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I problemi dell'Italia
post-unitaria
Gennaro Tedesco
All'indomani del 1861 lo Stato
italiano ha di fronte due problemi essenziali: il
risanamento
finanziario del bilancio dissestato dalle guerre
d'indipendenza condotte dal Piemonte di Cavour e la
creazione delle infrastrutture determinanti per lo
sviluppo capitalistico ed industriale del nuovo
Regno d'Italia.
Le forze borghesi protagoniste del Risorgimento
continuano ad impostare la conduzione del gioco
politico sulle basi di una emarginazione forzata dei
contadini soprattutto meridionali.
Il nascente Stato italiano ha tutte le
caratteristiche dello Stato burocratico accentrato e
censitario.
Esso non concede alcuna autonomia amministrativa,
tanto meno al Sud, il centro amministrativo e
politico rimanendo a Torino, è basato sul censo che
favorisce la borghesia imprenditoriale del
Nord,assente nelle regioni meridionali.
Dal Sud, dai contadini del Sud, l'unità d'Italia è
avvertita come un peggioramento delle loro
condizioni di sfruttamento già esistenti nel Regno
dei Borboni.
Il liberismo economico della Destra storica nel
quindicennio seguente l'unità d'Italia distrugge
l'economia meridionale di carattere domestico,
consentendo più che all'industria settentrionale, ai
prodotti dell'industria europea, di invadere e
conquistare il mercato meridionale.
Allo stesso tempo il piano di sviluppo delle
ferrovie fa si che cominci a svilupparsi anche
un'industria siderurgica nazionale settentrionale.
Inoltre le condizioni di arretratezza economica e
sociale del Sud vengono tragicamente accentuate
dalla mancata riforma agraria. I contadini del Sud
non solo vengono disillusi e traditi, prima da
Garibaldi e poi dai "Piemontesi" perché la riforma
agraria non è attuata, ma vengono anche
ulteriormente penalizzati da quelle aste pubbliche
in cui vengono messe all'incanto le proprietà
demaniali del vecchio Stato borbonico e quelle
ecclesiastiche: infatti, i contadini, non disponendo
dei capitali necessari all'acquisto di questi fondi,
non possono acquistarli, al contrario, ad
accaparrarseli, sono i soliti "galantuomini"
meridionali.
La vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici ai
"galantuomini" comporta conseguentemente anche
l'esclusione dall'uso civico di queste terre: il
contadino non può più usufruire del legnatico,
erbatico, ecc…
Un sempre più accentuato carico fiscale indiretto,
l'obbligatorietà della leva militare, l'esclusione
dall'uso civico delle terre demaniali ed
ecclesiastiche divenute proprietà private dei
"galantuomini",la mancata riforma agraria, la
scomparsa della così detta "economia domestica",
l'invasione dei prodotti industriali settentrionali
ed europei operata dalla politica liberistica della
Destra storica, la crisi agraria internazionale a
cui al Nord si risponde con riconversioni e
ristrutturazioni capitalistiche, mentre al Sud si
cerca di uscirne con una politica di rapina del
territorio, tutti questi fattori contribuiscono in
modo determinante a quella esplosione sociale
incendiaria più nota come
brigantaggio meridionale.
Al di là degli indubbi apporti militari e finanziari
del Vaticano e dei Borbonici in esilio, il fenomeno
del brigantaggio meridionale resta una guerra
sociale, una guerra
civile che ai "cafoni" dimostra sempre di più che
l'unità d'Italia è stata una Conquista piemontese
del Sud.
L'assunzione al potere della Sinistra in Italia si
colloca in una prospettiva di rigetto della politica
di restrizione finanziaria e di tassazione indiretta
esasperata. Le richieste degli elettori della
Sinistra sono rivolte a una maggiore
democratizzazione del giovane Stato unitario
italiano.
L'uomo della Sinistra, A. Depretis, dal 1876 in poi,
non inaugura una politica all'insegna di un reale
cambiamento delle strutture economiche fondamentali
(riforma agraria), al contrario, attua una politica
"trasformistica", cioè di allineamento agli
interessi della borghesia meridionale.
Ancora una volta la nascente borghesia
imprenditoriale del Nord sceglie come proprio
partner sociale i "galantuomini" del Sud. In cambio
dei mercati meridionali in cui riversare liberamente
i prodotti industriali del Nord, i "galantuomini"
ricevono sempre maggiori spazi all'interno
dell'amministrazione pubblica dello Stato italiano.
L'attività parlamentare subisce un notevole processo
di degradazione, di "trasformazione".
L'esecutivo, al fine di ottenere sempre maggiori
voti e consensi, concede favori a personalità e a
gruppi rappresentati in Parlamento: le distinzioni
tra Destra e Sinistra cominciano così a venir meno.
Ma se questo è il primo delineamento di quel blocco
storico tra borghesia imprenditoriale del Nord e
"galantuomini" meridionali, l'effettiva costituzione
di quel blocco di interessi che Gramsci chiama "agrario-industriale"
non è lontana.
Negli anni '80 del 1800 alle teorie liberiste in
economia si sovrappongono quelle protezionistiche
che traggono la loro forza di convinzione dai
risultati che esse ottengono nella Germania
bismarckiana. La via prussiana al capitalismo
comincia a far presa anche in Italia. Il modello
prussiano viene riproposto e imitato in Italia. Il
modello di sviluppo capitalistico-industriale
italiano viene indirizzato in senso dualistico. Il
blocco di interessi industriale del Nord ottiene
dall'esecutivo protezioni doganali che gli
consentono, con prezzi più alti e prodotti più
scadenti rispetto alla concorrenza estera, di
inondare il mercato nazionale, quindi anche quello
meridionale.
Gli agrari del Sud vengono compensati con tariffe
protettive dei loro interessi granari così che la
crisi granaria determinata dalla massiccia
importazione di grano americano viene meno. Chi paga
le conseguenze sociali di questo blocco storico
agrario-industriale è soprattutto il contadino
meridionale che compra i prodotti industriali del
Nord e il pane a caro prezzo.
Ma la via prussiana al capitalismo imitata in Italia
non si caratterizza solo per la costituzione di
unblocco sociale agrario-industriale che difende i
propri interessi economici, ma anche per il nuovo
corso politico che essa determina nel nostro Paese.
Gli agrari del Sud, ma soprattutto gli industriali
del Nord, trovano l'appoggio determinante del
re,della corte, dei militari che nel sistema di
potere bismarckiano hanno il loro punto di
riferimento politico. La politica di potenza e di
prestigio, il colonialismo, il rispetto delle
gerarchie sociali all'interno, i risultati economici
del militarismo industriale prussiano divengono i
miti politici esaltati ed idolatrati dalla nostra
classe dirigente che cerca di renderli operanti
anche nel nostro Paese.
La convergenza di interessi tra industriali del Nord
e i padroni dello Stato, il re e la corte e
i"signori della guerra", i militari, determina un
processo di sempre maggiore interdipendenza tra
commesse dello Stato che passano per le mani del
ministero della guerra, vale a dire alta burocrazia
ministeriale e dei militari e industria pesante
militare (costruzioni navali, siderurgia e
metallurgia militare).
Grazie al protezionismo doganale solo pochi gruppi
industriali e finanziari che subiscono
sempre più un processo di integrazione (oligopolio
finanziario-industriale dipendente dalle
commesse militari dello Stato burocratico,
censitario e accentrato nato dal Risorgimento)
dominano il mercato nazionale, se in questo caso è
ancora lecito parlare di mercato.
Il colonialismo, l'autoritarismo crispino
(rafforzamento dell'esecutivo e delle prerogative
del suo capo a scapito del Parlamento, restrizioni
alle libertà personali ecc…), l'inasprimento del
conflitto sociale in ossequio agli indirizzi sempre
più autoritari e liberticidi del re e della corte
sfociano nelle sollevazioni sociali del 1898: le
cannonate contro la folla affamata a Milano segnano
la fine del tentativo reazionario.
La borghesia imprenditoriale non legata agli
interessi protezionistici, alle spese militari e
alle avventure colonialiste rompe con Giolitti per
più di 10 anni il fronte agrario-industriale.
Il merito di G. Giolitti consiste nel comprendere
che il movimento socialista, nato dallo sviluppo
industriale del nostro Paese, non è più dominabile
con la forza della coercizione. Lo Stato liberale ha
bisogno dell'integrazione degli operai del Nord se
vuol proseguire il suo cammino. I primi anni del
1900 sono caratterizzati proprio dal tentativo
giolittiano di integrazione delle masse operaie del
Nord. La politica giolittiana consente all'Italia un
lungo periodo di pace interrotto solo dallo scoppio
della prima guerra mondiale. Sono anni di proficuo
lavoro. L'Italia gode di una notevole stabilità
finanziaria che consente un'ulteriore espansione
industriale.
Il tentativo integrazionistico , (gli operai a
sostegno dello Stato liberale) , che consente un
certo equilibrio sociale, anche se precario, al
Paese, fallisce nel momento in cui G. Giolitti
decide l'intervento armato in Libia nel1911: il
partito socialista si allontana definitivamente da
Giolitti e dallo Stato liberale.
Nel frattempo il mai sopito spirito reazionario
della nostra classe dirigente e di molta parte degli
industriali settentrionali e degli agrari
meridionali ritrova il proprio punto di riferimento
aggregativo nel nascente movimento nazionalistico
che dichiara guerra aperta a Giolitti e al suo
sistema di potere, quando lo statista piemontese
concede il suffragio universale.
E' comunque da notare che nel sistema liberale
giolittiano rimangono fondamentali il clientelismo e
il favoritismo meridionale,un notevole grado di
politica 'malavitosa' per il Sud e l'esclusione
storica, continuata ed aggravata,del ceto contadino
meridionale, esclusione che Giolitti condivide, a
scanso di equivoci, con lo stesso partito socialista
che non riesce a farsi carico dell'annosa, anzi
secolare, riforma agraria.
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