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C'E' RONIN E RONIN
Una ministoria dei samurai solitari,
da Oriente a Occidente e dal Fumetto al Cinema

 

di Andrea Cantucci

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I bushi sono immortali! Dunque ci incontreremo ancora se siete immortali anche voi.
(da "Kozure Okami" di Kazuo Koike e Goseki Kojima)


Dopo gli abbastanza deludenti Daredevil e Elektra, e i più fedeli Sin City e 300, negli U.S.A. dovrebbe essere attualmente in lavorazione un altro film tratto da un fumetto di Frank Miller (o almeno così fu annunciato quasi due anni fa dalla Warner Bros.). Si tratta di Ronin, oggi ristampato in Italia in un unico volume di lusso dalla Planeta De Agostini ma in origine presentato in una miniserie di 6 numeri, pubblicata tra il 1983 e il 1984. All'epoca costituì l'opera più originale e sperimentale di Frank Miller, in quanto rinnovava radicalmente le forme grafiche e narrative del fumetto statunitense, ispirandosi sia agli album d'autore europei (anche nel formato di 48 pagine per albo) che ai fumetti giapponesi, allora ancora praticamente inediti negli U.S.A. (1).
E' stato per l'appunto Miller ad importare nel fumetto americano tali e tante soluzioni tipiche dello stile nipponico, da avvicinare in parte i gusti dei due paesi.

Nonostante una nazione asiatica come il Giappone sia il maggior produttore mondiale di storie disegnate, i fumetti nipponici hanno infatti impiegato molto tempo per essere esportati in America ed Europa, non tanto per la distanza geografica, quanto per le differenze culturali e artistiche tra oriente e occidente, non ultima quella che riguarda il senso di lettura delle storie, che, come la scrittura, in Giappone va da destra a sinistra.
Si potrebbero considerare precursori locali del Fumetto alcuni tipi di Yamato-e, i dipinti ispirati a tradizioni del Giappone risalenti al periodo Heian (tra l'VIII e il XII secolo d.C.), in particolare gli E-makimono, "Rotoli di Immagini" contenenti scene in successione che raccontavano storie, spesso tratte da opere letterarie. Quelli dipinti da Toba Sojo nell'XI secolo erano dedicati a storie satiriche con buffi animali in posizione eretta, che secoli dopo ispirarono le Toba-e Sankokushi, le "Immagini nello Stile di Toba", una specie di albi a fumetti stampati ai primi del '700 che potrebbero costituire il primo antenato di Topolino. La diffusione di opere grafiche a livello popolare era iniziata nel XVII secolo, con le stampe xilografiche Ukiyo-e, le "Immagini del Mondo Secolare", mentre il termine Manga, comunemente usato anche da noi per indicare i fumetti giapponesi, fu creato intorno al 1814 dal pittore Hokusai, unendo i due ideogrammi cinesi man e ga (immagine e vagante), per dare un titolo comune ai suoi tanti libri di "schizzi sparsi" (2). Da allora fu usato per indicare caricature, illustrazioni e immagini in genere e quindi un secolo dopo lo si poté ritrovare nel titolo del supplemento Jiji Manga, l'allegato domenicale del quotidiano Jiji Shimpo, su cui nel 1912 apparvero i veri e propri equivalenti dei fumetti occidentali, con tanto di nuvolette. Sia la grafica che i ritmi umoristici imitavano le pagine dei comics pubblicate, già da alcuni anni, sugli inserti dei giornali U.S.A. e una decina d'anni dopo furono introdotte anche le strisce quotidiane. I primi fumetti nipponici utilizzavano disegni molto sintetici, piuttosto approssimativi e vagamente tradizionali, riprendendo anche molti personaggi dei Kamishibai (gli spettacoli popolari di cantastorie con cartoni illustrati); tra questi Ogon Bat (Il Pipistrello d'Oro) di Takeo Nagamatsu, giustiziere volante con tanto di mantello e costume variopinto, anticipò già nel 1930 alcuni aspetti dei supereroi americani.
Dato il crescente militarismo del paese, negli anni '30 del '900 furono popolari personaggi devoti alle autorità e alle imprese belliche, come il samurai Hinomaru Hatanosuke di Kikuo Nakajima o il cane soldato Norakuro di Suihou Tagawa, mentre le storie del piccolo re pacifista Boken Dankichi di Keizo Shimada furono soppresse nel '39. Ma alla fine della II Guerra Mondiale, con l'occupazione americana, i fumetti di eroici e invincibili samurai vennero censurati e Boken Dankichi fu recuperato per illustrare ai bambini le regole della nuova amministrazione. Nello stesso periodo inoltre, furono importati in Giappone i disegni animati della Disney e dei fratelli Fleischer (gli autori di Betty Boop e della prima versione animata di Braccio di Ferro), che influenzarono in modo determinante il giovane fumettista Osamu Tezuka. Questi, affascinato dalla vitalità di quelle pellicole, dal 1947 rinnovò grafica e montaggio dei fumetti giapponesi, rompendo con la staticità che li aveva contraddistinti fino a quel momento. L'elemento principale della sua rivoluzione consistette nel raccontare il più possibile con le sole immagini, evocando ritmi cinematografici con un sapiente uso delle inquadrature e impiegando se necessario anche molte pagine per rappresentare una singola azione. Allo stesso tempo introdusse un nuovo stile di disegno mutuato dai suddetti cartoon statunitensi (riprendendo ad esempio i grandi occhi oblunghi dei personaggi da quelli degli animali Disney), uno stile in apparenza semplice ma più curato e gradevole di quelli dei manga precedenti, basato esclusivamente su deformazioni tipicamente comiche, pur essendo impiegato soprattutto in storie avventurose. Il successo fu subito di tale portata (il primo libro di Tezuka, senza alcuna pubblicità, vendette rapidamente circa mezzo milione di copie) che, nel giro di pochi anni, l'intera produzione giapponese a fumetti si uniformò alle sue innovazioni e al suo stile. Anche i samurai apparsi nei manga degli anni '50 del '900, di cui quello di maggior successo fu probabilmente Akado Suzunosuke di Eiichi Fukui, furono quindi disegnati con uno stile che in occidente sarebbe stato considerato più che altro umoristico.
Come tutti sanno, i manga più classici, tuttora ispirati in gran parte all'opera di Tezuka, con sorpresa degli stessi giapponesi incontrarono un particolare successo proprio in Italia, prima attraverso le loro versioni animate, trasmesse da noi in massa e a ritmo giornaliero dalla fine degli anni '70 del '900, e poi con gli adattamenti e le traduzioni dei veri e propri fumetti, incrementatesi dagli anni '90. È forse un po' meno noto che, circa dieci anni dopo la rivoluzione di Tezuka, in Giappone ne cominciò una seconda ad opera di un gruppo di autori della zona di Osaka. Questi, col nome di Gekiga ("immagini drammatiche, forti", termine coniato dal fumettista Yoshiro Tatsumi per contrapporlo a Manga, che si può tradurre anche come "immagini leggere, disimpegnate"), inaugurarono un modo di fare fumetti più introspettivo e calato nella realtà, rivendicando per gli autori una maggiore indipendenza stilistica e traendo ispirazione, tra l'altro, dai disegni del già citato teatro Kamishibai, caratterizzato proprio da storie drammatiche di vendetta, d'orrore e di morte. Anche nei gekiga, il tipo di narrazione visuale introdotto da Tezuka venne mantenuto, e spesso portato anzi a livelli di dinamismo ancora più estremi attraverso l'esasperata frammentazione e rapidità d'esecuzione delle linee, ma fu usato per raccontare storie da cui furono banditi gli elementi esageratamente comici, storie quasi senza censure nei contenuti, a tratti molto crude e violente, con protagonisti, tra gli altri, ninja o samurai del passato calati in contesti ricostruiti in modo verosimile, oppure le loro controparti moderne, ovvero gangster e sicari a pagamento. Le storie non erano più raccontate sempre dalla parte delle autorità o di un eroe dalla bontà un po' ingenua (come era tradizione sia nei manga che in tanti fumetti occidentali), gli eventi potevano anche essere mostrati da vari punti di vista, acquistando così un maggiore spessore narrativo, ed era abolito perfino l'obbligo del lieto fine. Mentre insomma i tipici manga dallo stile tondeggiante, morbido e pulito inizialmente erano rivolti ad un pubblico più o meno infantile, le storie nervose e abbozzate rapidamente dei gekiga erano più serie, più tragiche, a volte persino impegnate, e si rivolgevano ad un pubblico maturo.
Evidentemente costituirono un cambiamento che in Italia si potrebbe paragonare all'arrivo dei fumetti neri per adulti nelle edicole dominate da eroi western e surrogati disneyani, o all'apparizione dei fumetti horror e underground per lettori maturi nel mercato U.S.A. quasi monopolizzato dai supereroi, tutti eventi sviluppatisi non a caso negli anni '60 del '900. Anche i gekiga furono aspramente osteggiati dai moralisti, riuniti nelle solite associazioni di genitori e insegnanti, ed ebbero i loro guai con la magistratura giapponese, ma vennero sostenuti dai contestatori di sinistra, poiché, nel mostrare violenze e tragedie umane, portavano in evidenza anche temi sociali. Ovviamente le riviste gekiga non ebbero quasi mai lo stesso riscontro di vendite di quelle propriamente manga e, se i fumetti di questo tipo raggiunsero una certa diffusione, all'inizio fu grazie alle "biblioteche" kashihon, che prestavano libri e fumetti a pagamento e tenevano anche opere scabrose o d'avanguardia. In seguito, quando gli editori si resero conto i manga non erano acquistati solo da bambini, ma sempre di più anche da adolescenti e adulti, si capì che esisteva un mercato anche per questo genere di pubblicazioni e nacquero riviste come Garo, in cui il fumetto era trattato come una forma artistica e gli autori lasciati liberi di esprimersi senza vincoli. In un certo senso, pur limitandosi alla pubblicazione di storie giapponesi, si può dire che Garo, nata nel 1964, abbia battuto sul tempo l'italiana Linus, che nel 1965 inaugurò le riviste europee di fumetti d'autore per adulti. Rivolgendosi ad una fascia di elite, Garo arrivò a vendere "appena" 30.000 copie, mentre i manga commerciali ne vendevano milioni, ma qualcosa si stava muovendo. Lo stesso Tezuka, con alcune sue opere più tarde come Blackjack, Dororo, Ayako e Adolf Ni Tsugu, partecipò in parte alla nuova tendenza, attenendosi più strettamente alla drammaticità di situazioni descritte con crudezza, pur senza modificare troppo il suo stile di disegno (3).
Uno dei primi maestri dei gekiga e tra i più apprezzati dai giovani "ribelli" giapponesi, fu Sanpei Shirato, pseudonimo di Noburo Okamoto, figlio di un pittore tradizionale di sinistra e a sua volta ex illustratore di Kamishibai, specializzatosi in fumetti di ninja. A due anni dall'inizio della sua carriera di fumettista, realizzò la sua prima opera di ampio respiro nel 1959 con Ninja Bugeicho Kagemaru Den (Il Manuale di Lotta Ninja del Racconto di Kagemaru), un fumetto realizzato per il mercato del kashihon, da cui fu tratto anche un film che si ispirava allo stile del teatro Kamishibai. In questa serie, il cui protagonista guida i contadini alla rivolta denunciando le loro difficili condizioni di vita e i soprusi dei signorotti locali, l'autore iniziò a mostrare la sua abilità nel rappresentare le scene di lotta, la sua conoscenza della storia del Giappone e la sua preoccupazione per questioni sociali come la discriminazione, lo sfruttamento e l'oppressione dei popoli, temi ricorrenti in molti suoi lavori insieme alle affascinanti panoramiche di scenari naturali. Un altro importante gekiga di Shirato fu Kamui Den (Il Racconto di Kamui), pubblicato dal 1964 sulla rivista Garo e ambientato nel Giappone del XV secolo, in cui un orfano addestrato in una scuola di Ninjutsu (l'arte di uccidere in silenzio dei ninja), rifiutando di continuare a compiere violenze, si ribella e fugge, inseguito e perseguitato come traditore dagli altri adepti della setta. I fumetti di questo autore, incentrati su eroi tutt'altro che idealizzati, ma determinati a ribellarsi ad un sistema ingiusto anche contro ogni speranza, furono anche oggetto di discussioni nelle Università giapponesi e, nel loro piccolo, contribuirono sia a far maturare la locale narrativa per immagini che a diffondere un po' di coscienza democratica nel paese. Kamui proseguì per otto anni e, dopo una lunga pausa, riprese nel 1982 col titolo Kamui Gaiden (L'Altro Racconto di Kamui) (4). Mentre la versione degli anni '60 è realizzata con un disegno spoglio ed essenziale, tipico dei fumetti giapponesi dell'epoca, la seconda serie è caratterizzata da una grande cura nei dettagli e da una verosimiglianza delle forme estremamente realistica, accompagnate da un dinamismo esasperato e da una fortissima espressività drammatica; d'altronde lo stesso Shirato non poteva fingere che nel frattempo non fosse apparsa la saga che può essere considerata il capolavoro della scuola gekiga: Kozure Okami (Il Lupo con il Piccolo appresso) (5).

Nel 1970, quando i primi episodi di Kozure Okami apparvero sul settimanale Manga Action, l'autore dei testi, Kazuo Koike, era professore all'Università d'arte di Osaka, mentre il disegnatore, Goseki Kojima, era diventato fumettista a tempo pieno tre anni prima, dopo essere stato pittore di cartelloni cinematografici. Evidentemente entrambi, benché nell'ambito del Fumetto fossero autodidatti, avevano una cultura storica e visiva che, spaziando dal mondo dell'Arte a quello del Cinema, permise loro di adottare un approccio alla narrazione a fumetti più adulto e impegnativo, rispetto a ciò che era stato fatto in precedenza. La loro ricostruzione del Giappone dell'epoca Edo dominato dalla dinastia Tokugawa (che va dal 1600 al 1867) è infatti impeccabile, non solo nelle rappresentazioni della vita di corte o nelle intense scene di battaglia ma anche negli usi e costumi della gente più umile, ed il realismo storico dei racconti si accompagna ad un realismo delle immagini sempre più pronunciato. Per darne un'idea, diciamo solo che, per calare il lettore nel preciso contesto storico, i testi contengono anche molti termini antichi, oggi spesso conosciuti agli stessi giapponesi, mentre lo stile dei disegni è più affine alle antiche stampe giapponesi che ai cartoon americani.
Il protagonista della serie è il samurai Itto Ogami, l'ex boia del regno, che, caduto in disgrazia a seguito di un intrigo di corte in cui è rimasta uccisa sua moglie, gira il Giappone accompagnato dal figlioletto Daigoro, in attesa di avere i mezzi per attuare la sua vendetta contro i responsabili: il clan Yagyu, guidato dal patriarca Retsudo. Per ottenerli diventa un ronin, un samurai senza padrone, in pratica un vero e proprio assassino a pagamento, mettendo la sua maestria nell'arte del combattimento al servizio di chi è disposto a pagare la forte somma che chiede per ogni omicidio. Itto Ogami, per raggiungere i suoi scopi, si è immerso metaforicamente col figlio nel Meifumado, l'Inferno buddista, e ha rinunciato al proprio onore, dal momento che rifiutando di uccidersi si è ribellato allo shogun, il "gran generale" del paese. Assolve quindi i suoi sanguinari incarichi da assassino senza troppi scrupoli, eppure sotto altri aspetti resta fedele al proprio codice di samurai e, non solo non si abbandona mai a crudeltà inutili e manifesta pietà anche per i nemici che uccide, ma, quando ne ha la possibilità, ovvero se non rischia di compromettere la sua missione di vendetta, prende le difese dei poveri e dei derelitti che incontra e che a loro volta spesso lo aiutano, lo ospitano e lo rifocillano per pura umanità. Altre volte invece, singoli individui o addirittura interi villaggi cercano di ucciderlo per intascare l'enorme taglia che è stata messa su di lui. Infatti è diventato famoso in tutto l'impero come Kozure Okami, il "Lupo con il Piccolo appresso", il più pericoloso e temuto assassino del Giappone, e gli avvisi di cattura che riproducono la sua faccia e quella del figlio si moltiplicano. Solo contro tutti, insieme al bambino che crescendo acquista una sempre maggior dimestichezza con la severa disciplina e le arti marziali del padre, Itto riesce ad uccidere tutti i figli di Retsudo, fino al duello finale con l'acerrimo nemico, che, a causa di varie interruzioni e impedimenti, si protrae per moltissimi episodi, mentre i due avversari mantengono sempre un estremo rispetto l'uno per l'altro. Invece il subdolo avvelenatore Abe Tanoshi, il capo degli assaggiatori di corte che cerca di uccidere ambedue i rivali per soddisfare le proprie ambizioni di potere, è disprezzato da entrambi, poiché a differenza di loro non è un bushi, un guerriero, e non segue minimamente le regole dell'onore.
La saga si compone di centoquarantadue episodi (poi raccolti in ventotto volumi), realizzati tra il 1970 e il 1976. In questo periodo lo stile di Kojima matura moltissimo, impiegando tecniche grafiche affini tanto alla pittura zen quanto all'impressionismo europeo (forme rese vivide con pochi segni rapidi, contrasti accennati con pennellate di toni di grigio a mezza tinta, sfumature ed effetti di movimento ottenuti con tratteggi approssimativi ma efficaci), mentre i suoi disegni si fanno sempre più precisi, dettagliati ed accurati. Basta guardare il modo in cui è disegnato il piccolo Daigoro nei primi episodi, dove, seppure già lontano dallo stile dei manga "alla Tezuka", risulta in parte ancora un po' "pupazzettistico". Nel corso degli anni e delle avventure, approfittando anche della progressiva crescita del bimbo, il disegnatore ha avuto modo di renderne le fattezze sempre più verosimili e di arricchirne moltissimo l'espressività del volto, di pari passo con l'impercettibile ma costante progredire delle sue capacità grafiche, o meglio, con la sua sempre maggiore pratica nel far vivere le figure nell'angusto spazio delle vignette, anziché in quello ampio dei manifesti che realizzava in passato. Il crescente realismo non va però a scapito dell'espressionismo ottenuto tramite vari effetti grafici, che ha sempre e comunque la precedenza e che anzi aumenta anch'esso col tempo. Questo comporta anche un uso sempre maggiore di vignette più grandi e inquadrature più ravvicinate. La sensazione che si ha, è che all'inizio le esigenze dei racconti, o la necessità di realizzarli con certi ritmi, limitassero la forza espressiva di Kojima, che, per essere funzionale ad una narrazione di rapido consumo, vi subordinava le proprie esigenze creative, mentre col tempo è riuscito a prendersi gli spazi necessari per esprimere in ogni immagine il più efficace effetto drammatico possibile.
Mentre nell'ultima quarantina di episodi di Kozure Okami prevale un andamento a puntate, con i complicati intrighi di Abe Tanoshi che si protraggono nel tempo e la suspense dell'ultimo scontro tra Itto e Retsudo sempre rinviato, i primi cento episodi circa sono leggibili anche come brevi racconti auto-conclusivi, ognuno costruito in modo originale, attraverso sapienti montaggi delle inquadrature, con un campionario umano composto da popolani, nobili, contadini, guardie o criminali che di volta in volta sono protagonisti delle loro singole vicende umane, entrate fatalmente in contatto con quella più ampia del "Lupo con il Piccolo". Naturalmente molte storie raggiungono l'apice del climax nelle scene di battaglia, sempre tratteggiate da Kojima con rara efficacia ed un dinamismo estremo, ma non mancano anche racconti di genere completamente diverso, dai primi incontri di Daigoro con le difficoltà della vita, che affronta ogni volta con la forza d'animo di un autentico samurai, a tragiche storie d'amore o di sofferenze umane, in cui la sorte, o l'intervento di un ronin come Itto Ogami, può portare improvvisi rovesciamenti di fortuna. Intanto le epiche scene di tensione drammatica e violenza sanguinaria, ogni tanto cedono il posto a poetici panorami o dettagli, con effetti di sospensione tipicamente zen, in sintonia coi contenuti e il contesto delle storie. Elementi della cultura e della filosofia buddista, fondamentale nella storia del Giappone e particolarmente legata alla casta dei samurai, sono evocati continuamente dagli autori, attraverso riferimenti disseminati lungo tutta la serie, permettendo anche ai lettori occidentali di intuire come la dottrina Zen fosse strettamente intrecciata al Bushido, la via del guerriero (6).
Kozure Okami divenne enormemente popolare, soprattutto per una serie gekiga, arrivando a vendere circa otto milioni di copie, anche se si può presumere che il successo fosse dovuto in primo luogo alle esagerate scene di battaglia in cui il protagonista riesce a sconfiggere interi eserciti praticamente da solo, piuttosto che agli elementi più impegnati, storici o filosofici della serie. Comunque, nel giro di due anni, molto prima che la saga arrivasse alla sua conclusione, Koike si ritrovò a scriverne il primo adattamento cinematografico, a cui seguirono altri cinque film, girati con un ritmo piuttosto rapido tra il 1972 e il 1974. Gli ultimi tre furono prodotti direttamente da Tomisaburo Wakayama, l'attore che interpretava il ruolo di Itto Ogami. Pare che intere sequenze del fumetto vi siano state ricostruite molto fedelmente, sicuramente grazie alla collaborazione dell'autore originale. In ogni caso, anche le esigenze commerciali non furono certo trascurate, visto che, nei film dopo il secondo, il climax viene sempre raggiunto quando il "Lupo con il Piccolo" combatte e vince da solo contro tutti (l'ultimo lungometraggio della serie, con centocinquanta nemici eliminati, detiene addirittura il sinistro primato del maggior numero di persone che siano mai state uccise in un solo film, da un singolo personaggio). Parti dei primi due film furono anche rimontate in una pellicola tradotta in inglese e distribuita negli Stati Uniti nel 1980, col titolo Shogun Assassin, mentre il terzo film è stato ridistribuito negli USA in DVD come Shogun Assassin 2.
Sempre da Kozure Okami fu tratta anche una serie di telefilm, durata tre stagioni di ventisei episodi, dal 1973 al 1976, e distribuita in vari paesi occidentali con titoli come "Il Samurai Fuggitivo" o "Il Samurai di Ferro". In Italia fu intitolata semplicemente Samurai e rese familiare anche da noi il carrettino per bambini in cui Itto Ogami spingeva il figlio Daigoro ancora piccolo, i cui bordi staccabili potevano trasformarsi all'occorrenza in armi micidiali. L'interpretazione televisiva di Kinnosuke Yorozuya nel ruolo di Itto Ogami, e i telefilm di questa serie in generale, sono considerati ancora più fedeli al fumetto rispetto ai film interpretati e prodotti da Wakayama, il ché è comprensibile, visto che attraverso il maggior numero di episodi, e quindi una maggiore durata, era possibile riprodurre meglio il ritmo lento e ampio dell'originale.
Sempre dalla serie di Koike e Kojima furono poi tratti altri film per la TV (alcuni interpretati dallo stesso Yorozuya), un ennesimo lungometraggio nel 1992 e una seconda serie televisiva in due stagioni, distribuita solo in Giappone tra il 2002 e il 2004.
Kozure Okami, coi suoi serrati duelli alternati a intensi momenti di suspense, è stato inoltre uno dei fumetti giapponesi che più hanno influenzato il dinamismo e la grafica del fumetto americano, ancora prima di essere pubblicato negli USA, attraverso l'opera di Frank Miller.

C'erano già stati fumettisti europei che si erano occupati più o meno saltuariamente del mondo dei samurai; in particolare, il francese Robert Gigi aveva dedicato loro ben due serie, Hito e Ugaki. Quest'ultimo, apparso per la prima volta nel 1972 sul settimanale olandese Eppo, era un ronin che nei suoi vagabondaggi cercava il modo di vendicare il suo signore (7).
Anche il maestro italiano Sergio Toppi ha realizzato vari racconti incentrati sui samurai solitari. Nel suo La Notte dei Samurai, disegnato su testi di Mino Milani, si rievoca un fatto storico accaduto nel 1861: l'attacco di un gruppo di ronin sobillati dai signori feudali contro la legazione inglese di Tokio, un attentato a cui i diplomatici britannici scamparono fortunosamente. In un suo racconto più fantasioso intitolato Ogari 1650, vediamo invece un ronin in miseria chiedere la carità ed essere ingannato dagli abitanti di un villaggio, che sfruttano il suo lavoro ma poi gli negano il cibo richiesto; sarà l'incantesimo di un demone ridacchiante a dare al samurai l'occasione per la sua vendetta, che però risulterà fin troppo violenta e avrà conseguenze spiacevoli anche per lui. Un altro strano ronin, capitato chissà come nel West della corsa all'oro e che sembra preferire la pistola alla propria spada, appare in un'altra breve storia di Toppi dal titolo Katana (8).
I francesi Patrick Cothias e Philippe Adamov, da parte loro, nel ciclo Il Vento degli Dèi, narrano di come il samurai Chen Qin, rimasto gravemente ferito dopo uno scontro e raccolto da una prostituta, intraprenda in sogno un viaggio nel mondo degli spiriti da cui riemerge privo di memoria, mentre attorno a lui si alternano soprusi spietati e rivolte dei contadini. La sua nuova e miserabile vita, che lo vede più volte comportarsi da vile e fuggire di fronte ai suoi antichi compagni d'armi, è un'occasione per superare i pregiudizi e l'arroganza che ancora continuano in qualche modo ad agire dentro di lui e comprendere le ingiustizie di un sistema feudale basato sulla violenza e la sopraffazione (9).
Lo statunitense Frank Miller, al contrario di tutti questi autori, non è molto interessato agli aspetti strettamente storici, ma ha una particolarità rispetto a loro: lo spirito dell'antico Giappone, filtrato da fumetti e film, è presente in quasi tutti i suoi lavori, a prescindere dal luogo e dall'epoca in cui sono ambientati. Già nelle sue prime storie con protagonista il supereroe cieco Daredevil, il mondo delle arti marziali occupa un posto di primo piano e la grafica delle pagine risente di influenze dal Giappone. Lo stesso si può dire per le sue opere successive incentrate sul mutante Wolverine o sulla moderna ninja Elektra (la cui fuga da una setta orientale potrebbe ricordare quella analoga di Kamui) e anche per il più recente ciclo di Sin City, in cui c'è un ennesimo personaggio femminile che sembra uscito da un film di ninja.
E' come se Miller si fosse proposto come continuatore dei gekiga, innestandone tematiche e atmosfere nel cuore del fumetto di supereroi e camuffandole con toni hard boiled da romanzo d'azione. Ma è soprattutto Ronin (10), la sua prima creazione completamente originale, costruita come un vero e proprio romanzo a fumetti, a costituire un chiaro omaggio all'opera di Koike e Kojima. I loro nomi infatti vi sono citati esplicitamente in quelli di due personaggi giapponesi e vi si fa riferimento anche ad un telefilm incentrato su un ronin leggendario, senza contare che gli antichi costumi nipponici (e perfino la grafica delle nuvolette dei dialoghi) sono ripresi fedelmente dalle vignette di Kozure Okami. Fu quindi inevitabile che, quando nel 1987 uscì la prima edizione statunitense delle avventure a fumetti di Itto Ogami, edita dalla First Comics col titolo tradotto in Lone Wolf & Cub (Il Lupo Solitario e il Cucciolo), le prime copertine fossero affidate a Miller e il loro stile risultasse in perfetta sintonia con l'espressività delle pagine interne di Kojima. Ma nel Ronin di Miller c'è anche molto altro, a cominciare dai colori curati per la prima volta dall'attuale moglie Lynn Varley, che, in controtendenza con tutti i precedenti degli albi a fumetti americani, basati su contrastanti tonalità accese, utilizza sfumature tenui e raffinate accostate in modo armonico, come in certi album europei; ci sono addirittura pagine in cui tutta la possibile varietà cromatica degli ambienti viene resa attraverso sfumature diverse di pochissimi colori.
Il protagonista della storia sarebbe un antico samurai rimasto senza padrone, un ronin appunto, che, giura vendetta contro un terribile demone che ha ucciso il suo signore. Questo ronin, di cui non sapremo mai il nome, si reincarna in una New York di un futuro oggi non troppo lontano, una New York degradata e depressa in piena crisi economica e ambientale. Il nuovo corpo che lo ospita è quello di Billy Challas, un handicappato privo di braccia e gambe ma dotato di poteri telecinetici. All'inizio del racconto, Billy viene sfruttato per far funzionare mentalmente delle apparecchiature in un impianto industriale basato su rivoluzionarie biotecnologie e controllato da un computer vivente, il complesso Acquarius. Una qualche forma di magia fa sì che le macchine che circondano Billy si innestino sul suo torso come braccia e gambe bioniche, mentre il suo corpo si trasforma letteralmente in quello del ronin. Riprende quindi la sua secolare battaglia contro il demone, che si è sostituito al proprietario di Acquarius dopo averne assunto le fattezze. A complicare le cose c'è l'ambiguo rapporto del protagonista con Casey McKenna, la bella responsabile della sicurezza di Acquarius di cui Billy era innamorato, ora incaricata di rintracciare e catturare il ronin, nei bassifondi di una città lontana dal Giappone feudale ma altrettanto violenta.
Se l'ispirazione stilistica del disegno si ritrova soprattutto in Kozure Okami (ma non solo), il racconto, che parla di un guerriero con membra artificiali che si scontra con dei demoni, ricorda in parte la trama di un altro fumetto giapponese ambientato nel medioevo locale, il già menzionato Dororo di Osamu Tezuka, in cui il giovane Hyakimaru, dopo essere stato fatto letteralmente a pezzi da dei demoni, viene soccorso da un falegname che gli innesta degli arti di legno, con cui lotterà per riconquistare le braccia e le gambe perdute. È affascinante il modo in cui Miller rielabora tutto in chiave moderna, con riferimenti all'uso etico o meno della tecnologia e all'isolamento di chi riesce a vivere solo per mezzo di macchine e sogni. In Ronin, perfino le apparenti ingenuità e incongruenze del soggetto si rivelano punti di forza della trama e indispensabili presupposti per successivi colpi di scena, visto che nel corso della storia tutti i pezzi vanno al loro posto o quasi, benché l'esplosivo finale (culminante in una grande immagine pieghevole equivalente a quattro pagine) sia originale anche nel non essere completamente conclusivo; i personaggi infatti sono abbandonati in un momento che non appare come una vera e propria fine, ma fa piuttosto presagire l'inizio di qualcosa che è lasciato completamente all'immaginazione del lettore.
Il disegno di Miller, che qui si occupa di testi, matite e chine, pur essendo espressivo come sempre, presenta anche qualche incertezza, soprattutto all'inizio, rispetto alle classiche storie di supereroi in cui si avvaleva della collaborazione di esperti inchiostratori come Klaus Janson, Terry Austin o Josef Rubinstein. Infatti Miller, anche se si può dire che raggiunga qui una sua piena maturità artistica, arriva al suo definivo stile d'inchiostrazione solo otto anni dopo, con Sin City. In Ronin, il suo tratteggio dinamico nelle scene d'azione riprende e rielabora in modo efficacissimo quello di Kojima in Kozure Okami, ma, in alcune delle scene più statiche, certi tratti secondari, in particolare sui volti dei personaggi, risultano un po' goffi e di spessore troppo grosso, mentre al contrario le linee principali che delimitano i contorni dei corpi sono spesso fin troppo sottili, come se l'autore, pur esprimendosi sempre con grande impeto artistico e sperimentando freneticamente nuove soluzioni grafiche quasi ad ogni pagina, non avesse sempre il perfetto controllo degli strumenti che usa. Andando avanti però, Miller padroneggia sempre più questo suo modo tecnicamente non ortodosso di usare la china, raggiungendo un ottimo equilibrio stilistico, in cui l'approccio naif, memore di certi esempi di Hugo Pratt o del belga Didier Comès, si armonizza perfettamente con l'originalità della storia e dei colori.
Un altro elemento caratteristico del suo Ronin, cioè la totale assenza sia di didascalie descrittive che di pensieri dei personaggi, fino a quel momento decisamente anomala nei fumetti U.S.A., per non dire quasi del tutto inedita, era invece comune sia a molti manga e gekiga che a serie europee come Thorgal o Ken Parker, ma è probabile che anche in questo Miller si sia ispirato soprattutto a Pratt, oltre che naturalmente alle sequenze mute del solito Kozure Okami. Ma a differenza del realismo di quest'ultimo, in Ronin si evoca un mondo disastrato in cui tutto è fagocitato da una tecnologia vivente la cui concezione fantastica permette a Miller di sbizzarrirsi nel creare scenografie senza nessun rapporto con la realtà, decisamente più surreali dei macchinari, altrettanto immaginari ma ben più "solidi", disegnati da Jack Kirby attorno ai vecchi supereroi Marvel; vi si intravede piuttosto l'eco dei vasti mondi alieni e delle bizzarrie meccaniche che popolano i fumetti del francese Moebius. In comune con Kirby c'è invece l'uso insistente di grandi immagini singole disposte su due pagine, che in Ronin però sono usate non tanto per rendere più epiche le scene di movimento, quanto per soffermarsi su panoramiche mute di ciò che sta accadendo dell'ambiente circostante, spezzando il ritmo dell'azione in corrispondenza dei cambiamenti di scena. In altri punti della storia si trovano poi vignette non allineate e che escono dai margini, o disposte su due pagine alternando panoramiche e dettagli più piccoli, in modo analogo a certe soluzioni tipiche, ancora una volta, di Kozure Okami.
È proprio questo amalgama di Oriente e Occidente, di antico e moderno, di tecnica e anima, che riguarda sia il racconto che la sua rappresentazione grafica, a rendere questo fumetto in particolare, e l'opera di Miller in generale, un ideale punto di sintesi di quanto era stato realizzato in precedenza in forme diverse e una possibile anticipazione per potenziali artistici ancora più alti da sviluppare in futuro, come accade per ogni autore fondamentale.

Dopo la pubblicazione di questa miniserie, il termine "ronin" (in giapponese letteralmente "uomo-onda", "uomo alla deriva"), usato per indicare i samurai mercenari senza padrone, che fino a quel momento era ancora abbastanza poco noto in occidente, cominciò ad essere usato, ad esempio, in film d'azione statunitensi che apparentemente non avevano niente a che fare con l'antico Giappone, ma in cui, in modo più o meno esplicito, si faceva un parallelo tra la condizione del samurai vagante e quella del moderno sicario a pagamento o dell'agente indipendente, attribuendo quindi anche a certi assassini o spie di oggi un analogo codice d'onore e un analogo senso di fatalità e distacco nell'eseguire i propri compiti, o almeno è così che tali personaggi volevano vedere sé stessi in quelle pellicole.
Se ci si pensa, il concetto di "uomini d'onore" nell'ambito di gruppi criminali non è nulla di nuovo. Lo si trova sia nella Mafia siciliana che in altre associazioni a delinquere, sia italiane che estere, compresa la Yakuza, la mafia giapponese, i cui membri amano davvero considerarsi come moderni eredi dei samurai, anche se in realtà non si attengono certo alle autentiche regole del Bushido. Niente di più naturale quindi, che paragonare ai ronin i criminali e gli avventurieri che lavorano in proprio. In particolare, un film del 1998, diretto da John Frankenheimer e interpretato da Jean Reno e Robert De Niro, utilizzò proprio il titolo Ronin, senza avere assolutamente nulla a che fare col fumetto di Miller. Si può dire insomma che il parallelo, proposto già dai gekiga giapponesi e poi da Miller stesso nelle sue storie di supereroi, tra assassini moderni e arti marziali antiche, abbia attecchito molto bene anche nel cinema, prima ancora che i fumetti di Miller fossero trasposti direttamente sullo schermo (11), fino al caso emblematico del film Kill Bill di Quentin Tarantino, in cui i due elementi sono uniti più strettamente che mai.
Concettualmente e visivamente ancora più eccessivo, ma proprio per questo più vicino al fumetto di cui stiamo parlando, è stato poi il film Matrix dei fratelli Wachowski, in cui, nello stesso stile cyberpunk prefigurato dal Ronin di Miller, un altro piccolo uomo attaccato ad una macchina si trasforma in un guerriero invincibile. Del resto, da Guerre Stellari in poi, sempre più spesso eroi ed antieroi dei film americani sono dovuti ricorrere al fascino delle arti marziali e delle filosofie orientali per attirare il pubblico.
Ora sul grande schermo, se tutto va bene, dovrebbe essere la volta dell'autentico Ronin, un personaggio allo stesso tempo antico e moderno, romantico e tecnologico, tradizionale e innovativo. Resta da vedere che cosa ne faranno.




Note:

1) Nel 1983, l'unico autentico fumetto giapponese pubblicato negli U.S.A., dopo una precedente edizione inglese, era Hadashi no Gen (Gen dai Piedi Scalzi), noto in Occidente anche come Gen di Hiroshima, una serie di denuncia civile in parte autobiografica realizzata da Keji Nakazawa dal 1973, in cui si raccontano le avventure di un ragazzo sopravvissuto allo scoppio della bomba atomica su Hiroshima, tragedia collettiva in cui avevano perso realmente la vita il padre e i fratelli dell'autore.

2) Il pittore Hokusai (1760-1849), nato col nome di Tokitaro, nei vari periodi della sua produzione usò molti nomi: Katsushira (dal nome del distretto in cui nacque), Shunro (Splendore di Primavera), Sori (dal nome del fondatore della scuola Tawaraya), Hokusai (Studio della Stella del Nord), Iitsu (Di Nuovo Uno) e Manji (la Svastica, per i buddisti simbolo di prosperità). Nel periodo in cui realizzò la maggior parte dei libri dei Manga, si firmava invece Taito (dal nome di una stella dell'Orsa Minore). Ne pubblicò dieci volumi tra il 1814 e il 1819, altri due nel 1834 e un tredicesimo nel 1849, mentre gli ultimi due furono pubblicati postumi. Quindi si può dire si sia dedicato fino alla morte a questa produzione, solo in apparenza minore, comprendente immagini quotidiane e studi di ogni genere.

3) I venticinque volumi di Blackjack, i tre volumi di Ayako e i cinque volumi di Adolf Ni Tsugu (La Storia dei Tre Adolf ), di Osamu Tezuka, sono stati pubblicati in Italia dalle Edizioni Hazard.

4) La serie Kamui Gaiden (L'Altro Racconto di Kamui), di Sampei Shirato, in Italia è apparsa a puntate a partire dal 1991 su Mangazine, una rivista della Granata Press specializzata in fumetti giapponesi. Come altre serie poté essere pubblicata negli U.S.A. alla fine degli anni '80, e poi anche in Italia, accettandone il rovesciamento speculare delle pagine per adattarla al senso di lettura occidentale. - Kamui è il nome del dio supremo nella religione degli Ainu, una minoranza etnica del Giappone.

5) I ventotto volumi di Kozure Okami di Koike e Kojima, in Italia sono stati pubblicati dal 2003 al 2008 dalla Panini Comics, col titolo americano di Lone Wolf & Cub e col senso di lettura originale da destra a sinistra, come altri fumetti giapponesi i cui autori si sono opposti al ribaltamento dei disegni.

6) Mentre la maggior parte dei Giapponesi seguiva lo Shintoismo o differenti correnti buddiste, intorno al XIV secolo la casta dei samurai adottò il Buddismo Zen (Chan in cinese, Dhyàna in sanscrito, cioè "contemplativo"), poiché la sua disciplina spirituale tesa a cogliere l'essenza delle cose lo rendeva adatto a favorire la concentrazione e a vincere il timore della morte. Poi, in seguito alla pace tra i vari clan imposta dallo shogun, tra il XVI e il XVII secolo le tecniche guerriere (Bujutsu) divennero la Via del guerriero, il Bushido, una disciplina i cui aspetti filosofici di ricerca e coerenza interiore erano ora più importanti dei risultati ottenibili sui campi di battaglia, e l'arma preferita dei samurai divenne una lunga spada (la Katana) usata soprattutto in duelli singoli, al posto dei precedenti arco e lancia. - Sui rapporti tra Zen e Bushido, si può vedere ad esempio il libro del maestro Taisen Deshimaru "Zen et Arts Martiaux" Édition Seghers 1977, edizione italiana "Lo Zen e le Arti Marziali", SE 1995.

7) Ugaki di Robert Gigi è stato pubblicato in Italia, negli anni '70, sulla rivista Sorry e nel 1985 gli è stato dedicato l'album n°12 della collana Gli Albi di Orient Express, delle edizioni L'Isola Trovata.

8) La Notte dei Samurai è stato raccolto con altri racconti di Milani e Toppi nel volume "Samurai e Altre Storie", collana Avventura e Storia n° 8, Fabbri Editori, 1980. - Ogari 1650 è stato pubblicato su Alter Alter n°1 del 1977 e raccolto nel volume di Sergio Toppi "Sacsahuaman", Milano Libri, 1980. - Katana è stato pubblicato in bianco e nero nel 1988 su Comic Art n°40 e a colori, con altre due storie di Toppi, nell'album "Myetzko ed Altri Racconti", collana Grandi Eroi n°100, Comic Art 1991.

9) Gli album del ciclo Il Vento degli Dèi, di Cothias e Adamov, sono usciti in italiano, a pochi mesi di distanza dalla loro edizione francese, nella collana Avventure nella Storia, Glénat Italia 1986-1991.

10) Ronin di Frank Miller, in Italia uscì a puntate sulla rivista Corto Maltese e fu raccolto in volume da Milano Libri nel 1991. Una seconda edizione in volume è stata pubblicata da Magic Press nel 1999 e una terza edizione, di grande formato, è attualmente disponibile nel catalogo di Planeta De Agostini.

11) Sull'opera di Frank Miller in generale e i suoi rapporti col Cinema, si può vedere il saggio di Gianluca Aicardi, Sin Cinema, Editrice Tunué 2005, in cui però non si cita il film 300, uscito due anni dopo.

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