del mio cuore continuava
inevitabile a tenermi in piedi, a costringere la mia
volontà ad esistere, ad incatenarmi a questo vincolo
mortale che tanto, dopo mille, un milione, un
miliardo di battiti si sa, dovrà finire.
Ora consapevole mi sdraio sul mio giaciglio lurido
di profumi, intangibili, che come me in quel
momento, stavano svanendo.
Partire senza pensare.
Il vecchio re è morto per nave, nel coraggio e nella
determinazione del guerriero, del cavaliere.
Se anch'io potessi partire senza pensare.
Sdraiato mi scrutai, me non fui quella sera, me me
me , non fui più me.
Dalla fugace sinfonia veleggiavo, la piccola brezza
marina che entrava dalla muratura della finestra mi
aiutava ad estraniarmi, mi aiutava a fuggire come i
profumi mossi dall'aria che riempivano,
intorpidivano ed irrigidivano le bianche vele della
mia nave, quelle vele mi proteggevano,seppure gonfie
del dolore del viaggio. Quelle vele si
attorcigliavano a me, supino tra il loro calore.
Non trovavo mari difronte a me ma solo pensieri, li
dovevo scacciare per arrivare all'ambito mare, per
arrivare a quel luogo dove le parole non esistono
più, dove si può trovare solo il piacere di se
stessi.
Non riuscivo a dimenticarmi di essere vivo, non
riuscivo a dimenticarmi di vivere.
La nave era incagliata, le vele si stavano per
spezzare, il timone girava veloce come me sul
giaciglio coricandomi ed alzandomi, scoprendomi in
quel disastro che furono le mie preoccupazioni, i
miei incubi. Quell'amore era atroce di silenzio.
Gli occhi guardavano l'assoluto nero della stanza,
guardavano la maestosità dell'infinito che non
riuscivo a raggiungere, guardando le mie stesse
palpebre che non volevano chiudersi.
La stiva era sbarrata in me, ero pieno di piacere,
ero arrivato in quel punto dove si è obbligati a
dormire, ero arrivato a quel momento dove alla
deriva ci si spinge, dove, si abbandonano le vele
spezzate, dove l'istinto decide di morire, dove la
speranza si impossessa di te.
Quella lieve piccola verde speranza nella
possibilità di svegliarsi al mattino, senza gabbiani
ne conchiglie, solamente soli, abbandonati anche da
se stessi , dai propri problemi, dalle proprie
agonie.
La volontà della vita mi è venuta a mancare nel
dubbio del mio amore.
Il piacere del silenzio mi pervadeva, in quell'unico
istante di speranza, in quell'unico istante in cui
mi addormentai.
Sette giorni passarono, sette giorni di angusto
dolore. Nicolò terzo di Zù era costantemente
interpellato dal suo orgoglio, ogni rumore, ogni
parola, ogni persona che si posizionava difronte al
suo passare, faceva rinascere in lui il desiderio di
Roberta. Più questo nasceva e moriva, nasceva e
moriva, nasceva e moriva come mistica fenice, si
faceva vivo il pensiero di lei e del suo amore.
Con altrettanta costanza l'immortalità del suo
dubbio, il perchè del destino che con lui fu così
amaro. Stare all'interno di se stesso non aiutava il
giovane principe, nemmeno le serate i gala al suo
castello, nemmeno giullari e canzonieri potevano
trastullarlo con risa e parole, quelle parole che a
lui non interessavano, intrise nel pensiero di
Roberta.
Questo settimo giorno di lenta agonia lo scosse e lo
fece svegliare dal letargo della sua mente.
Decise di farsi aiutare e di chiedere informazioni
sulla causa dei suoi turbamenti.
Al mattino prese coraggio ed organizzò un incontro
con suo padre, forse lui, che l'aveva generato, al
quale era sempre mancata una compagna ed aveva
sofferto, poteva aiutarlo.
Alla sera , l'imperituro padre, concesse lui visita.
Entrato nel grande salone dal quale il duca gestiva
le sue terre e dal centro di tutto quello per cui
Nicolò era conosciuto chiese al padre: '' Ohh padre,
ti prego di concedermi un angolo di sole, per
gettare consiglio al tuo unico figlio, un consiglio
difficile, così da me stimato per la debolezza del
mio cuore e l'intenso mio dolore''.
A queste parole, Alessandro primo duca di Zù, con
prominenza, dalla statuaria seduta posizione si alzò
in piedi e rispose a suo figlio, osservando i suoi
occhi protetti dall'elmo dorato che illuminavano la
stanza lucidi di lacrime.
''So già quello che vuoi chiedermi figlio. Il nuovo
anno sta per nascere, tre giorni e il mondo si
rinnoverà ancora una volta. Trovo tempo per parlare
con te solamente al cospetto della tua sofferenza.
La mia carne ora si spinge in tutt'uno con i
preparativi dell'incontro reale, solo tre lune
mancano al consiglio tanto ambito, potrei chiedere
come ripopolare le bronzee miniere ormai estinte dal
nostro scavare, potrei chiedere come aiutare i campi
di Howl e abbeverare le loro terre per la prosperità
delle nostre famiglie, ma il mio unico erede e unico
figlio ha più sete d'amore di quanto il grano
d'acqua ed il tuo spirito va colmato più di quanto
ne avrebbero bisogno quelle cave.
Io ti donerò il consiglio reale ma bada, la sua
importanza e illuminante, non lo devi sciupare''.
Il figlio, guardava suo padre, nello splendore del
suo viso solcato dalle lacrime fino al mento e di li
a poco al caldo marmo della sala, si alzò
dall'inchinata posizione, lo salutò da cavaliere e
diede lui le spalle andando verso la porta.
''Figlio! Se ti chiedi come io sia a conoscenza del
dolore del sentimento del tuo cuore sappi che la
nobiltà è ricca di onore e segreti ma la verità
nasce in cuori puri. Tale purezza si trova solo nel
lavoro della propria essenza e nell'accettare di
essere vivi servitori e padroni del regno.
Se si lavora per se stessi si cade nell'egoismo. Se
si lavora per il regno si cade nella schiavitù.
Se ci si addolora per l'egoismo del regno e l'amore
ci distoglierà dall'idea di essere suoi schiavi,
nessun dubbio pulserà nello spirito ed allora potrai
incontrare un cuore puro.
Il ragazzo uscì sbaragliato dalle parole del padre.
Schiavitù, egoismo, un cuore puro. Quello non era
solo un insegnamento da padre, quello fu il
consiglio di Alessandro primo.
Il principe, montato in sella al suo destriero,
passando per le spoglie stalle, vide ad asciugare al
sole degli sporchi e rozzi vestiti da contadino e
mentre il cavallo rituonava sul terreno, i pensieri
di suo padre stavano via via facendo posto ad una
nuova idea, prese quegli stracci rubandoli e si
diresse a gran velocità verso il sobborgo contadino.
Doveva essere di ritorno tra due soli, al terzo
avrebbe seguito suo padre al consiglio reale,
quell'anno mai stato così suo.
Prima di uscire incaricò Elena, la sua fidata serva
e consigliera di mandare una lettera a Roberta,
dicendole che la amava e che le loro casate non
potranno che risplendere nel regno come risplendeva
il pensiero di lei fresco al mattino.
La informò anche che stava trovando una soluzione,
che era a pochi passi da essa, l'avrebbe trovata
complice del suo amore e della sua determinazione
La locanda
La musica del cantastorie rendeva confortevole la
locanda.
Una grande stanza bardata a destra e sinistra da
banconi a muro e sedie molto alte. Al centro c'era
una sala da ballo abbastanza piccola e usurata.
L'oste stava esattamente dietro al bancone dove dai
barili estraeva vini e luppoli fermentati.
La quantità di persone era veramente elevata, era
anche il compleanno di una ragazza che con le sue
amiche e con i suoi immancabili corteggiatori si
lanciavano in sfrenate danze, al passo di bengio del
musicista che dava ritmo a tutta quella follia.
Tutta la locanda, dalle travi del solario al
pavimento, ai barili del bancone, alle cornici dei
quadri, era di legno, un legno scadente che
scricchiolava quasi volesse parlare con insistenza.
Io mi ero seduto con il viso al muro ed un boccale
di vino in fondo a destra, vicino all'angolo delle
due pareti, coperto da dei vestiti scuri che mi
proteggevano dall'euforia della festa e delle danze.
A pochi metri da me il bardo suonava con insistenza,
faceva vibrare il vino del mio boccale, anzi, più
che vibrare lo faceva danzare. Era difficile
resistergli, la maggior parte delle persone non ci
riusciva e si dirigeva verso la sala da ballo.
Il mio cappuccio era profondo fino a contenere la
mia testa intera.
Come viandante non mi andava molto di farmi vedere o
che mi si facessero domande.
Mentre le tre ragazze ed i due ragazzi che le
attorniavano iniziavano un ballo molto rumoroso
sbattendo i piedi al suolo, tra grande gioia,
euforia e schiamazzi, due bruti, poco più in la,
iniziarono a litigare, aiutati dal cattivo vino
proposto dal locandiere. Non erano grandi lottatori,
entrambi robusti, dai capelli bruni e da una fitta
barba incolta.
Io non ero di queste terre, nessuno fece caso ai due
che iniziarono a schiaffeggiarsi, fino a che l'oste,
uomo imponente dal ventre degno di un re, li portò
all'esterno.
La musica era molto bella, non aveva note nobili ma
quella popolarità che ad ogni accordo si faceva
sentire... non resistetti, mi girai e iniziai a
guardare la pista da ballo.
Fui subito colpito dalla bellezza della terra di
quel luogo. I campi di grano erano nel periodo
giusto, dal giallo dorato possedevano sfumature
rosso magenta, il legno delle case o meglio dei
ruderi dove queste persone abitavano, era di quel
colore marrone che sfumava al verde. Le colline di
quelle lande, che prima accarezzavo al trotto del
mio stanco cavallo, non erano molto avventurose ma
gioivano della loro scarsa vegetazione. Tutto questo
lo vedevo osservando la ragazza innanzi a me, era la
sua festa, era stupenda, bellissima.
Come potevo non parlarle? Anzi come potevo farlo?
Nemmeno un istante, nemmeno un sospiro passava senza
che essa si stesse divertendo. I suoi occhietti
lucidi mostravano che aveva bevuto in questa
locanda, e forse, che aveva bevuto un po troppo, ma
in fondo, era la sua festa.
Con stupore notai che il bardo mi stava guardando,
che voleva? Era forse indignato perchè non mi
gettavo tra le braccia della sua musica? Lo guardai
con sfida, decisi di non andare oltre, mi diressi
dall'oste e pagando tre argenti mi impossessai di
due grandi boccali scadenti ma dal costo non
altrettanto bilanciato.
Volevo offrire un bicchiere alla ragazza, aspettavo
il momento giusto. Stavo nascosto tra i miei vestiti
sudici rubati.
Chissà se ero degno perfino di parlare con il più
rozzo contadino, io, che con il mio sudore non mi
sono guadagnato nemmeno un mulo.
Il canzoniere capì le mie intenzioni, fece scendere
la musica fino a fermarla. Un po di tregua per quei
ballerini così scoordinati. Fissavo la ragazza con i
miei occhi azzurro splendenti. Ero molto più bello e
rigoglioso di tutti i qui presenti ma ugualmente non
ero degno di unirmi a loro.
Incrociai lo sguardo della ragazza, sgranò gli occhi
, mi sorrise, si girò impaurita dalla mia bellezza
in veste sudicia.
E' magnifico come il vero possessore di quel momento
non fui io e nemmeno la fanciulla ma fosse la
persona che al muovere delle dita dava gioia
all'intero luogo.
Il musicista mi fece cenno di andare, era il mio
momento, non potevo farmelo sfuggire. Mi alzai,
lasciando l'acquisto sul bancone murato,
incastrandolo nella sua cornice e andai da lei.
Non ero troppo agitato, ero abituato ad emozioni ben
maggiori, pensavo invece quanto si potesse
imbarazzare lei alla mia domanda.
Parlava gioiosa con una sua amica. Le toccai una
spalla affettuosamente, lei si girò di scatto
fissandomi, le sue magre guance divennero rosse come
i suoi capelli vissuti, gioiva nell'attendere che le
dicessi qualcosa.
La sua corporatura esile, solcata dal lavoro, si
diresse verso la mia, impervia, un duplice movimento
nell'unione delle mie mani alle sue.
''Sei splendida ragazza, qual'è il tuo nome?''
''Marta''
'' Marta le tue mani sono rovinate, non dovresti
lavorare, una ragazza come te dovrebbe solo esibirsi
e rincuorare i coraggiosi con la sua bellezza''.
Lei sorrise ancor di più, quasi a diventare
ridicola, il rossore cosparse tutto il suo viso.
Le strinsi la mano più forte.
''Marta, io non sono un uomo di grandi virtù,
nemmeno di grande coraggio ma sono stregato dalla
tua bellezza candida, maestra che i più bei gioielli
non si trovano solo nelle case nobili o nei letti
dei fiumi e ti prego di smetterla di luccicare tra
questa folla, altrimenti il mio cuore potrebbe avere
una mancanza e non me lo perdonerei mai, se questo
accadesse, prima di chiederti il prossimo ballo."
Esattamente in quel momento, in quell'istante, in
quella sillaba, in quel lo, iniziò una lenta
canzone.
Roberta era il suo nome
questa è la canzone
per narrar la sua vicenda
con cotanta ammirazione
La musica iniziò, la strinsi a me e con lieve
sobrietà iniziammo a danzare, guadagnandomi il
rispetto di molte e l'odio di molti.
Ancor la notte dorme
nella terra padrona
nell'esilio dell'amor
del cavalier splendente al sol
Tutto era dolcissimo, la sua testa si appoggiò al
mio petto robusto, con una mano stringevo la sua,
con l'altra governavo il suo bacino roteando nella
danza.
Coraggioso più del dragone
indomito più della ragione
balzar lui dolce a mura
presentando l'atroce tortura
''Marta, sai che io finito questo ballo ti bacerò e
non potrò più farne a meno, forse per tutta la mia
esistenza''
Sanguisuga di rimedio
trovò fine lì quel tedio
veder il sorriso struggente
del ciel possente
azzurro del sangue della casata
d'amor confession inebriata
Alla terza piroetta capii che le mie parole erano
ancora in lei, che mi guardava con aria spaventata.
Tramontò via il cavaliere
l'aria ricca di piacere
iniziarono a cantar le carovane
del viaggiar nel suo novo natale
''Non guardarmi cosi Marta, non sono io a decidere
del mio sentimento e stringerti a me è come
stringere un intera montagna, con la sola differenza
che tu sei già franata su di me, rendendomi servo
del tuo peso''
Una sola parola li mancò!
lo sguardo di Roberta si mostrò
dalla torre li scrutava
mancanza di criniera che brillava
ogni dì fu triste di proferire
quel gemito che lei non seppe dire
Amore! amore mio!
Triste la malinconia
amor senza saper
il ricambio del ruscello
fremente fu il torrente
le lacrime sul suo viso
d'armatura travestito
d'incarico lodato
senza esser amato
nel momento più elevato della canzone,nel momento
più emotivo, lei mi baciò, tenne gli occhi aperti,
ridevano, nel guardare il rossore del suo viso
protrarsi con velocità al mio.
Durò molto quel bacio, tra urla ed applausi dei suoi
compagni e di chi ci osservava.
La portai al tavolo e le porsi la bevanda che le
spettava...
La fanciulla, intorpidita dal brindisi e dal focoso
bacio che l'aveva preceduto iniziò a fare delle
domande al misterioso viandante.
''Posso sapere il suo nome misterioso viandante? O
chiedo troppo? Vuole forse che rimanga velato per
qualche motivo o imbarazzo?''.
''Cara Marta non mi posso imbarazzare più del tuo
guardarmi, ma il mio nome non te lo posso proprio
dire, ne andrebbe della mia vita!''.
'' Non è molto appagante sentirsi dire così, dai
tuoi abiti sembra che tu ti voglia nascondere, sei
forse ricercato? Se la tua identità e così segreta
non ti interpellerò più su questo ma chiariscimi le
tue intenzioni''.
''Le mie intenzioni? Era quella di baciarti e di
farti mia, ma aimè Marta, la tua perspicacia è
regale, bensì il mio viso per te è stato un dono e
deve rimanere tale solo a te, altrimenti la mia fama
potrebbe colpirmi e non sarebbe positivo nemmeno per
te che mi stai parlando.
Sono una di quelle persone che dalla nascita hanno
ricevuto un dono, che possiedono senza fare fatica,
sono una di quelle persone che lottano ogni giorno
con il proprio onore''.
Del baccano proveniva dalle quattro persone vicino
all'oste dietro al bancone, avevano delle tele in
mano, le confrontavano, guardavano il viandante e
Marta parlare. L'incappucciato uomo se ne accorse.
''Ora devo andare mia cara fanciulla. Grazie di
essere stata mia ''.
L'uomo strinse tra le sue spalle il mantello,
avvolgendolo a lui e andò veloce verso la porta,
passando tra la musica che poco prima l'aveva
aiutato
''Aspetta! Non andare, voglio essere tua misterioso
avventuriero!''
Con cotanta foga la giovane Marta urlò, creando il
silenzio nella maggior parte delle conversazioni
della locanda.
Uno dei quattro uomini vicino al venditore, accanto
al bancone iniziò ad urlare:'' si fermi lei si
faccia riconoscere!."
L'uomo iniziò a correre, si rese fugace tra le folla
svanendo dalla porta d'entrata.
I quattro al suo inseguimento portavano uno stemma
sul mantello, erano guardie del territorio di Zù.
Mentre si potevano già sentire gli zoccoli del
destriero del fuggitivo andarsene veloci nella
notte, in quel momento, mentre i protettori dei
confini furono quasi alla porta, una sgargiante
armatura li interruppe, facendoli inchinare ad essa
ed al suo elmo dorato.
Sembrava un angelo caduto tra gli inferi.
Tutta la locanda fremeva di elogi e di inchini
difronte al loro principe, il quale via via sempre
più imbarazzato dalla sua fama fece segno a tutti di
stare tranquilli.
''Ohh nostro cavaliere, Nicolò terzo, cosa la porta
al sobborgo contadino?''
La domanda non ebbe risposta.
Nicolò replicò con un altro quesito.
''Chi era quella persona che scappava a gran
velocità da qui?''
'' Era il fantomatico Federico signore, il ladro di
gioielli."
A questo punto il cavaliere si fece da parte, i suoi
uomini si lanciarono all'inseguimento del bandito
nella notte.
''Signori, chiedo umilmente se questa taverna ha una
stanza che sia più comoda di questi stracci che ho
trovato sulla mia via."
L'oste lo fece subito accomodare, Marta, guardando
gli abiti che Nicolò portava tra le mani, molto
simili a quelli posseduti dal ladro rattristò,
vedendo il suo principe disprezzare ciò che aveva
appena amato.
|
|
|