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Recensioni di Massimo Acciai
WALL.E
Un film di Andrew Stanton. Animazione, durata 97
min. - USA 2008.
Finalmente un bel film, in questa stagione di
mediocrità; un film che riporta ad atmosfere
sognanti, romantiche (ma non sdolcinate), senza
spargimenti di sangue e cattivi sentimenti. Un film
che offre anche un umorismo intelligente, non
volgare. La storia d'amore tra robot fa sorridere ed
in alcuni punti anche commuovere. Troppo ottimistico
questo futuro di grassoni in crociera spaziale;
visti gli attuali tempi di crisi e l'ombra che getta
sugli anni a venire, il problema obesità non può
essere preso sul serio (tranne forse in America…).
Effetti speciali spettacolari, di ottimo livello.
Paesaggi apocalittici suggestivi. Bellissimo.
Quantum of Solace
Regia di Marc Forster con Daniel Craig, Olga
Kurylenko, Mathieu Amalric, Azione produzione USA,
Gran Bretagna, 2008. Durata 106 minuti circa.
Bond, dopo aver dato l'estremo saluto ad un amico
moribondo, ne getta il cadavere in un cassonetto dei
rifiuti. - Li tratti sempre così i tuoi amici? - gli
domanda la partner femminile di turno. - A lui non
sarebbe importato - risponde cinicamente. Ecco
l'agente segreto che tanta fortuna ha avuto al
cinema con le sue battute coatte e maschiliste, con
il suo savoir faire elegante e spietato. Nei film
precedenti almeno il cattivo di turno, che mirava
senza troppa originalità alla conquista del mondo,
stabiliva con certezza da che parte stessero i
buoni. Ora buoni e cattivi sono mescolati, come
nella vita reale, e il cinismo regna sovrano, così
come la noia. La trama infatti è banale e non
riscatta un film mediocre, così come gli effetti
speciali sotto tono rispetto ai precedenti film. La
saga appare decisamente in declino.
La mummia - la tomba dell'imperatore dragone
Un film di Rob Cohen. Con Brendan Fraser,
Michelle Yeoh, Jet Li, Maria Bello, John Hannah,
Luke Ford, Russell Wong, Liam Cunningham, Isabella
Leong. Genere Azione, colore 114 minuti. -
Produzione Germania, Canada, USA 2008. -
Distribuzione Universal Pictures
Ricco di effetti speciali e di situazioni
avvincenti, umoristiche, avventurose, il film non
delude mai. Certo, Indiana Jones era un'altra cosa,
ma anche i tempi erano diversi (e non parlo degli
anni in cui sono ambientate le due saghe); vale la
pena però gustarselo, anche per sgombrar la testa
per un paio d'orette dalle poco avvincenti
dis-avventure quotidiane…
The mist
Regia di Frank Darabont con Thomas Jane, Marcia
Gay Harden, Andre Braugher, Horror produzione USA,
2007. Durata 127 minuti circa.
Una volta potevi andare al cinema nei pomeriggi
feriali; pagavi meno e soprattutto nessuno ti
disturbava mentre ti immergevi nell'atmosfera del
film. Ora, per quanto il pubblico sia esiguo il
mercoledì sera, qualche rompiscatole c'è sempre. Più
di uno. Ed un pubblico che commenta un film horror è
come la classica unghia sulla lavagna. In questo
caso è però anche istruttivo, e più avanti dirò
perché.
Veniamo al film. Un brutto film, che non vale il
prezzo del biglietto e il tempo perso; l'impressione
iniziale è confermata in pieno dal finale, che uno
non si aspetta perché dà per scontato che ci sia il
lieto fine. Ma la sorpresa in questo caso non è un
punto a favore del film.
Il soggetto è tratto da un racconto di Stephen King;
un racconto lungo che conferma - e il film
riconferma - ciò che l'autore americano mette sempre
ben in evidenza: in mezzo a tanti mostri "fantasy",
il mostro peggiore è sempre l'essere umano. Peccato
tornarci continuamente sopra, King si ripete un po'
troppo. In questo caso il mostro è rappresentato da
una predicatrice pazza che, sventolando una bibbia
in mano e con voce stridula chiede sacrifici umani
per placare il suo dio da antico testamento;
all'inizio ci si chiede cosa aspettino a prenderla e
buttarla fuori dal supermercato assediato dalla
fauna aliena - un "sacrificio" che avrebbe anche un
senso - e quando infine si comincia a disperare (la
parte peggiore del film è rappresentata proprio
dalle sue prediche isteriche) un paio di pallottole
piazzate bene pone fine al supplizio dello
spettatore. A questo punto l'applauso del pubblico è
risuonato fragoroso e spontaneo; segno che c'è
ancora speranza?
Si scopre poi che il casino, tanto per cambiare, è
stato provocato dall'esercito che ha aperto una
"porta" verso un'altra dimensione, da cui sono
usciti i mostri. Se non ricordo male però, la
spiegazione nel racconto era un po' più
interessante: un intero pezzo di terra era finito su
un mondo alieno.
La parte finale, quando il protagonista si avventura
in macchina nella nebbia (quella del titolo: ma
perché ostinarsi ad usare gli orrendi titoli
originali?? Intitolatelo "La nebbia" - come il
racconto - e ci capiamo tutti!), ricorda in alcuni
punti certe atmosfere da film di fantascienza anni
'50, con araconoidi giganteschi, e forse quella è la
parte più interessante. Il film precipita di tono
quando il protagonista usa le quattro pallottole che
gli sono rimaste, finito il carburante, per porre
fine all'esistenza dei quattro passeggeri che porta
in macchina (compreso suo figlio), riservandosi di
farsi uccidere poi dalle creature: proprio in quel
momento la nebbia si dirada e si scopre che
l'esercito ha di nuovo la situazione sotto controllo
e che il sacrificio era stato inutile. Al
protagonista non resta che piangere sul latte
versato. Amen.
Recensioni di Sonia Cincinelli
Il matrimonio di Lorna
Sceneggiatura: Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne
Produzione: Les Films du Fleuve, Archipel 35, Lucky
Red, Gemini Film, Mogador Film, arte France Cinéma,
Rtbf Television, WDR
Distribuzione: Lucky Red
Paese: Belgio, Francia, Gran Bretagna 2008
Genere: Drammatico
Durata: 105 Min
Il Matrimonio di Lorna (Le Silence de Lorna) di
Jean-Pierre e Luc Dardenne, film premiato all'ultimo
festival di Cannes come miglior sceneggiatura. Il
film uscirà in Italia il 19 Settembre 2008 in
quaranta copie più una versione originale.
Lorna (Arta Dobroshi) è una ragazza albanese che,
pur di realizzare i suoi sogni e vivere in Belgio,
si adatta a sposare un giovane tossicodipendente. La
sua è una decisione consapevole e cinica perché lei
spera che, una volta morto suo marito per
un'overdose, potrà essere finalmente libera di fare
ció che desidera. Ma il suo giovane consorte,
invece, vuole continuare a vivere.
I Dardenne, felici di lavorare insieme da molto
tempo, ci restituiscono il ritratto di una donna
colpevole, combattuta tra l'amore e le regole
spietate dell'ambiente in cui vive. Film ispirato da
una storia vera di matrimonio bianco, dove i silenzi
di Lorna sono tutte le omissioni fatte agli uomini
che la circondano e i matrimoni sono quello falso
con Claudy (Jérémie Renier) e quello vero che
avrebbe voluto con lui dopo il divorzio e la sua
morte. Un racconto morale, dove la questione del
buono e del cattivo è costantemente messa in dubbio
da quella del vero e del falso. Lorna è una donna
coraggiosa che riesce a sfuggire alla malvagità e al
patriarcato riscattandosi con una decisione inattesa
e scandalosa. Un film che si ricorderà.
Recensioni di Francesco Panizzo
Il trono di sangue
Anno: 1957
Regia: Akira Kurosawa
Cast: T. Mifune, I. Yamada, M.Chiaki, C. Naniwa, H.
Tachikawa, T. Sasaki, A. Kubo
Sceneggiatura: A. Kurosawa, H. Oguni, R. Kikushima,
A. Hashimoto
Trama:
Di ritorno da una battaglia, Washizu e Miki
s'imbattono in uno spirito che profetizza per il
primo rapida gloria e la nomina a Signore, per il
secondo la fortuna arriverà per suo figlio che
succederà all'imperatore Washizu. Convinto dalla
moglie ad assecondare la profezia uccidendo nel
sonno il suo Signore, e in seguito Miki, Washizu si
trova sotto assedio e con un nuovo vaticinio: verrà
sconfitto solo quando gli alberi della foresta
marceranno verso il castello e lo circonderanno...
Il Giappone del XVI secolo è teatro della versione
di Akira Kurosawa del Macbeth: due guerrieri ed una
profezia che spinge il più ambizioso a macchiarsi
dei delitti più atroci per placare la propria sete
di potere. A parte qualche piccolo aggiustamento,
quale lo spirito in vece delle tre streghe, "Il
trono di sangue" è fedele nella sostanza alla
tragedia di Shakespeare. Kurosawa però non prova a
misurarsi con la grandezza del testo shakespeariano:
i suoi dialoghi non mantengono nel testo la metrica
della poesia del "Macbeth", ma lungo un contesto
medievale, costringe la poesia a manifestarsi
attraverso le immagini, grande strumento poetico
della sua cinematografia; il suo è uno stile unico:
il ripetuto entrare e uscire delle sagome dei due
guerrieri nella nebbia, sempre uguale, è più
angosciante dell'atmosfera della foresta-labirinto.
Kurosawa insiste sulla stessa sequenza. Ripetizione
che fa eco all'iniziale successione di messaggeri
dai campi di battaglia: da subito si palesa il gioco
di richiami nella struttura di scene diverse, a
unirsi secondo un ordine stilistico prima che della
trama. Il richiamo per analogia diventa per
contrasto quando Washizu assiste, sconcertato, alla
rivolta dei propri Forti: nel suo moto angosciato di
fronte all'arrivo dei messaggeri c'è tutta
l'eccezionalità della sua figura, lontana anni luce
- nel male - da quell'autocontrollo del suo
predecessore.
L'organicità dell'opera è resa, infine, nella
perfetta simmetria delle inquadrature nelle scene di
dialogo. In questa struttura grandiosa, Kurosawa
lascia ampio spazio al suo attore protagonista:
l'espressione di Toshiro Mifune mentre cammina,
appena nominato Signore del Castello come da
profezia, è sopraffina, ma è nella seconda parte che
l'attore dà il meglio, comunicando paura,
sbigottimento e, in ultima istanza, follia con lo
sguardo. La scena in cui Washizu uccide il sicario e
poi indietreggia atterrito è emblematica
dell'atteggiamento di Macbeth-Washizu, che ha più
paura dei morti che dei vivi. Asaji, la moglie di
Washizu, è il personaggio che meno si discosta
dall'originale, conservando nelle poche ma decisive
azioni tutta la drammaticità di Lady Macbeth.
Recensioni di Davide Mazzoni
LE TRE SCIMMIE
Titolo originale: Uç Maymun. Produzione:Turchia,
Francia, Italia, 2008.
Regia: Nuri Bilge Ceylan. Con Hatice Aslan, Yazuv
Bingol, Ahmet Rifat Sungar, Ercan Kesal
TRAMA: Servet, ricco personaggio della scena
politica, investe e uccide un uomo con la propria
macchina. Per evitare la prigione, si rivolge al suo
autista Eyüp proponendogli un accordo: addossarsi la
responsabilità dell'incidente in cambio di molti
soldi una volta uscito di prigione. Eyüp accetterà,
ma la sua vita e quella della sua famiglia non
saranno più le stesse, anche a causa
dell'innamoramento della moglie per il datore di
lavoro.
Le tre scimmie del titolo sono quelle della famosa
leggenda orientale del "non vedo, non sento, non
parlo", nient'altro che i protagonisti di questa
triste vicenda ambientata nei quartieri poveri di
Istanbul. Padre, madre e figlio sono schiavi della
loro triste e misera vita, destinati ad essere
schiacciati da chi è più ricco e potente di loro, in
questo caso il datore di lavoro del padre. Il
regista Celyan sceglie di far procedere il film per
ellissi: non si vedono mai i fatti principali che
delineano il plot del film (l'investimento del
pedone, l'adulterio o l'assassinio di un
personaggio), ma solamente le conseguenze che da
essi scaturiscono. Questo non vedere (o non
ascoltare) altro non è che la messa in atto del
messaggio veicolato dal titolo.
Quello che colpisce molto lo spettatore di questo
lungometraggio turco è sicuramente l'aspetto visivo
del film. Celyan, aiutato molto dal direttore della
fotografia Tiryaki, opta per inquadrature suggestive
e malinconiche, che ricordano molto certe sequenze
di Antonioni o Wenders. Non esistono movimenti di
macchina all'interno della sequenza, se non qualche
cambiamento di piano o qualche piano sequenza.
Questa staticità della macchina da presa sembra
sottolineare l'incapacità dei personaggi di muoversi
dalla loro gretta considerazione dei rapporti umani,
familiari e extra-familiari. Come detto, quindi, a
livello visivo (inteso come composizione del piano e
fotografia) il film è veramente pregevole, ciò che
però gli manca completamente è il ritmo. Il regista,
optando per un'estrema dilatazione dei tempi
filmici, danneggia irrimediabilmente la fruizione
del film da parte dello spettatore. La dilatazione
del ritmo, infatti, comporta almeno due problemi
fondamentali: da una parte raffredda la forza
emozionale dello schema melodrammatico del film,
dall'altra allunga incoscientemente a 109 minuti un
plot che, cosi come è stato sviluppato dall'autore,
potrebbe durare al massimo poco meno di un'ora.
Indubbiamente la mancanza di ritmo e, di
conseguenza, di pathos rischia di far perdere allo
spettatore il messaggio che il regista vuole
veicolare: la denuncia alla società di non lasciarsi
vivere passivamente per evitare le decisioni e
affrontare faccia a faccia la realtà.
Recensioni di Ilaria Mainardi
"Into the wild" di Sean Penn
L'America, terra di contraddizioni. L'America di
Walt Whitman, di Robert Silvers, di Stanley Kubrick
e di Bruce Springsteen. Ma anche quella dei missili
su Cuba, delle guerre preventive, di Bush e Cheney,
degli accordi georgiani e degli embarghi.
L'America di Sean Penn, figlio putativo di Marlon
Brando e di Jack Kerouac, che non si nasconde certo
dietro un dito e spara a zero, senza farsi troppo
pregare, su ciò che del suo Paese non gli/ci piace.
Tuttavia "Into the wild" non è un film politico, è
bene precisarlo subito, o almeno non lo è
programmaticamente.
La storia vera di Chistopher McCandless, narrata nel
libro di Jon Krakauer (edito in Italia da Il
Corbaccio con il titolo "Nelle terre estreme") e qui
ripresa da Penn, registicamente in stato di grazia,
è soprattutto, almeno ad una prima analisi, un
viaggio di formazione attraverso la scoperta del
proprio Io più autentico.
Dopo la laurea, Chris, alias Alexander Supertramp
(il "supervagabondo"), devolve averi e sostanziosi
risparmi ad una fondazione benefica e parte verso
ovest, verso l'Alaska, un viaggio ai confini del
mondo scandito da incontri che potrebbero indurlo a
desistere dal folle volo, ma che sono in fondo, con
il loro carico di vivace umanità, un ulteriore
sprone a "chiamare le cose con il proprio nome".
La frontiera, tema caro a tanta letteratura e tanto
cinema americano, esiste solo come limes ideale da
oltrepassare per varcare la soglia immaginaria del
proprio Essere.
Il giovane Christopher, ispirato dalle letture di
Jack London e da Thoreau, abbandona gli agi di
un'esistenza piccolo-borghese (concetto tutt'altro
che desueto) e comprende quanto l'"american way of
life" sia dilaniato, a dispetto di suggestioni
mitiche e della propaganda mediatica, da conflitti
latenti ed insanabili. Una sorta di nevrosi
collettiva curabile solo se si è disposti a far
battere il proprio cuore un po' più forte, come ha
sostenuto il regista durante la conferenza stampa di
presentazione del film, lo scorso autunno, a Roma.
Ed è qui che si innesta una riflessione che
definirei più strettamente politica: l'indignazione
e il coraggio di un uomo (Sean per mezzo di Chris?)
che cerca tenacemente, ancora e a dispetto di tutto,
di strofinarsi gli occhi con i pugni e guardare
attraverso la nebbia fitta di menzogne
programmatiche e strategie della tensione.
Gli U.S.A. post 11 settembre sono infatti un Paese
che ha dovuto tragicamente fare i conti con le
proprie insicurezze e con la propria presunta
inattaccabilità, per la prima volta costretto a
confrontarsi con gli irrisolti della propria storia
di superpotenza imperialista e guerrafondaia. E
allora, in nuce ad un viaggio ai limiti, mi slancio
a scorgere (anacronisticamente) la spinta, lucida e
drammatica, a tornare indietro sulla scia autentica
delle proprie origini, per poi progredire in una
direzione più autenticamente "umana" (demagogia?
Chissà, buona demagogia comunque).
"La felicità non è reale se non è condivisa" appunta
a questo proposito Chris…
"Into the wild" non sarà forse un capolavoro, ma ha
in sé una caratteristica rarissima nel cinema
contemporaneo, è un film sincero.
Un film di cui è facile innamorarsi.
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