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Sono giorni caldi per la scuola e l'università,
giorni di riforme e controriforme, di proteste coese
e di silenzi complici, di affermazioni perentorie e
di subitanee smentite. Conscia di non trovarmi nella
qualità di oratore di questa o quella tribuna
politica e consapevole dunque che "non è questo il
luogo deputato a sbandierare il proprio credo", mi
permetto tuttavia di avviare una riflessione che
parte da lontano trascinando con sé un bagaglio di
quesiti fondamentali. Credo sia stato l'incontro
ravvicinato con il teatro "dal vivo" a farmi aprire
gli occhi. Spero quindi mi perdonerete se mi è
venuta una gran voglia di raccontare una mia piccola
esperienza non direttamente (?) connessa con la
scuola e le novità ministeriali delle ultime
settimane, ma, chissà, forse illuminante per chi
volesse sperimentare un apprendimento che si
discosta dal consueto binomio interrogazione -
compito in classe.
Due anni fa ho avuto la possibilità si svolgere un
lungo tirocinio presso il Teatro Giuseppe Verdi di
Pisa, realtà nota alla cittadinanza per la vivacità
culturale che vi trova spazio oltre che per la
ricchezza dei cartelloni proposti.
Da circa quindici anni la "Fondazione Teatro di
Pisa" si pre-occupa infatti di giovani e
giovanissimi grazie al progetto "Fare Teatro".
Attraverso i laboratori di recitazione, canto,
scrittura creativa e danza, ragazze e ragazzi
adolescenti o post adolescenti, eterogenei per
interessi, formazione ed esperienze di vita, si
incontrano lungo il filo rosso dell'immaginazione e
del gioco.
Nei laboratori di recitazione 2006/'07 (anno appunto
del mio tirocinio) i docenti hanno scelto di
lavorare sui "mostri" attraverso testi ("Così è (se
vi pare)" di Luigi Pirandello, "Carmina Vini" di Ugo
Chiti e "Ubu" di Alfred Jarry) che ne declinano
valenze ed ambiguità di significato.
Cos'è infatti un mostro?
E' una persona dall'aspetto particolarmente
sgradevole o un individuo che si è macchiato di
crimini efferati, o è piuttosto, come ci indica
l'etimologia latina "monstrum", un prodigio che
ammonisce della volontà degli dei, un portento?
E ancora: come si arriva alla creazione del
"mostro"? Chi sono oggigiorno i "mostri"? Come si
situa la nostra coscienza di fronte al "mostro"?
Sono domande, queste ed altre, che ci hanno
accompagnato durante tutto il nostro lavoro insieme.
Fatti di cronaca (il massacro di Erba, per esempio,
così come tante piccole ferite quotidiane, meno
note, ma altrettanto importanti) ci hanno poi
indotto a riflettere sul binomio di pasoliniana
memoria "sviluppo-progresso" e ad interrogarci su
chi siano i "mostri" oggi.
Si è cominciato con una fase di lavoro comune (con i
ragazzi suddivisi in tre macrogruppi) atto
soprattutto a stabilire rapporti, a creare
relazioni, teatrali sì, ma anche umane, a rendere il
singolo parte di un gruppo e allo stesso tempo a
rendere il gruppo consapevole dell'importanza di
ogni singolo apporto.
Le richieste dei docenti, splendide guide, hanno
accompagnato individualità sospese fra un "prima" e
un "forse" attraverso la scoperta del gioco teatrale
e del modo più onesto (non più esatto!) di
percorrere la propria/le proprie direzioni di uomini
e donne in fieri.
Non si gioca per vincere, aldilà di ogni retorica,
perché il concetto di vittoria non trova spazio in
un contesto dove il "come" è vitale, il "quanto" o
"in quanto tempo" sono approdi possibili, da
raggiungere con pazienza e delicatezza, ma non
motivo di frustrazione o ansia.
Abbastanza disillusa e prostrata dall'horror vacui
di certe aule universitarie sono stata letteralmente
catapultata in un contesto in cui lo "stare dentro",
anche come scelta prossemica, diveniva requisito
essenziale di una condivisione fisica ed emotiva,
emozionale direi.
I gruppi, suddivisi nei tre cast, hanno poi
cominciato il lavoro sui testi: "Così è (se vi
pare)" è il laboratorio che, d'accordo con i
docenti, ho scelto di seguire in modo particolare.
Il cast di "Così è (se vi pare)", coordinato,
accompagnato e supportato da Luca Biagiotti
(formatore teatrale e docente universitario), ha
così cominciato intorno a metà novembre 2006 a
relazionarsi con la complessa "diavoleria"
dell'autore siciliano.
Difficile, lontana da noi/loro, gioco al massacro di
un intellettuale poco avvezzo a scendere fra gli
uomini, paradigma crudele sulla relatività del
reale: questi ed altri pregiudizi accompagna(va)no
la produzione teatrale di Pirandello.
Luca Biagiotti, fin dalle prime letture collettive,
con i ragazzi sanamente incoscienti, ma forse ancora
un po' impauriti da reminiscenze scolastiche, ha
tentato con la cura, il rispetto e il pudore che
sono necessari quando si lavora con gli esseri
umani, di sfatare falsi miti e preconcetti
accademici, fuorvianti rispetto al lavoro che si
proponeva di svolgere. Ha cercato di portare
qualcosa di loro nel testo di Pirandello e qualcosa
di quei personaggi nelle loro sensibilità di giovani
ragazze e ragazzi.
Niente a che vedere con il processo di fleboclisi,
non si è trattato di uno stillare progressivo e
quasi inconsapevole di una realtà ritenuta fittizia,
perché cartacea, in un'altra concreta nella sua
tridimensionalità. Ho assistito piuttosto a
molteplici incontri fra persone animate dalla
volontà e dall'esigenza forte di scambiarsi
esperienze, emozioni, dubbi. Le categorie di "vero e
di "falso", di "giusto" e di "sbagliato", tanto care
a certa pedagogia scolastica, non sono in fondo così
necessarie (e soprattutto non sono univocamente
stabilite) e le domande, crescenti di giorno in
giorno e sempre più articolate e profonde, trovano
risposte che nascono dalla propria sensibilità che
si mette in relazione con quella degli altri:
"quanto è importante avere ragione?", "che prezzo
siamo disposti a far pagare agli altri per poter
affermare di avere ragione?", "come si colloca la
responsabilità individuale rispetto a quella
collettiva?", quesito questo profetico, nel 1916,
anno di pubblicazione del dramma, rispetto agli
orrori del nazi-fascismo e dell'Olocausto.
Attraverso il gioco, termine alto troppo spesso
relegato a qualcosa di prettamente infantile o
infantilistico, Luca Biagiotti ci ha chiesto di
confrontarci, nessuno escluso, con passioni,
sentimenti, paure, disagi inesplorati eppure così
concreti anche nel nostro quotidiano. Termini come
"compassione", come "disgusto", come "mostro" si
sono così riempiti di senso assumendo un significato
che non è stato frutto della consultazione di un
buon dizionario, ma è partito piuttosto dal vissuto
di ognuno di noi.
E così, giorno dopo giorno, settimana dopo
settimana, ha preso corpo lo spettacolo, tappa
conclusiva dei laboratori di "Fare Teatro", ma non
certo esito finale di lavori che continueranno a far
germogliare idee e pensieri in chi ha potuto
seguirne gli sviluppi.
In particolare l'azione di "Così è (se vi pare)" è
scesa dal palcoscenico per situarsi su due gradoni
predisposti a ridosso della platea e poi, man mano,
penetrare e insinuarsi fin dentro la platea stessa
della sala principale del Teatro Verdi.
Se si eccettua la valenza filosofica e simbolica
dell'ultima, folgorante, apparizione che meriterebbe
per questo considerazioni di altro tipo, ci siamo
infatti resi presto conto di avere a che fare con
personaggi realistici e verosimili, quand'anche per
diverse ragioni biasimabili, con le loro paure,
idiosincrasie e debolezze, non certo con meri
strumenti inerti di un teatro che riflette su sé
stesso: i personaggi di Pirandello, in questo testo
come altrove, entrano dal mondo e del mondo fanno
parte.
E quindi la signora Frola, il signor Ponza, i
coniugi Agazzi, i Sirelli, Laudisi e tutti gli altri
sono divenuti vivi negli occhi e nella voce di un
gruppo di ragazzi via via più consapevoli e sempre
pronti a sorprenderci con un quesito, una
considerazione, un'emozione nuova.
Ne è risultata così una "messa in assemblea", di
ellenica memoria, in cui attori e pubblico si sono
incontrati fisicamente e hanno giocato insieme fino
allo spiazzante finale (?), irrisolto e
irrisolvibile, misterioso come l'essere umano.
L'anno successivo il piccolo-grande miracolo si è
ripetuto: il testo scelto questa volta è "Measure
for Measure" di William Shakespeare.
Si tratta a tutti gli effetti di un dramma "moderno"
dove tragedia e commedia si intersecano in una
commistione labile come le pulsioni dell'animo
umano.
Anche in questo caso, come sempre, i docenti (Luca
Biagiotti e Cristina Lazzari) scelgono di partire
dalle domande che "Misura per misura" pone
inevitabilmente a chi vi si accosta con pudore ed
onestà: "scelgo di perseguire il mio interesse o il
bene della comunità alla quale appartengo", "come si
pongono i miei valori rispetto a ciò che è bene per
chi mi sta a cuore", "cosa significa la parola
sacrificio e cosa vuol dire giudicare", "quale
valenza ha nella nostra vita il perdono e a che cosa
si è disposti a rinunciare per amore". Queste e
mille altre le domande con le quali il testo chiama
a confrontarsi e che hanno fatto da substrato
imprescindibile al lavoro con i ragazzi, durato
circa un anno.
All'inizio si tenta di prendere confidenza con un
testo ignoto, ci si confronta sulla scia delle prime
impressioni, delle suggestioni, dei rimandi: la
grande abilità è stata, in un primo approccio al
testo, quella di riuscire a vincere il timore
reverenziale che tanta cattiva pedagogia inculca
quando ci si avvicina ad autori come il Bardo.
Luca e Cristina (in questo modo li chiamano i
ragazzi e così vorrei chiamarli anch'io d'ora in
avanti) portano così il Duca di Vienna, Pompeo,
Isabella, Angelo, Madama Strafatta, Lucio ecc. nella
vita dei ragazzi chiamati a dar loro voce e corpo.
Pian piano, sempre con la delicatezza necessaria a
chi sa di lavorare con una pasta tanto friabile
quanto ricca di sfumature preziose, negli occhi dei
ragazzi si sono fatte accendere tante, piccole
fiammelle di curiosità, di empatia, di disappunto,
di tenerezza. Ognuno di noi, nessuno escluso, sente
avvicinarsi alle proprie corde più intime quei
personaggi apparentemente così distanti e forse
anche il tempo si concentra fino a farci pensare che
le istanze di ieri (storicamente "Misura per misura"
si colloca sul finire della dinastia Tudor e
all'avvento del nuovo monarca, scozzese e cattolico,
Giacomo I Stuart) siano inaspettatamente simili a
quelle di oggi: la curiosità diviene urgenza,
l'appetito fame insaziabile.
Ad ogni incontro il testo diventa sempre più
"nostro", la memoria si consolida, ci scopriamo a
conversare attraverso le parole dei personaggi
shakespeariani, sappiamo che ci è stato fatto/ci
stiamo facendo un dono del quale riconosciamo,
sempre più, la qualità straordinaria e irripetibile.
Lo spettacolo (28 - 29 - 30 ottobre 2008) è un
tripudio di colori e di umori: tutti protagonisti,
con il pubblico chiamato a condividere la
responsabilità delle parole pronunciate dai ragazzi
sui praticabili di legno collocati al centro della
sala "Titta Ruffo" del Teatro Verdi di Pisa.
Si lascia il teatro con mille domande e tante
giovani mani tese verso l'età adulta che ha lasciato
per strada qualcosa, distratta da troppi abbagli.
Idealmente ci strizzano l'occhio, attraverso la
vivacità dei loro sguardi ci regalano una speranza,
quella, non trascurabile, di poter contare l'uno
sull'altro.
L'ho definito come un piccolo miracolo, in realtà
non so bene cosa sia, immagino che una similitudine
religiosa non sia neppure la più calzante. So per
certo, e lo ribadisco, di avere avuto il privilegio
di vedere la realtà attraverso gli occhi "brucianti"
di giovani uomini e giovani donne supportati ed
accompagnati da docenti di rara sensibilità ed
intelligenza.
Perché ho provato a raccontare tutto questo? Perché
ho visto adolescenti innamorarsi lettura dopo
lettura di due testi estremamente complessi e
pronunciare quelle parole con la cura degna di un
oggetto raro e prezioso.
Quei ragazzi sono gli stessi che un ministro poco
lungimirante tenta di condannare all'ignoranza di
Stato.
Ripensando a questa recente esperienza in relazione
a ciò che sento sbandierare in questi giorni da
politici e politicanti, mi sono chiesta: davvero li
hanno ascoltati?
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