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Libri a fumetti
Cinema
Teatro
Pittura
Miti mutanti 2
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C'E' RONIN E RONIN
Una ministoria dei samurai solitari,
da Oriente a Occidente e dal Fumetto al Cinema
di
Andrea Cantucci
Per ingrandire le immagini e leggere le
didascalie cliccarci sopra
I bushi sono immortali! Dunque ci incontreremo
ancora se siete immortali anche voi.
(da "Kozure Okami" di Kazuo Koike e Goseki Kojima)
Dopo
gli abbastanza deludenti Daredevil e Elektra, e i
più fedeli Sin City e 300, negli U.S.A. dovrebbe
essere attualmente in lavorazione un altro film
tratto da un fumetto di Frank Miller (o almeno così
fu annunciato quasi due anni fa dalla Warner Bros.).
Si tratta di Ronin, oggi ristampato in Italia in un
unico volume di lusso dalla Planeta De Agostini ma
in origine presentato in una miniserie di 6 numeri,
pubblicata tra il 1983 e il 1984. All'epoca costituì
l'opera più originale e sperimentale di Frank Miller,
in quanto rinnovava radicalmente le forme grafiche e
narrative del fumetto statunitense, ispirandosi sia
agli album d'autore europei (anche nel formato di 48
pagine per albo) che ai fumetti giapponesi, allora
ancora praticamente inediti negli U.S.A. (1).
E' stato per l'appunto Miller ad importare nel
fumetto americano tali e tante soluzioni tipiche
dello stile nipponico, da avvicinare in parte i
gusti dei due paesi.
Nonostante una nazione asiatica come il Giappone sia
il maggior produttore mondiale di storie disegnate,
i fumetti nipponici hanno infatti impiegato molto
tempo per essere esportati in America ed Europa, non
tanto per la distanza geografica, quanto per le
differenze culturali e artistiche tra oriente e
occidente, non ultima quella che riguarda il senso
di lettura delle storie, che, come la scrittura, in
Giappone va da destra a sinistra.
Si
potrebbero considerare precursori locali del Fumetto
alcuni tipi di Yamato-e, i dipinti ispirati a
tradizioni del Giappone risalenti al periodo Heian
(tra l'VIII e il XII secolo d.C.), in particolare
gli E-makimono, "Rotoli di Immagini" contenenti
scene in successione che raccontavano storie, spesso
tratte da opere letterarie. Quelli dipinti da Toba
Sojo nell'XI secolo erano dedicati a storie
satiriche con buffi animali in posizione eretta, che
secoli dopo ispirarono le Toba-e Sankokushi, le
"Immagini nello Stile di Toba", una specie di albi a
fumetti stampati ai primi del '700 che potrebbero
costituire il primo antenato di Topolino. La
diffusione di opere grafiche a livello popolare era
iniziata nel XVII secolo, con le stampe xilografiche
Ukiyo-e, le "Immagini del Mondo Secolare", mentre il
termine Manga, comunemente usato anche da noi per
indicare i fumetti giapponesi, fu creato intorno al
1814 dal pittore Hokusai, unendo i due ideogrammi
cinesi man e ga (immagine e vagante), per dare un
titolo comune ai suoi tanti libri di "schizzi
sparsi" (2). Da allora fu usato per indicare
caricature, illustrazioni e immagini in genere e
quindi un secolo dopo lo si poté ritrovare nel
titolo del supplemento Jiji Manga, l'allegato
domenicale del quotidiano Jiji Shimpo, su cui nel
1912 apparvero i veri e propri equivalenti dei
fumetti occidentali, con tanto di nuvolette. Sia la
grafica che i ritmi umoristici imitavano le pagine
dei comics pubblicate, già da alcuni anni, sugli
inserti dei giornali U.S.A. e una decina d'anni dopo
furono introdotte anche le strisce quotidiane. I
primi fumetti nipponici utilizzavano disegni molto
sintetici, piuttosto approssimativi e vagamente
tradizionali, riprendendo anche molti personaggi dei
Kamishibai (gli spettacoli popolari di cantastorie
con cartoni illustrati); tra questi Ogon Bat (Il
Pipistrello d'Oro) di Takeo Nagamatsu, giustiziere
volante con tanto di mantello e costume variopinto,
anticipò già nel 1930 alcuni aspetti dei supereroi
americani.
Dato il crescente militarismo del paese, negli anni
'30 del '900 furono popolari personaggi devoti alle
autorità e alle imprese belliche, come il samurai
Hinomaru Hatanosuke di Kikuo Nakajima o il cane
soldato Norakuro di Suihou Tagawa, mentre le storie
del piccolo re pacifista Boken Dankichi di Keizo
Shimada furono soppresse nel '39. Ma alla fine della
II Guerra Mondiale, con l'occupazione americana, i
fumetti di eroici e invincibili samurai vennero
censurati e Boken Dankichi fu recuperato per
illustrare ai bambini le regole della nuova
amministrazione. Nello stesso periodo inoltre,
furono importati in Giappone i disegni animati della
Disney e dei fratelli Fleischer (gli autori di Betty
Boop e della prima versione animata di Braccio di
Ferro), che influenzarono in modo determinante il
giovane fumettista Osamu Tezuka. Questi, affascinato
dalla vitalità di quelle pellicole, dal 1947 rinnovò
grafica e montaggio dei fumetti giapponesi, rompendo
con la staticità che li aveva contraddistinti fino a
quel momento. L'elemento principale della sua
rivoluzione consistette nel raccontare il più
possibile con le sole immagini, evocando ritmi
cinematografici con un sapiente uso delle
inquadrature e impiegando se necessario anche molte
pagine per rappresentare una singola azione. Allo
stesso tempo introdusse un nuovo stile di disegno
mutuato dai suddetti cartoon statunitensi
(riprendendo ad esempio i grandi occhi oblunghi dei
personaggi da quelli degli animali Disney), uno
stile in apparenza semplice ma più curato e
gradevole di quelli dei manga precedenti, basato
esclusivamente su deformazioni tipicamente comiche,
pur essendo impiegato soprattutto in storie
avventurose. Il successo fu subito di tale portata
(il primo libro di Tezuka, senza alcuna pubblicità,
vendette rapidamente circa mezzo milione di copie)
che, nel giro di pochi anni, l'intera produzione
giapponese a fumetti si uniformò alle sue
innovazioni e al suo stile. Anche i samurai apparsi
nei manga degli anni '50 del '900, di cui quello di
maggior successo fu
probabilmente
Akado Suzunosuke di Eiichi Fukui, furono quindi
disegnati con uno stile che in occidente sarebbe
stato considerato più che altro umoristico.
Come tutti sanno, i manga più classici, tuttora
ispirati in gran parte all'opera di Tezuka, con
sorpresa degli stessi giapponesi incontrarono un
particolare successo proprio in Italia, prima
attraverso le loro versioni animate, trasmesse da
noi in massa e a ritmo giornaliero dalla fine degli
anni '70 del '900, e poi con gli adattamenti e le
traduzioni dei veri e propri fumetti, incrementatesi
dagli anni '90. È forse un po' meno noto che, circa
dieci anni dopo la rivoluzione di Tezuka, in
Giappone ne cominciò una seconda ad opera di un
gruppo di autori della zona di Osaka. Questi, col
nome di Gekiga ("immagini drammatiche, forti",
termine coniato dal fumettista Yoshiro Tatsumi per
contrapporlo a Manga, che si può tradurre anche come
"immagini leggere, disimpegnate"), inaugurarono un
modo di fare fumetti più introspettivo e calato
nella realtà, rivendicando per gli autori una
maggiore indipendenza stilistica e traendo
ispirazione, tra l'altro, dai disegni del già citato
teatro Kamishibai, caratterizzato proprio da storie
drammatiche di vendetta, d'orrore e di morte. Anche
nei gekiga, il tipo di narrazione visuale introdotto
da Tezuka venne mantenuto, e spesso portato anzi a
livelli di dinamismo ancora più estremi attraverso
l'esasperata frammentazione e rapidità d'esecuzione
delle linee, ma fu usato per raccontare storie da
cui furono banditi gli elementi esageratamente
comici, storie quasi senza censure nei contenuti, a
tratti molto crude e violente, con protagonisti, tra
gli altri, ninja o samurai del passato calati in
contesti ricostruiti in modo verosimile, oppure le
loro controparti moderne, ovvero gangster e sicari a
pagamento. Le storie non erano più raccontate sempre
dalla parte delle autorità o di un eroe dalla bontà
un po' ingenua (come era tradizione sia nei manga
che in tanti fumetti occidentali), gli eventi
potevano anche essere mostrati da vari punti di
vista, acquistando così un maggiore spessore
narrativo, ed era abolito perfino l'obbligo del
lieto fine. Mentre insomma i tipici manga dallo
stile tondeggiante, morbido e pulito inizialmente
erano rivolti ad un pubblico più o meno infantile,
le storie nervose e abbozzate rapidamente dei gekiga
erano più serie, più tragiche, a volte persino
impegnate, e si rivolgevano ad un pubblico maturo.
Evidentemente costituirono un cambiamento che in
Italia si potrebbe paragonare all'arrivo dei fumetti
neri per adulti nelle edicole dominate da eroi
western e surrogati disneyani, o all'apparizione dei
fumetti horror e underground per lettori maturi nel
mercato U.S.A. quasi monopolizzato dai supereroi,
tutti eventi sviluppatisi non a caso negli anni '60
del '900. Anche i gekiga furono aspramente
osteggiati dai moralisti, riuniti nelle solite
associazioni di genitori e insegnanti, ed ebbero i
loro guai con la magistratura giapponese, ma vennero
sostenuti dai contestatori di sinistra, poiché, nel
mostrare violenze e tragedie umane, portavano in
evidenza anche temi sociali. Ovviamente le riviste
gekiga non ebbero quasi mai lo stesso riscontro di
vendite di quelle propriamente manga e, se i fumetti
di questo tipo raggiunsero una certa diffusione,
all'inizio fu grazie alle "biblioteche" kashihon,
che prestavano libri e fumetti a pagamento e
tenevano anche opere scabrose o d'avanguardia. In
seguito, quando gli editori si resero conto i manga
non erano acquistati solo da bambini, ma sempre di
più anche da adolescenti e adulti, si capì che
esisteva un mercato anche per questo genere di
pubblicazioni e nacquero riviste come Garo, in cui
il fumetto era trattato come una forma artistica e
gli autori lasciati liberi di esprimersi senza
vincoli. In un certo senso, pur limitandosi alla
pubblicazione di storie giapponesi, si può dire che
Garo, nata nel 1964, abbia battuto sul tempo
l'italiana Linus, che nel 1965 inaugurò le riviste
europee di fumetti d'autore per adulti. Rivolgendosi
ad una fascia di elite, Garo arrivò a vendere
"appena" 30.000 copie, mentre i manga commerciali ne
vendevano milioni, ma qualcosa si stava muovendo. Lo
stesso Tezuka, con alcune sue opere
più
tarde come Blackjack, Dororo, Ayako e Adolf Ni Tsugu,
partecipò in parte alla nuova tendenza, attenendosi
più strettamente alla drammaticità di situazioni
descritte con crudezza, pur senza modificare troppo
il suo stile di disegno (3).
Uno dei primi maestri dei gekiga e tra i più
apprezzati dai giovani "ribelli" giapponesi, fu
Sanpei Shirato, pseudonimo di Noburo Okamoto, figlio
di un pittore tradizionale di sinistra e a sua volta
ex illustratore di Kamishibai, specializzatosi in
fumetti di ninja. A due anni dall'inizio della sua
carriera di fumettista, realizzò la sua prima opera
di ampio respiro nel 1959 con Ninja Bugeicho
Kagemaru Den (Il Manuale di Lotta Ninja del Racconto
di Kagemaru), un fumetto realizzato per il mercato
del kashihon, da cui fu tratto anche un film che si
ispirava allo stile del teatro Kamishibai. In questa
serie, il cui protagonista guida i contadini alla
rivolta denunciando le loro difficili condizioni di
vita e i soprusi dei signorotti locali, l'autore
iniziò a mostrare la sua abilità nel rappresentare
le scene di lotta, la sua conoscenza della storia
del Giappone e la sua preoccupazione per questioni
sociali come la discriminazione, lo sfruttamento e
l'oppressione dei popoli, temi ricorrenti in molti
suoi lavori insieme alle affascinanti panoramiche di
scenari naturali. Un altro importante gekiga di
Shirato fu
Kamui
Den (Il Racconto di Kamui), pubblicato dal 1964
sulla rivista Garo e ambientato nel Giappone del XV
secolo, in cui un orfano addestrato in una scuola di
Ninjutsu (l'arte di uccidere in silenzio dei ninja),
rifiutando di continuare a compiere violenze, si
ribella e fugge, inseguito e perseguitato come
traditore dagli altri adepti della setta. I fumetti
di questo autore, incentrati su eroi tutt'altro che
idealizzati, ma determinati a ribellarsi ad un
sistema ingiusto anche contro ogni speranza, furono
anche oggetto di discussioni nelle Università
giapponesi e, nel loro piccolo, contribuirono sia a
far maturare la locale narrativa per immagini che a
diffondere un po' di coscienza democratica nel
paese. Kamui proseguì per otto anni e, dopo una
lunga pausa, riprese nel 1982 col titolo Kamui
Gaiden (L'Altro Racconto di Kamui) (4). Mentre la
versione degli anni '60 è realizzata con un disegno
spoglio ed essenziale, tipico dei fumetti giapponesi
dell'epoca, la seconda serie è caratterizzata da una
grande cura nei dettagli e da una verosimiglianza
delle forme estremamente realistica, accompagnate da
un dinamismo esasperato e da una fortissima
espressività drammatica; d'altronde lo stesso
Shirato non poteva fingere che nel frattempo non
fosse apparsa la saga che può essere considerata il
capolavoro della scuola gekiga: Kozure Okami (Il
Lupo con il Piccolo appresso) (5).
Nel
1970, quando i primi episodi di Kozure Okami
apparvero sul settimanale Manga Action, l'autore dei
testi, Kazuo Koike, era professore all'Università
d'arte di Osaka, mentre il disegnatore, Goseki
Kojima, era diventato fumettista a tempo pieno tre
anni prima, dopo essere stato pittore di cartelloni
cinematografici. Evidentemente entrambi, benché
nell'ambito del Fumetto fossero autodidatti, avevano
una cultura storica e visiva che, spaziando dal
mondo dell'Arte a quello del Cinema, permise loro di
adottare un approccio alla narrazione a fumetti più
adulto e impegnativo, rispetto a ciò che era stato
fatto in precedenza. La loro ricostruzione del
Giappone dell'epoca Edo dominato dalla dinastia
Tokugawa
(che va dal 1600 al 1867) è infatti impeccabile, non
solo nelle rappresentazioni della vita di corte o
nelle intense scene di battaglia ma anche negli usi
e costumi della gente più umile, ed il realismo
storico dei racconti si accompagna ad un realismo
delle immagini sempre più pronunciato. Per darne
un'idea, diciamo solo che, per calare il lettore nel
preciso contesto storico, i testi contengono anche
molti termini antichi, oggi spesso conosciuti agli
stessi giapponesi, mentre lo stile dei disegni è più
affine alle antiche stampe giapponesi che ai cartoon
americani.
Il
protagonista della serie è il samurai Itto Ogami,
l'ex boia del regno, che, caduto in disgrazia a
seguito di un intrigo di corte in cui è rimasta
uccisa sua moglie, gira il Giappone accompagnato dal
figlioletto Daigoro, in attesa di avere i mezzi per
attuare la sua vendetta contro i responsabili: il
clan Yagyu, guidato dal patriarca Retsudo. Per
ottenerli diventa un ronin, un samurai senza
padrone, in pratica un vero e proprio assassino a
pagamento, mettendo la sua maestria nell'arte del
combattimento al servizio di chi è disposto a
pagare
la forte somma che chiede per ogni omicidio. Itto
Ogami, per raggiungere i suoi scopi, si è immerso
metaforicamente col figlio nel Meifumado, l'Inferno
buddista, e ha rinunciato al proprio onore, dal
momento che rifiutando di uccidersi si è ribellato
allo shogun, il "gran generale" del paese. Assolve
quindi i suoi sanguinari incarichi da assassino
senza troppi scrupoli, eppure sotto altri aspetti
resta fedele al proprio codice di samurai e, non
solo non si abbandona mai a crudeltà inutili e
manifesta pietà anche per i nemici che uccide, ma,
quando ne ha la possibilità, ovvero se non rischia
di compromettere la sua missione di vendetta, prende
le difese dei poveri e dei derelitti che incontra e
che a loro volta spesso lo aiutano, lo ospitano e lo
rifocillano per pura umanità. Altre volte invece,
singoli individui o addirittura interi villaggi
cercano di ucciderlo per intascare l'enorme taglia
che è stata messa su di lui. Infatti è diventato
famoso in tutto l'impero come Kozure Okami, il "Lupo
con il Piccolo appresso", il più pericoloso e temuto
assassino del Giappone, e gli avvisi di cattura che
riproducono la sua faccia e quella del figlio si
moltiplicano. Solo contro tutti, insieme al bambino
che crescendo acquista una sempre maggior
dimestichezza con la severa disciplina e le arti
marziali del padre, Itto riesce ad uccidere tutti i
figli di Retsudo, fino al duello finale con
l'acerrimo nemico, che, a causa di varie
interruzioni e impedimenti, si protrae per
moltissimi episodi, mentre i due avversari
mantengono sempre un estremo rispetto l'uno per
l'altro. Invece il subdolo avvelenatore Abe Tanoshi,
il capo degli assaggiatori di corte che cerca di
uccidere ambedue i rivali per soddisfare le proprie
ambizioni di potere, è disprezzato da entrambi,
poiché a differenza di loro non è un bushi, un
guerriero, e non segue minimamente le regole
dell'onore.
La saga si compone di centoquarantadue episodi (poi
raccolti in ventotto volumi), realizzati tra il 1970
e il 1976. In questo periodo lo stile di Kojima
matura moltissimo, impiegando tecniche grafiche
affini tanto alla pittura zen quanto
all'impressionismo europeo (forme rese vivide con
pochi segni rapidi, contrasti accennati con
pennellate di toni di grigio a mezza tinta,
sfumature ed effetti di movimento ottenuti con
tratteggi approssimativi ma efficaci), mentre i suoi
disegni si fanno sempre più precisi, dettagliati ed
accurati. Basta guardare il modo in cui è disegnato
il piccolo Daigoro nei primi episodi, dove, seppure
già lontano dallo stile dei manga "alla Tezuka",
risulta in parte ancora un po' "pupazzettistico".
Nel corso degli anni e delle avventure,
approfittando anche della progressiva crescita del
bimbo, il disegnatore ha avuto modo di renderne le
fattezze sempre più verosimili e di arricchirne
moltissimo l'espressività del volto, di pari passo
con l'impercettibile ma costante progredire delle
sue capacità grafiche, o meglio, con la sua sempre
maggiore pratica nel far vivere le figure
nell'angusto spazio delle vignette, anziché in
quello ampio dei manifesti che realizzava in
passato. Il crescente realismo non va però a scapito
dell'espressionismo ottenuto tramite vari effetti
grafici, che ha sempre e comunque la precedenza e
che anzi aumenta anch'esso col tempo. Questo
comporta anche un uso sempre maggiore di vignette
più grandi e inquadrature più ravvicinate. La
sensazione che si ha, è che all'inizio le esigenze
dei racconti, o la necessità di realizzarli con
certi ritmi, limitassero la forza espressiva di
Kojima, che, per essere funzionale ad una narrazione
di rapido consumo, vi subordinava le proprie
esigenze creative, mentre col tempo è riuscito a
prendersi gli spazi necessari per esprimere in ogni
immagine il più efficace effetto drammatico
possibile.
Mentre nell'ultima quarantina di episodi di Kozure
Okami prevale un andamento a puntate, con i
complicati intrighi di Abe Tanoshi che si
protraggono nel tempo e la suspense dell'ultimo
scontro tra Itto e Retsudo sempre rinviato, i primi
cento episodi circa sono leggibili anche come brevi
racconti auto-conclusivi, ognuno costruito in modo
originale, attraverso sapienti montaggi delle
inquadrature, con un campionario umano composto da
popolani, nobili, contadini, guardie o criminali che
di volta in volta sono protagonisti delle loro
singole vicende umane, entrate fatalmente in
contatto con quella più ampia del "Lupo con il
Piccolo". Naturalmente molte storie raggiungono
l'apice del climax nelle scene di battaglia, sempre
tratteggiate da Kojima con rara efficacia ed un
dinamismo estremo, ma non mancano anche racconti di
genere completamente diverso, dai primi incontri di
Daigoro con le difficoltà della vita, che affronta
ogni volta con la forza d'animo di un autentico
samurai, a tragiche storie d'amore o di sofferenze
umane, in cui la sorte, o l'intervento di un ronin
come Itto Ogami, può portare improvvisi
rovesciamenti di fortuna. Intanto le epiche scene di
tensione drammatica e violenza sanguinaria, ogni
tanto cedono il posto a poetici panorami o dettagli,
con effetti di sospensione tipicamente zen, in
sintonia coi contenuti e il contesto delle storie.
Elementi della cultura e della filosofia buddista,
fondamentale nella storia del Giappone e
particolarmente legata alla casta dei samurai, sono
evocati continuamente dagli autori, attraverso
riferimenti disseminati lungo tutta la serie,
permettendo anche ai lettori occidentali di intuire
come la dottrina Zen fosse strettamente intrecciata
al Bushido, la via del guerriero (6).
Kozure Okami divenne enormemente popolare,
soprattutto per una serie gekiga, arrivando a
vendere circa otto milioni di copie, anche se si può
presumere che il successo fosse dovuto in primo
luogo alle esagerate scene di battaglia in cui il
protagonista riesce a sconfiggere interi eserciti
praticamente da solo, piuttosto che agli elementi
più impegnati, storici o filosofici della serie.
Comunque, nel giro di due anni, molto prima che la
saga arrivasse alla sua conclusione, Koike si
ritrovò a scriverne il primo adattamento
cinematografico, a cui seguirono altri cinque film,
girati con un ritmo piuttosto rapido tra il 1972 e
il 1974. Gli ultimi tre furono prodotti direttamente
da Tomisaburo Wakayama, l'attore che interpretava il
ruolo di Itto Ogami. Pare che intere sequenze del
fumetto vi siano state ricostruite molto fedelmente,
sicuramente grazie alla collaborazione dell'autore
originale. In ogni caso, anche le esigenze
commerciali non furono certo trascurate, visto che,
nei film dopo il secondo, il climax viene sempre
raggiunto quando il "Lupo con il Piccolo" combatte e
vince da solo contro tutti (l'ultimo lungometraggio
della serie, con centocinquanta nemici eliminati,
detiene addirittura il sinistro primato del maggior
numero di persone che siano mai state uccise in un
solo film, da un singolo personaggio). Parti dei
primi due film furono anche rimontate in una
pellicola tradotta in inglese e distribuita negli
Stati Uniti nel 1980, col titolo Shogun Assassin,
mentre il terzo film è stato ridistribuito negli USA
in DVD come Shogun Assassin 2.
Sempre da Kozure Okami fu tratta anche una serie di
telefilm, durata tre stagioni di ventisei episodi,
dal 1973 al 1976, e distribuita in vari paesi
occidentali con titoli come "Il Samurai Fuggitivo" o
"Il Samurai di Ferro". In Italia fu intitolata
semplicemente Samurai e rese familiare anche da noi
il carrettino per bambini in cui Itto Ogami spingeva
il figlio Daigoro ancora piccolo, i cui bordi
staccabili potevano trasformarsi all'occorrenza in
armi micidiali. L'interpretazione televisiva di
Kinnosuke Yorozuya nel ruolo di Itto Ogami, e i
telefilm di questa serie in generale, sono
considerati ancora più fedeli al fumetto rispetto ai
film interpretati e prodotti da Wakayama, il ché è
comprensibile, visto che attraverso il maggior
numero di episodi, e quindi una maggiore durata, era
possibile riprodurre meglio il ritmo lento e ampio
dell'originale.
Sempre dalla serie di Koike e Kojima furono poi
tratti altri film per la TV (alcuni interpretati
dallo stesso Yorozuya), un ennesimo lungometraggio
nel 1992 e una seconda serie televisiva in due
stagioni, distribuita solo in Giappone tra il 2002 e
il 2004.
Kozure Okami, coi suoi serrati duelli alternati a
intensi momenti di suspense, è stato inoltre uno dei
fumetti giapponesi che più hanno influenzato il
dinamismo e la grafica del fumetto americano, ancora
prima di essere pubblicato negli USA, attraverso
l'opera di Frank Miller.
C'erano già stati fumettisti europei che si erano
occupati più o meno saltuariamente del mondo dei
samurai; in particolare, il francese Robert Gigi
aveva dedicato loro ben due serie, Hito e Ugaki.
Quest'ultimo, apparso per la prima volta nel 1972
sul settimanale olandese Eppo, era un ronin che nei
suoi vagabondaggi cercava il modo di vendicare il
suo signore (7).
Anche il maestro italiano Sergio Toppi ha realizzato
vari racconti incentrati sui samurai solitari. Nel
suo La Notte dei Samurai, disegnato su testi di Mino
Milani, si rievoca un fatto storico accaduto nel
1861: l'attacco di un gruppo di ronin sobillati dai
signori feudali contro la legazione inglese di
Tokio, un attentato a cui i diplomatici britannici
scamparono fortunosamente. In un suo racconto più
fantasioso intitolato Ogari 1650, vediamo invece un
ronin in miseria chiedere la carità ed essere
ingannato dagli abitanti di un villaggio, che
sfruttano il suo lavoro ma poi gli negano il cibo
richiesto; sarà l'incantesimo di un demone
ridacchiante a dare al samurai l'occasione per la
sua vendetta, che però risulterà fin troppo violenta
e avrà conseguenze spiacevoli anche per lui. Un
altro strano ronin, capitato chissà come nel West
della corsa all'oro e che sembra preferire la
pistola alla propria spada, appare in un'altra breve
storia di Toppi dal titolo Katana (8).
I francesi Patrick Cothias e Philippe Adamov, da
parte loro, nel ciclo Il Vento degli Dèi, narrano di
come il samurai Chen Qin, rimasto gravemente ferito
dopo uno scontro e raccolto da una prostituta,
intraprenda in sogno un viaggio nel mondo degli
spiriti da cui riemerge privo di memoria, mentre
attorno a lui si alternano soprusi spietati e
rivolte dei contadini. La sua nuova e miserabile
vita, che lo vede più volte comportarsi da vile e
fuggire di fronte ai suoi antichi compagni d'armi, è
un'occasione per superare i pregiudizi e l'arroganza
che ancora continuano in qualche modo ad agire
dentro di lui e comprendere le ingiustizie di un
sistema feudale basato sulla violenza e la
sopraffazione (9).
Lo statunitense Frank Miller, al contrario di tutti
questi autori, non è molto interessato agli aspetti
strettamente storici, ma ha una particolarità
rispetto a loro: lo spirito dell'antico Giappone,
filtrato da fumetti e film, è presente in quasi
tutti i suoi lavori, a prescindere dal luogo e
dall'epoca in cui sono ambientati. Già nelle sue
prime storie con protagonista il supereroe cieco
Daredevil, il mondo delle arti marziali occupa un
posto di primo piano e la grafica delle pagine
risente di influenze dal Giappone. Lo stesso si può
dire per le sue opere successive incentrate sul
mutante Wolverine o sulla moderna ninja Elektra (la
cui fuga da una setta orientale potrebbe ricordare
quella analoga di Kamui) e anche per il più recente
ciclo di Sin City, in cui c'è un ennesimo
personaggio femminile che sembra uscito da un film
di ninja.
E' come se Miller si fosse proposto come
continuatore dei gekiga, innestandone tematiche e
atmosfere nel cuore del fumetto di supereroi e
camuffandole con toni hard boiled da romanzo
d'azione. Ma è soprattutto Ronin (10), la sua prima
creazione completamente originale, costruita come un
vero e proprio romanzo a fumetti, a costituire un
chiaro omaggio all'opera di Koike e Kojima. I loro
nomi infatti vi sono citati esplicitamente in quelli
di due personaggi giapponesi e vi si fa riferimento
anche ad un telefilm incentrato su un ronin
leggendario, senza contare che gli antichi costumi
nipponici (e perfino la grafica delle nuvolette dei
dialoghi) sono ripresi fedelmente dalle vignette di
Kozure Okami. Fu quindi inevitabile che, quando nel
1987 uscì la prima edizione statunitense delle
avventure a fumetti di Itto Ogami, edita dalla First
Comics
col titolo tradotto in Lone Wolf & Cub (Il Lupo
Solitario e il Cucciolo), le prime copertine fossero
affidate a Miller e il loro stile risultasse in
perfetta sintonia con l'espressività delle pagine
interne di Kojima. Ma nel Ronin di Miller c'è anche
molto altro, a cominciare dai colori curati per la
prima volta dall'attuale moglie Lynn Varley, che, in
controtendenza con tutti i precedenti degli albi a
fumetti americani, basati su contrastanti tonalità
accese, utilizza sfumature tenui e raffinate
accostate in modo armonico, come in certi album
europei; ci sono addirittura pagine in cui tutta la
possibile varietà cromatica degli ambienti viene
resa attraverso sfumature diverse di pochissimi
colori.
Il protagonista della storia sarebbe un antico
samurai rimasto senza padrone, un ronin appunto,
che, giura vendetta contro un terribile demone che
ha ucciso il suo signore. Questo ronin, di cui non
sapremo mai il nome, si reincarna in una New York di
un futuro oggi non troppo lontano, una New York
degradata e depressa in piena crisi economica e
ambientale. Il nuovo corpo che lo ospita è quello di
Billy Challas, un handicappato privo di braccia e
gambe ma dotato di poteri telecinetici. All'inizio
del racconto, Billy viene sfruttato per far
funzionare mentalmente delle apparecchiature in un
impianto industriale basato su rivoluzionarie
biotecnologie e controllato da un computer vivente,
il complesso Acquarius. Una qualche forma di magia
fa sì che le macchine che circondano Billy si
innestino sul suo torso come braccia e gambe
bioniche, mentre il suo corpo si trasforma
letteralmente in quello del ronin. Riprende quindi
la sua secolare battaglia contro il demone, che si è
sostituito al proprietario di Acquarius dopo averne
assunto le fattezze. A complicare le cose c'è
l'ambiguo rapporto del protagonista con Casey
McKenna, la bella responsabile della sicurezza di
Acquarius di cui Billy era innamorato, ora
incaricata di rintracciare e catturare il ronin, nei
bassifondi di una città lontana dal Giappone feudale
ma altrettanto violenta.
Se l'ispirazione stilistica del disegno si ritrova
soprattutto in Kozure Okami (ma non solo), il
racconto, che parla di un guerriero con membra
artificiali che si scontra con dei demoni, ricorda
in parte la trama di un altro fumetto giapponese
ambientato nel medioevo locale, il già menzionato
Dororo di Osamu Tezuka, in cui il giovane Hyakimaru,
dopo essere stato fatto letteralmente a pezzi da dei
demoni, viene soccorso da un falegname che gli
innesta degli arti di legno, con cui lotterà per
riconquistare le braccia e le gambe perdute. È
affascinante il modo in cui Miller rielabora tutto
in chiave moderna, con riferimenti all'uso etico o
meno della tecnologia e all'isolamento di chi riesce
a vivere solo per mezzo di macchine e sogni. In
Ronin, perfino le apparenti ingenuità e incongruenze
del soggetto si rivelano punti di forza della trama
e indispensabili presupposti per successivi colpi di
scena, visto che nel corso della storia tutti i
pezzi vanno al loro posto o quasi, benché
l'esplosivo finale (culminante in una grande
immagine pieghevole equivalente a quattro pagine)
sia originale anche nel non essere completamente
conclusivo; i personaggi infatti sono abbandonati in
un momento che non appare come una vera e propria
fine, ma fa piuttosto presagire l'inizio di qualcosa
che è lasciato completamente all'immaginazione del
lettore.
Il disegno di Miller, che qui si occupa di testi,
matite e chine, pur essendo espressivo come sempre,
presenta anche qualche incertezza, soprattutto
all'inizio, rispetto alle classiche storie di
supereroi in cui si avvaleva della collaborazione di
esperti inchiostratori come Klaus Janson, Terry
Austin o Josef Rubinstein. Infatti Miller, anche se
si può dire che raggiunga qui una sua piena maturità
artistica, arriva al suo definivo stile
d'inchiostrazione solo otto anni dopo, con Sin City.
In Ronin, il suo tratteggio dinamico nelle scene
d'azione riprende e rielabora in modo efficacissimo
quello di Kojima in Kozure Okami, ma, in alcune
delle scene più statiche, certi tratti secondari, in
particolare sui volti dei personaggi, risultano un
po' goffi e di spessore troppo grosso, mentre al
contrario le linee principali che delimitano i
contorni dei corpi sono spesso fin troppo sottili,
come se l'autore, pur esprimendosi sempre con grande
impeto artistico e sperimentando freneticamente
nuove soluzioni grafiche quasi ad ogni pagina, non
avesse sempre il perfetto controllo degli strumenti
che usa. Andando avanti però, Miller padroneggia
sempre più questo suo modo tecnicamente non
ortodosso di usare la china, raggiungendo un ottimo
equilibrio stilistico, in cui l'approccio naif,
memore di certi esempi di Hugo Pratt o del belga
Didier Comès, si armonizza perfettamente con
l'originalità della storia e dei colori.
Un altro elemento caratteristico del suo Ronin, cioè
la totale assenza sia di didascalie descrittive che
di pensieri dei personaggi, fino a quel momento
decisamente anomala nei fumetti U.S.A., per non dire
quasi del tutto inedita, era invece comune sia a
molti manga e gekiga che a serie europee come
Thorgal o Ken Parker, ma è probabile che anche in
questo Miller si sia ispirato soprattutto a Pratt,
oltre che naturalmente alle sequenze mute del solito
Kozure Okami. Ma a differenza del realismo di quest'ultimo,
in Ronin si evoca un mondo disastrato in cui tutto è
fagocitato da una tecnologia vivente la cui
concezione fantastica permette a Miller di
sbizzarrirsi nel creare scenografie senza nessun
rapporto con la realtà, decisamente più surreali dei
macchinari, altrettanto immaginari ma ben più
"solidi", disegnati da Jack Kirby attorno ai vecchi
supereroi Marvel; vi si intravede piuttosto l'eco
dei vasti mondi alieni e delle bizzarrie meccaniche
che popolano i fumetti del francese Moebius. In
comune con Kirby c'è invece l'uso insistente di
grandi immagini singole disposte su due pagine, che
in Ronin però sono usate non tanto per rendere più
epiche le scene di movimento, quanto per soffermarsi
su panoramiche mute di ciò che sta accadendo
dell'ambiente circostante, spezzando il ritmo
dell'azione in corrispondenza dei cambiamenti di
scena. In altri punti della storia si trovano poi
vignette non allineate e che escono dai margini, o
disposte su due pagine alternando panoramiche e
dettagli più piccoli, in modo analogo a certe
soluzioni tipiche, ancora una volta, di Kozure Okami.
È proprio questo amalgama di Oriente e Occidente, di
antico e moderno, di tecnica e anima, che riguarda
sia il racconto che la sua rappresentazione grafica,
a rendere questo fumetto in particolare, e l'opera
di Miller in generale, un ideale punto di sintesi di
quanto era stato realizzato in precedenza in forme
diverse e una possibile anticipazione per potenziali
artistici ancora più alti da sviluppare in futuro,
come accade per ogni autore fondamentale.
Dopo la pubblicazione di questa miniserie, il
termine "ronin" (in giapponese letteralmente
"uomo-onda", "uomo alla deriva"), usato per indicare
i samurai mercenari senza padrone, che fino a quel
momento era ancora abbastanza poco noto in
occidente, cominciò ad essere usato, ad esempio, in
film d'azione statunitensi che apparentemente non
avevano niente a che fare con l'antico Giappone, ma
in cui, in modo più o meno esplicito, si faceva un
parallelo tra la condizione del samurai vagante e
quella del moderno sicario a pagamento o dell'agente
indipendente, attribuendo quindi anche a certi
assassini o spie di oggi un analogo codice d'onore e
un analogo senso di fatalità e distacco
nell'eseguire i propri compiti, o almeno è così che
tali personaggi volevano vedere sé stessi in quelle
pellicole.
Se ci si pensa, il concetto di "uomini d'onore"
nell'ambito di gruppi criminali non è nulla di
nuovo. Lo si trova sia nella Mafia siciliana che in
altre associazioni a delinquere, sia italiane che
estere, compresa la Yakuza, la mafia giapponese, i
cui membri amano davvero considerarsi come moderni
eredi dei samurai, anche se in realtà non si
attengono certo alle autentiche regole del Bushido.
Niente di più naturale quindi, che paragonare ai
ronin i criminali e gli avventurieri che lavorano in
proprio. In particolare, un film del 1998, diretto
da John Frankenheimer e interpretato da Jean Reno e
Robert De Niro, utilizzò proprio il titolo Ronin,
senza avere assolutamente nulla a che fare col
fumetto di Miller. Si può dire insomma che il
parallelo, proposto già dai gekiga giapponesi e poi
da Miller stesso nelle sue storie di supereroi, tra
assassini moderni e arti marziali antiche, abbia
attecchito molto bene anche nel cinema, prima ancora
che i fumetti di Miller fossero trasposti
direttamente sullo schermo (11), fino al caso
emblematico del film Kill Bill di Quentin Tarantino,
in cui i due elementi sono uniti più strettamente
che mai.
Concettualmente e visivamente ancora più eccessivo,
ma proprio per questo più vicino al fumetto di cui
stiamo parlando, è stato poi il film Matrix dei
fratelli Wachowski, in cui, nello stesso stile
cyberpunk prefigurato dal Ronin di Miller, un altro
piccolo uomo attaccato ad una macchina si trasforma
in un guerriero invincibile. Del resto, da Guerre
Stellari in poi, sempre più spesso eroi ed antieroi
dei film americani sono dovuti ricorrere al fascino
delle arti marziali e delle filosofie orientali per
attirare il pubblico.
Ora sul grande schermo, se tutto va bene, dovrebbe
essere la volta dell'autentico Ronin, un personaggio
allo stesso tempo antico e moderno, romantico e
tecnologico, tradizionale e innovativo. Resta da
vedere che cosa ne faranno.
Note:
1) Nel 1983, l'unico autentico fumetto giapponese
pubblicato negli U.S.A., dopo una precedente
edizione inglese, era Hadashi no Gen (Gen dai Piedi
Scalzi), noto in Occidente anche come Gen di
Hiroshima, una serie di denuncia civile in parte
autobiografica realizzata da Keji Nakazawa dal 1973,
in cui si raccontano le avventure di un ragazzo
sopravvissuto allo scoppio della bomba atomica su
Hiroshima, tragedia collettiva in cui avevano perso
realmente la vita il padre e i fratelli dell'autore.
2) Il pittore Hokusai (1760-1849), nato col nome di
Tokitaro, nei vari periodi della sua produzione usò
molti nomi: Katsushira (dal nome del distretto in
cui nacque), Shunro (Splendore di Primavera), Sori
(dal nome del fondatore della scuola Tawaraya),
Hokusai (Studio della Stella del Nord), Iitsu (Di
Nuovo Uno) e Manji (la Svastica, per i buddisti
simbolo di prosperità). Nel periodo in cui realizzò
la maggior parte dei libri dei Manga, si firmava
invece Taito (dal nome di una stella dell'Orsa
Minore). Ne pubblicò dieci volumi tra il 1814 e il
1819, altri due nel 1834 e un tredicesimo nel 1849,
mentre gli ultimi due furono pubblicati postumi.
Quindi si può dire si sia dedicato fino alla morte a
questa produzione, solo in apparenza minore,
comprendente immagini quotidiane e studi di ogni
genere.
3) I venticinque volumi di Blackjack, i tre volumi
di Ayako e i cinque volumi di Adolf Ni Tsugu (La
Storia dei Tre Adolf ), di Osamu Tezuka, sono stati
pubblicati in Italia dalle Edizioni Hazard.
4) La serie Kamui Gaiden (L'Altro Racconto di Kamui),
di Sampei Shirato, in Italia è apparsa a puntate a
partire dal 1991 su Mangazine, una rivista della
Granata Press specializzata in fumetti giapponesi.
Come altre serie poté essere pubblicata negli U.S.A.
alla fine degli anni '80, e poi anche in Italia,
accettandone il rovesciamento speculare delle pagine
per adattarla al senso di lettura occidentale. -
Kamui è il nome del dio supremo nella religione
degli Ainu, una minoranza etnica del Giappone.
5) I ventotto volumi di Kozure Okami di Koike e
Kojima, in Italia sono stati pubblicati dal 2003 al
2008 dalla Panini Comics, col titolo americano di
Lone Wolf & Cub e col senso di lettura originale da
destra a sinistra, come altri fumetti giapponesi i
cui autori si sono opposti al ribaltamento dei
disegni.
6) Mentre la maggior parte dei Giapponesi seguiva lo
Shintoismo o differenti correnti buddiste, intorno
al XIV secolo la casta dei samurai adottò il
Buddismo Zen (Chan in cinese, Dhyàna in sanscrito,
cioè "contemplativo"), poiché la sua disciplina
spirituale tesa a cogliere l'essenza delle cose lo
rendeva adatto a favorire la concentrazione e a
vincere il timore della morte. Poi, in seguito alla
pace tra i vari clan imposta dallo shogun, tra il
XVI e il XVII secolo le tecniche guerriere (Bujutsu)
divennero la Via del guerriero, il Bushido, una
disciplina i cui aspetti filosofici di ricerca e
coerenza interiore erano ora più importanti dei
risultati ottenibili sui campi di battaglia, e
l'arma preferita dei samurai divenne una lunga spada
(la Katana) usata soprattutto in duelli singoli, al
posto dei precedenti arco e lancia. - Sui rapporti
tra Zen e Bushido, si può vedere ad esempio il libro
del maestro Taisen Deshimaru "Zen et Arts Martiaux"
Édition Seghers 1977, edizione italiana "Lo Zen e le
Arti Marziali", SE 1995.
7) Ugaki di Robert Gigi è stato pubblicato in
Italia, negli anni '70, sulla rivista Sorry e nel
1985 gli è stato dedicato l'album n°12 della collana
Gli Albi di Orient Express, delle edizioni L'Isola
Trovata.
8) La Notte dei Samurai è stato raccolto con altri
racconti di Milani e Toppi nel volume "Samurai e
Altre Storie", collana Avventura e Storia n° 8,
Fabbri Editori, 1980. - Ogari 1650 è stato
pubblicato su Alter Alter n°1 del 1977 e raccolto
nel volume di Sergio Toppi "Sacsahuaman", Milano
Libri, 1980. - Katana è stato pubblicato in bianco e
nero nel 1988 su Comic Art n°40 e a colori, con
altre due storie di Toppi, nell'album "Myetzko ed
Altri Racconti", collana Grandi Eroi n°100, Comic
Art 1991.
9) Gli album del ciclo Il Vento degli Dèi, di
Cothias e Adamov, sono usciti in italiano, a pochi
mesi di distanza dalla loro edizione francese, nella
collana Avventure nella Storia, Glénat Italia
1986-1991.
10) Ronin di Frank Miller, in Italia uscì a puntate
sulla rivista Corto Maltese e fu raccolto in volume
da Milano Libri nel 1991. Una seconda edizione in
volume è stata pubblicata da Magic Press nel 1999 e
una terza edizione, di grande formato, è attualmente
disponibile nel catalogo di Planeta De Agostini.
11) Sull'opera di Frank Miller in generale e i suoi
rapporti col Cinema, si può vedere il saggio di
Gianluca Aicardi, Sin Cinema, Editrice Tunué 2005,
in cui però non si cita il film 300, uscito due anni
dopo.
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