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Attualità
'nterra 'a rena
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In questo finale di estate 2011,
l'atmosfera in città di fa ancora più rovente grazie
a Peppe Barra. Il noto e bravo artista napoletano
lamenta una scarsa attenzione delle istituzioni
comunali e regionali, al suo progetto di
realizzazione dell'opera di Andrea Perucci, alias
Casimiro Ruggiero Ugone, "La cantata dei pastori".
Peppe Barra denuncia una disparità di trattamento
tra lui ed altri artisti. Infatti, l'attore e
cantante partenopeo si chiede come mai a Massimo
Ranieri si concedono 200 mila euro mentre a lui, che
ne chiede molti dimeno, si sbatte la porta in
faccia. Da Giffoni Valle Piana, dove Peppe Barra è
ospite della quattordicesima edizione di "Giffoni
Teatro". Peppe afferma: "Di questo passo credo che
non mi esibirò mai più a Napoli, se tutto resta così
com'è oggi, non reciterò mai più nella mia città, ma
lo farò altrove, magari verrò più spesso a Giffoni
Valle Piana". Prontissima la risposta dell'assessore
alla cultura del comune di Napoli, Antonella Di
Nocera: Per quando ci riguarda tutti i grandi
artisti napoletani sono una risorsa della città,
un'Amministrazione come la nostra non usa parole del
genere contro chi porta nel mondo Napoli in maniera
positiva. Nella discussione entra anche il deputato
Marcello Di Caterina (PDL): "Mi impegnerò a
percorrere tutte le strade possibili affinché anche
quest'anno Peppe Barra possa portare in scena la
"Cantata dei pastori", un'Opera che fa parte della
nostra tradizione ed è giusto che non sparisca". C'è
ben da sperare che Peppe Barra non verrà deluso. I
Quando nel 1899 il prefetto di Napoli, il conte
Cadronchi, proibì le rappresentazioni natalizie
della - Cantata dei Pastori -, si temette veramente
la fine di una tradizione che durava da più di 200
anni. Fortuna volle, però, che dopo poco tempo,
revocata la disposizione, la tradizione ritornò in
auge e ripresero le ataviche lotte tra Belfagor,
l'arcangelo Gabriele, Giuseppe e Maria. "La cantata
dei pastori " o, " Il vero lume tra le tenebre" o "
La nascita del verbo umanato" fu scritta nel 1698
dal commediografo siciliano Andrea Perucci, con lo
pseudonimo di dottor Casimiro Ruggiero Ugone ed
appena un anno dopo, nel 1699, fu rappresentata per
la prima volta. Andrea Perucci nacque a Palermo il
primo giugno del 1651, ma dopo poco tempo si
trasferì a Napoli. Quivi giunto si dedicò allo
studio delle lettere e del diritto, per poi divenire
un apprezzato commediografo. Iniziò questa sua
attività per il teatro di san Bartolomeo che dal
1678 gli diede l'incarico di tradurre ed adattare,
nonché di curare la messa in scena di un nutrito
numero di opere francesi, adattandole ai costumi ed
ai gusti del popolo napoletano. Egli scrisse
numerosi drammi e compose bellissimi versi, sia in
latino che in lingua. Morì a Napoli il 6 maggio del
1704. Quando Andrea Perucci scrisse - Il verbo
umanato -, non poteva presupporre che la sua opera
diventasse quasi immortale e che venisse
rappresentata da un imprecisato numero di compagnie
e in tantissimi teatri, né che sarebbe stata
sottoposta a mille manipolazioni, come, in effetti,
avvenne, per circa 200 anni. Infatti, per più di due
secoli e fino all'ultima guerra, il Natale, nella
città di Napoli, non si preannunciava con luminarie
o festoni, o col suono delle zampogne. Niente di
tutto questo. Il Natale lo si leggeva sui muri della
città ed in particolar modo, sui cartelloni che la
tipografia di Salvatore Golia faceva apporre per
tutta la città di Napoli, e che preannunciavano, per
la sera del 24 dicembre, la rappresentazione della
"Cantata dei Pastori". Tutti i teatri di Napoli,
alla Vigilia sospendevano le rappresentazioni per
mettere in scena La Cantata. Per lo più erano
compagnie filodrammatiche a rappresentare l'opera,
ma non mancò l'apporto di valenti professionisti che
si cimentarono e tra gli altri, ci fa piacere
ricordare Federico Stella, Michele Bozzo e anche
Giuseppe De Martino. Tra i tanti filodrammatici ad
esibirsi nella - Cantata -, la parte del leone la
fece uno scaricante portuale, che fin dal 1880, per
queste rappresentazioni natalizie, veniva ingaggiato
dalla compagnia di Luigi Menzione per vestire i
panni di Uriel ed in seguito quelli del burbero e
maligno, ma sfortunato, Belfagor, al teatro San
Ferdinando. Questo modest'uomo, dalle mani callose e
dalla schiena avvezza al trasporto di pesanti
fardelli, rispondeva al nome di Antonio Dei Cangiani,
secondo quanto afferma Aniello Costagliola, mentre a
detta di Vittorio Viviani si chiamava Antonio De
Pasquale detto 'Ntuono d''e Cangiane. Sia egli
Antonio Dei cangiani o De Pasquale, resta il fatto
che la sua interpretazione di Belfagor, con le sue
capriole, i suoi salti, il suo continuo osteggiare
la Nascita, ed i tiri mancini ch'egli giocava al
diafano Arcangelo Gabriele, mandava letteralmente in
visibilio il pubblico del teatro di Pontenuovo.
Finito il Natale, 'Ntuono d''e Cangiane faceva
ritorno al suo lavoro di scaricante, con tanta
nostalgia e rassegnazione, ma con la consolazione
che gli dava la certezza,che di lì ad un anno,
sarebbe ritornato a vestire i panni del demoniaco ed
astuto Belfagor nel teatro San Ferdinando. Lo sforzo
che gli attori profondevano in queste
rappresentazioni era veramente enorme; basti pensare
che se ne facevano due: una a mezzanotte ed un'altra
alle quattro del mattino. Il pubblico, ed in modo
particolare quello del San Ferdinando, caldo e
passionale, partecipava in prima persona agli eventi
scenici, parteggiando ora per l'uno, ora per
l'altro; la rappresentazione assumeva, talvolta,
toni talmente verosimili, da far sussultare il
pubblico, fino a coinvolgerlo del tutto. Non era
raro, infatti, che qualche spettatore, infervorato
dall'accavallarsi degli avvenimenti, si premurava di
avvertire l'attore (si badi bene, l'attore e non il
personaggio) di quello che stava per accadere, come
se questi ne fosse all'oscuro. Dal loggione o dalla
platea si levavano grida come:
<< Statte accorto ca Gabriele mò te fa fesso >> ,
oppure: << Fa ampressa ca sta venenno quaccheduno
>>. All'inizio della rappresentazione, sembrava
proprio che il pubblico tenesse in simpatia il
povero Belfagor, che tanto si affannava per evitare
che il Gesù Bambino venisse al mondo, ma che,
puntualmente, tutte le sue trovate o tutti i
tentativi per evitare l'avvenimento, venivano
annullati dal tenero Gabriele, che discendeva dal
cielo ( nel nostro caso, discendeva dall'alto,
legato ad una fune). In realtà, ciò era vero, al
pubblico non piaceva che l'arcangelo Gabriele fosse
sempre pronto, lì dietro le ...quinte, a rompere le
uova nel paniere a quel povero ...diavolo di
Belfagor. Ma, non appena in scena facevano la loro
apparizione Giuseppe e Maria, l'atteggiamento dello
spettatore cambiava radicalmente e si schierava al
loro fianco, contro il tremendo Belfagor, fino al
giorno della disfatta e della nascita del Gesù.
Altro personaggio molto caratteristico, é quello di
un uomo proveniente da : "... 'na Cetate, ch'a lo
munno no c'é cosa cchiù bella ... Io songo de
Palepole che mò se chiamma Napole." Il suo nome é
Razzullo, ufficiale del censimento alla ricerca di
un nuovo impiego, essendo quello occupato, poco
remunerativo. Col passare degli anni, << La cantata
dei pastori >>, venne più volte manipolata,
cambiarono molte scene e fu anche inserito un nuovo
personaggio. Quest'ultimo arrivato, corrisponde al
nome di Sarchiapone, barbiere napoletano emigrato in
Galilea per sfuggire alla giusta punizione
inflittagli per aver commesso, in quel di Napoli, un
efferato omicidio. L'opera, la cui vicenda ricca
d'intrecci si avvale di un susseguirsi di colpi di
scena, si compone di un prologo e tre atti, con nove
personaggi, quattro diavoli ed un coro di angeli. I
personaggi sono: Maria Vergine, Giuseppe suo sposo,
l'Arcangelo Gabriele ed il suo rivale, il diavolo
Belfagor, un pastore di nome Armenzio, ed i suoi
figlioli Cidonio e Benino, un gentile pescatore di
nome Ruscelio, il vagabondo napoletano Razzullo ed
il barbiere Sarchiapone. Il prologo si svolge tra i
diavoli Plutone, Asmodeo, Astarotte, Belfagor e
Belzebù, che discutono dell' approssimarsi
dell'evento che va annunciandosi e cioè la nascita
del Redentore. E' Plutone il più esagitato, egli non
riesce a trovare una ragione per la quale, avendo
commesso un solo peccato e per di più di pensiero,
debba essere condannato in eterno alla sofferenza,
mentre gli umani, notoriamente peccatori, vengano
aiutati al punto che, Iddio manda loro il proprio
Figliuolo per redimerli. Decidono, così, i
diavolacci d'impedire in tutti i modi l'avvento del
figlio di Dio sulla Terra. Apre il primo atto il
buon pastore Armenzio che, destando il figliolo
Benino, viene da questi a conoscenza di un sogno,
per grandi linee simile al suo, il cui argomento é
quello della nascita del Signore. A questo punto fa
il suo ingresso in scena il napoletano Razzullo,
ammalato di appetito cronico ed acuto, perseguitato
dall'avversa sorte, e quelle poche volte che, la dea
bendata sembra baciarlo, tutto svanisce in un
attimo. Ecco come tutto traspare dalle sue parole:
O fortuna mardetta, Me manna pé disgrazia le
fortune, e nun sapenne addò me spartere, Aggio
perduto la caccia e la pesca: Cosa nun pozzo fa, che
mme riesca.
Dopo l'apparir di Giuseppe e Maria, che stanchi
s'addormentano, c'é il primo tentativo di Belfagor
di ucciderli nel sonno; ma l'Arcangelo Gabriele
glielo impedisce, mettendolo in fuga gambe in
spalla. Indomiti, Belfagor e la sua schiera di
diavoli si trasformano in masnadieri, vagando per il
bosco con lo scopo di portare a termine il loro
turpe incarico. E' il povero Razzullo a pagarne le
spese per primo, infatti, incontrandosi con questi
malefici, viene, da costoro, legato ad un albero.
Tale e tanta é la paura di Razzullo nel vedere
questi masnadieri, che sembrano: "...cuotte da llo
sole comme 'll'arenghe; Hanno li nase stuorte,
brognoluse; So de' puorco sarvateco li diente, Fanno
la scumma mmocca Juste comme 'a li verre 'Nzomma,
songo diavole sti perre." Razzullo deve la sua vita
a Giuseppe e Maria che, una volta andati via i
diavolilli, lo scorgono legato all'albero e lo
slegano, Razzullo di lì a poco se ne sdebiterà,
traghettando i due sulla sponda opposta del fiume,
sottraendoli alla trappola, loro tesa, da Belfagor.
Ma il tremendo Diavolo, per vendetta, fa capovolgere
la barca sulla quale Razzullo sta facendo ritorno.
Il secondo atto, inizia con Razzullo sempre alle
prese con la sua infinita ed insaziabile fame, egli,
dopo essersi cimentato nella pesca, ci riprova con
la caccia, ma il risultato é sempre uguale e cioè
rimane sempre a mani vuote, anche perché c'é lo
zampino del diavolo. Infatti, il tremendo Belfagor,
giunto alla grotta di Betlemme, vi ci mette a
guardia un drago, e la sorte vuole che sia proprio
Razzullo a vedersela con questo drago, mentre é
impegnato con Cidonio il cacciatore, in una battuta
di caccia. Risultato? Facile da immaginare: Razzullo
che scappa a gambe levate, e con la sua fame che
aumenta a dismisura. L'impietoso destino l'attende,
però, in un'osteria che egli trova sul suo cammino.
Il burbero oste, su insistenze di Razzullo e sulla
promessa di cedergli gli eventuali resti dei pasti
consumati dai viandanti, lo assume come inserviente,
e lo destina a turpi lavori che, suo malgrado, il
Nostro deve accettare. Ma, ahimè, il burbero altri
non é che il truce Belfagor, così camuffato per
sorprendere i due viandanti Giuseppe e Maria.
Difatti, di lì a poco, ecco comparire i due, che
chiedono a Razzullo la grazia di un giaciglio
notturno, onde riposar le stanche membra : "Fastidio
non daremo; basta il luogo più umile (purché stiamo
al coverto ) ed il più vile. " Al che, impietosito,
Razzullo: "Ccà bbicino nce stà na grotticella ch'é
futa futa nninto e potrisseve stare a llo copierto
". Nel contempo, però, li mette anche in guardia
dalla presenza di malefiche creature. Si sa, sono
l'amore e la fede che guidano i due viandanti, per
cui essi si avviano verso il misterioso antro.
Malasorte certa e subitanea per Razzullo il quale
deve subire l'ira di Belfagor che lo bastonerà.
Ancora una volta, provvidenziale e risolutivo, sarà
l'intervento dell'Arcangelo Gabriele, che provvederà
a sprofondare il malefico drago e a donare a
Giuseppe e Maria il giusto e meritato riposo. Il
terzo ed ultimo atto vede, ancora una volta e non
ancora domo, Belfagor ordire trame assassine, per
impedire che il - Vero Lume - faccia la sua comparsa
sulla terra. Il simpatico Razzullo, sempre alla
ricerca affannosa di cibarie di qualsiasi genere,
diventa pastore agli ordini di Armenzio, il quale
promette di sfamarlo. E Belfagor? Egli sotto le
mentite spoglie di satiro incontra Ruscelio, il
pescatore gentile, al quale promette un tesoro, a
suo dire nascosto in una grotta non molto lontana, a
patto però, di ricevere in cambio la sua anima e di
essere da lui adorato. Ruscelio, abbagliato
dall'improvvisa possibilità di arricchirsi, accetta
le condizioni del satiro Belfagor, al quale assicura
di portare seco un amico. Intanto, Razzullo, per
placare i morsi della fame, ruba del cibo al figlio
di Armenzio che, per vendicarsi, gli fa credere che
quel cibo é avvelenato. E' tale la suggestione, che
il nostro poveretto crede davvero di morire, ma
Armenzio gli svela la burla. Razzullo si lascia
convincere da Ruscelio e lo segue alla scoperta del
fantomatico tesoro. Ma resosi conto dell'alto prezzo
da pagare (la contropartita é l'uccisione di Maria e
Giuseppe), i due sventurati rinnegano il truce
Belfagor. Oramai l'evento si é compiuto, Gabriele
informa il servo di Plutone, Belfagor, che il figlio
di Dio é nato. Apocalisse finale con Belfagor che
sprofonda negli inferi, i pastori che portano doni
al Bambino, Mentre il nostro sfortunato Razzullo che
fa ritorno al suo paese, conclude col dire: "... a
lli paesani mieie che n'adorano cchiù statue 'e
creta che Sole, che Castrione, che Polluce se
l'OMBRA 'e ffà squaglià, nata é la LUCE."
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