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La 63^ Mostra Biennale del Cinema si è conclusa sabato al Lido di Venezia, luogo sempre romantico, ma anche un po' esistenziale, che induce alla riflessione, tipico di un racconto di Tomas Mann. Ma quest'anno più che mai si chiude un'edizione speciale del Festival, che finalmente diventa internazionale nel senso non solo di partecipazione, data la sua identità, ma anche in quello sostanziale. Il messaggio di quest'anno non poteva rispecchiare l'esigenza di un'arte nuova, come quella cinematografica, filmica, di diventare arte di massa, ma di respiro culturale, di forte spirito critico e di grande rilevanza sociale. I premi predisposti alla Mostra sono stati, possiamo dire, bene onorati: dal Leone d'oro per il miglior film andato a Sanxia Haoren (Still Life) di Jia Zhangke al Leone d'argento assegnato per la migliore regia ad Alain Resnais con il film Private Fears in Public Placet; dal Leone d'argento Rivelazione attribuito a Emanuele Crialese autore di Nuovomondo - Golden Door, alla Coppa Volpi che è stata consegnata a Ben Affleck con Hollywoodland, e Helen Mirren con The Queen. Ma la particolarità di questa 63° edizione del festival di Venezia va ben oltre alla dimensione possiamo dire un po' celebrativa e un po' di ritualità che da qualche anno, soprattutto in pieno "revisionismo" artistico e "modernismo" fine a sé stesso degli anni 80, fatti di consumismo acritico e corruttibilità di alcune espressioni di rilievo artistico per lauti guadagni e profitti, ha contaminato la Biennale, rendendola priva di quella necessaria abilità maieutica di coltivare le nuove espressioni dell'arte audiovisiva. E tutto questo è da condirsi con un occhio alle nuove tecnologie, al perfezionamento delle immagini, alla capacità di comunicazione incisiva tipica delle fotografie, delle parole, dei suoni, delle musiche. L'occhio è ritornato come riflettore in questi spazi angusti, rendendo Venezia protagonista di una nuova era del cinema: il cinema del tempo, della realtà, non della fiction pura, ma di un'edizione di tipo documentaristico, possiamo dire anche immaginario, ma, sempre, nell'ascrizione possiamo dire "verisimile" del carattere del film e dell'opera. Le storie narrate diventano storie reali, soggettive, non preconfezionabili, non ideologizzabili, non astratte, ma di caratura scientifica, fortemente dissonante e denunciante il pensiero unico omologante, gli effetti contraddittori della contemporaneità attuale. Il cinema a Venezia 2006 è diventato cinema non asservibile e non strumentalizzabile, ma, bensì, assolutamente distonico rispetto alla conservazione dei costumi, del pensiero e del potere: è una voce senza patria, senza appartenenze, senza schematismi cristallizzanti: è un cinema di utopia, ma anche che mira a essere preponderante con la sua funzione di rottura, non secessionista nel senso pittorico del termine, ma dissacrante, non omologabile, ma egemonizzante, prevalente anche con la sua capacità, quasi come figlio degno del teatro vivente alla Peter Brook, provocatoria di incidere nelle sensazioni e nelle sensibilità dell'uditore, dell'utente, dello spettatore per rendere impermeabile quello che comunica con la forza del sentimento e dei sensi. Non è un cinema pedagogico, non ne vuole avere le intenzioni, sarebbe, come dire, alquanto pretenzioso e fortemente paternalistico, tale da snaturarne le prospettive nuove che a Venezia si sono delineate sull'orizzonte dello schermo. E', possiamo dire, un cinema fuori dal coro, modesto, reale, altamente indipendente nel senso sostanziale del termine, non nel senso storico del genere, alquanto liberale nei costumi, ovvero non didattico, né didascalico, ma chiaramente annunciatore di spaccati positivi della società contemporanea, con le sua contrapposizioni interne, che diventano globali nel senso positivo e negativo del termine. Non possiamo parlare, quindi, di cinema pretenzioso, ma di cinema voce libera fuori dal coro, perché getta un bastone nei rodaggi stereotipati della tradizione filmica informativa e di comunicazione omologata e omologante. La prospettiva rivoluzionaria della Venezia copernicana della 63° edizione sconvolge sia il mondo del mainstream, sia quello senza "patroni" di massa. Ed è questo che viene, poi, evidenziato nelle scelte della giuria, nel suo verdetto finale: da "Still life" dove si evince la storia reale delle condizioni socio economiche di un ragazzo minatore cinese, dove oltre a essere protagonista tutto tondo del film, diventa elemento che da una certa continuità all'oggettistica, e anche qui ritorna la dimensione oggettiva della narrazione, delle immagini, che è parte integrante del popolo cinese, intrisa di messaggi e di significanti remoti, di tradizione, di appartenenza, di affezione, di memoria. La censura in Cina, negli ultimi anni, è diventata più soft, ma traspare nelle scelte fatte dal potere nell'ostacolare la proposizione post produzione di ogni film che parli in libertà di contenuti critici nazionali. "Non si può certo tornare indietro - dice il regista, laureatosi all'Accademia del Cinema di Pechino - il cinema cinese ha bisogno di libertà. Se ci saranno delle difficoltà, comunque noi ci batteremo". E da questo si può evincere lo spirito di militanza intellettuale cinematografica dell'artista. La dimensione globale delle contraddizioni non romanzate dei nuovi film documentaristici, possiamo dire provenienti dalla tradizione del romanzo storico, basato sulla verisimilanza tipica della letteratura dell'Ottocento, nel periodo in cui il libro scritto stava diventando da opera d'arte elitaria a opera d'arte di massa, e anche educatrice, propedeutica nelle sue funzioni, si evince anche, come un lungo "fil rouge", negli altri fil, che qui citeremo, ma riservandoci in futuro un'analisi più approfondita. In Private fears in public places, tratto dall'omonima opera teatrale di Alan Ayckbourn, la memoria diventa protagonista molto presente del passato con conseguenze nel presente, dove la protagonista, che ricorda gli anni passati di un Brasile atterrito da una dittatura sanguinaria, ritorna, dopo alcuni anni passati in Francia, lontano dalla sofferenza liberticida, nel proprio Paese; ma in questa seconda parte alcune persone che incontra, esempio una prostituta, diventano elementi metaforici dove la dimensione intimistica della sofferenza per il marito perduto, ma con minimo di speranza di rincontrarlo, assurge da elemento valutativo di un tempo che scorre incessante e senza fine, propugnante trasformazioni e pericoli, in un'insanabile ricerca della propria identità. Può essere, invece, propedeutico tipico di una storia che diventa maestra di vita, il terzo film che esaminiamo in questo articolo sulla rivoluzione copernicana del cinema veneziano: "Nuonomondo - The Golden Door" di Crialese, in cui da spazio la storia internazionale delle conseguenze delle condizioni e della miseria del genere umano si tramuta in tempo: come nel passato anche nel presente i flussi migratori sono elementi strutturali di uno sviluppo iniquo. Non dimenticare i nostri emigranti in America, protagonisti di questo film, significa comprendere le motivazioni degli attuali flussi.
Si chiude Venezia, con una critica da farsi: nonostante il forte coraggio rinnovatore del direttore Muller, con la sua "scorrettezza partigiana" in alternativa al "political correct" del gotha illuminato dell'intellighenzia cinematografica, la politica istituzionale ha poco investito in energie, risorse sul festival, tanto da considerare poco produttiva e fruttuosa, anche se ancora sconosciuta nella sua valenza culturale, la parallela e quasi sovrapponibile edizione del Festival di Roma, che si terrà a fine settembre. Il tempo non si sa a chi potrà dare ragione e chi potrà premiare: a Venenzia, comunque, non è stata la spettacolarità delle stantie e ostentate passerelle modaiole della vita mondana dei protagonisti di primo piano di un cinema massivo e commerciale, ma è stata la voglia di riscatto di un'arte che sta per risorgere e assurgere a canale di comunicazione artistica globale.

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