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recensioni cinematografiche
L'aldilà secondo Eastwood
"Hereafter"
Clint Eastwood
(Quattro Fontane, 1)
Strano film quest'ultimo di Eastwood. Tre storie che
scorrono ciascuna col proprio sviluppo, per poi
convogliare alla fine in un sincronico punto di
incontro, permettono al regista statunitense di
affrontare il tema dei temi: cosa c'è dopo la morte?
Dove porta questo passaggio? Che cosa avviene dopo,
in quell'aldilà (hereafter) che dà inoltre il titolo
alla pellicola? Essendo la morte, la grande
rimozione di questi anni, grande è il coraggio nel
decidere di fare un film interamente dedicato,
appunto, alla morte, a chi la sfiora, a chi la
subisce anzitempo, a chi, addirittura, ha il dono di
riuscire a stabilire un contatto con i defunti,
alzando così il velo di ipocrisia e di
incontrollabile paura che circondano di solito
questi temi. Ripeto: grande coraggio e grande
libertà creativa. Eppure il film non mi sembra
riuscito del tutto. Intendiamoci: ci sono sequenze
straordinarie, come l'onda terribile dello tsunami
del 2006, rielaborata al computer, che apre il film
con una potenza visiva ed emotiva fortissima,
assieme a quanto accade alla giornalista francese, a
quello che vede e che prova, davvero splendido e
arduo da proporre immaginativamente senza cadere
nella trappola della banalità o del già visto,
tuttavia qualcosa non torna.
Le tre storie che scorrono parallele prima di
convergere vedono tre protagonisti: Marie (Cécile De
France), un'affermata giornalista parigina, che dopo
essere stata travolta dall'onda gigantesca che
trascina tutto, case, vetture e individui in
un'unica, spaventosa violenza, e, data ormai per
morta dai suoi occasionali soccorritori, riprende a
respirare e a 'vivere', portando con sé il sentore
di un'esperienza che le cambierà totalmente la vita;
George (Matt Damon), il sensitivo di San Francisco,
che stanco e disperato del suo genuino dono di
parlare con persone morte, volta le spalle ad una
facile notorietà e al denaro che ne scaturisce, per
lavorare come operaio in una fabbrica nel tentativo
di costruirsi una vita e degli affetti tra i vivi;
Marcus (George Mc Laren), un bambino londinese,
figlio di una madre mentalmente assente perché
eroinomane, è fratello gemello di Jason, il quale
muore investito da una macchina, provocandogli un
trauma che lo porta ad un quasi mutismo con i nuovi
genitori affidatari e a un dolore che pare
inconsolabile oltre che a un senso di colpa
devastante (era lui che doveva andare in farmacia
per prendere delle pasticche alla madre).
Questi tre sopravvissuti alla morte che li ha
sfiorati, toccati o traumatizzati, rimanendo fedeli
alla loro esperienza, perseguono tenacemente un loro
obiettivo, che li porterà ad una liberazione finale,
che se, da un lato, è finissima psicologicamente
parlando, dall'altro, soprattutto nell'incontro
finale, ha un po' dell'inverosimile. In questo
percorso, Eastwood mostra varie opzioni sull'aldilà
senza dare alcuna risposta. Ci sono elementi "che la
ragione non coglie" (direbbe Leopardi), ma non per
questo sono meno autentici e/o veri. È attento anche
a smascherare tutto un mondo di ciarlatani che
specula e guadagna sul dolore altrui, sull'ottusità
di certi atei ("si spegne la luce, e tutto è
finito"), sulla meccanicità di certe funzioni
funerarie che si svolgono in chiesa, una dietro
l'altra, con gelido pragmatismo. Qualcosa, tuttavia,
nella struttura narrativa non funziona; certi
passaggi si avvertono zoppicanti e farraginosi.
Inoltre il concetto psicologico di sincronicità,
spiegato superbamente da Jung, e che nel film viene
applicato come destino nell'incontro e quasi
riconoscimento finale dei tre protagonisti,
all'inizio tra loro lontani e sconosciuti, mi pare
un po' troppo semplificato per non dire banalizzato.
Perciò sostengo che il film non sembra riuscito del
tutto nonostante la sequenza memorabile dell'inizio
e la bravura di Eastwood nel descrivere con pochi
tratti certe incredibili durezze del vivere
contemporaneo come ad esempio, su tutte, la
copertura che i due figli gemelli danno alla propria
madre, inerme, indifesa, persa nelle sue obnubilanti
sostanze tossiche, facendo praticamente da genitori
alla propria stessa madre (è uno dei momenti più
toccanti e più illuminanti del film) oppure il
freddo e vigliaccuccio cinismo con cui il regista
televisivo, che ha una relazione con Marie, la
scarica sia affettivamente sia professionalmente con
grande disinvoltura o anche l'ansia di recuperare il
cappello, che una folata di vento va volare via
dalla testa di Marcus, con la macchina da presa
posta bassa, ad altezza di bambino, sì da
sostanziare un'angoscia crescente, presente
nell'animo del piccolo. Lo sguardo del regista non
giudica, ma sembra come ricoprire di un'umanissima
pìetas e compassione (cum patior: soffrire con) i
personaggi delle sue storie, che si dibattono sempre
in situazioni molto sofferte e difficili.
Continuo a pensare che Clint Eastwood sia tra i più
grandi narratori (viventi) per immagini, ma films
come "Mistic river", "Million Dollar Baby" "Lettere
da Iwo Jima" e "Gran Torino" sono di caratura
superiore rispetto a questo pur interessante ma non
compiutissimo né riuscitissimo, oltre che
seriosissimo, "Hereafter".
Maria Antonietta Nardone
* * *
IL DISCORSO DEL RE
di Tobe Hooper
con Colin Firth, Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter
12 candidature all'Oscar ed un Golden Globe al
protagonista Colin Firth non fanno di "Il discorso
del re" quel capolavoro della cinematografia moderna
che molti critici d'oltremare hanno millantato.
Certamente si tratta di un film intelligente e ben
confezionato ma, fondamentalmente, molto più furbo
che sentito.
Del resto va a toccare quelle corde facili che
piacciono così tanto ai membri dell'Accademy: l'uomo
che si trova alle prese con situazioni più grandi di
lui, il valore dell'amicizia e della solidarietà, la
capacità di vincere l'handicap grazie alla forza di
volontà e alla presa di coscienza di se stessi.
La storia è semplice e vera. Il Principe Alberto,
fratello del futuro Re d'Inghilterra, soffre di
balbuzie. Il che non sarebbe un grande problema se
suo fratello non decidesse un bel giorno di abdicare
per amore della divorziata Wallis Simpson.
E così il povero Alberto si ritrova suo malgrado ad
assurgere al trono nei panni di Re Giorgio VI°,
mentre l'Inghilterra non dorme e dichiara guerra ad
Hitler.
Urge trovare un logopedista, magari anche non
laureto, per ovviare alle balbuzie del re.
Ci pensa la moglie Elisabetta, madre della futura
Regina Elisabetta II e nonna del famoso Carletto
che, tra Lady D e Camilla "vorrei essere il tuo
tampax", darà un colpo ferale alla rispettabilità
della corona.
E così entra in scena Lionel Logue, australiano
trapiantato a Londra che si occupa di chi ha
problemi nel parlare.
Il film naviga in superficie, non cerca motivazioni
psicologiche ai disturbi del Re e accenna giusto a
qualche trauma infantile legato ad un'educazione di
stampo troppo rigido.
Invece punta molto sulla recitazione ineccepibile di
un Colin Firth da Oscar, bravissimo nel saper
tratteggiare la figura di un uomo che, per diritto
di nascita, dovrebbe essere superiore agli altri ma
che invece, dentro l'anima, si sente l'esatto
contrario.
Anche il suo antagonista, Geoffrey Rush, è
assolutamente perfetto nei panni del logopedista con
l'aria alla Leonard Cohen e lo spirito irriverente.
Il finale del film è un mix perfetto di musica,
parole, sguardi e pathos storico, con il discorso
del Re che accompagna le truppe al fronte mentre
l'ormai amico per sempre Logue gli fa da gobbo.
Ma la scena da tramandare ai posteri è molto più "british"
e riguarda la moglie del logopedista la quale,
ignara dei reali clienti del marito, torna a casa
prima del dovuto e si ritrova seduta in cucina la
Regina d'Inghilterra.
Mario Gardini
* * *
BURLESQUE
di Steve Autin
con Cher, Christina Aguilera, Stanley Tucci
Probabilmente il regista Steve Antin pagherebbe oro
pur di sentirsi definire un Bob Fosse dell'era
videoclip, ma questo "Burlesque" ha molto più a
vedere con un banale "Flashdance" di Adrian Lyne che
con i capolavori musicali del grande
regista/coreografo scomparso nel 1987.
La storia è trita e ritrita: Ali (Christina Aguilera),
una ragazza che vive in una grigia provincia
americana, molla il suo lavoro di cameriera e
insegue il sogno di diventare una star nella grande
Los Angeles.
Qui trova lavoro in un locale chiamato Burlesque
grazie ad un cameriere non gay ma con un sacco di
eyeliner sulle ciglia.
Tess, la padrona della melunera (interpretata da
Cher), è oberata dai debiti e sta lottando per non
vendere il suo amatissimo locale ad un ricco magnate
del mattone che ne vuole fare un grattacielo con
vista panoramica. Così non presta troppa attenzione
alla ragazza e non le offre la grande occasione che
l'ambiziosa fanciulla va cercando.
Però, grazie ad una ballerina alcolizzata ed
invidiosa che le stacca la musica durante lo show,
Ali potrà finalmente tirare fuori una voce della
madonna (non nel senso di Louise Veronica Ciccone),
far ricredere la sua boss e consacrare se stessa ed
il locale al successo.
Tra un balletto ed un alterco sentimentale, si
arriva sbadigliando all'happy ending con Ali che
aiuta Tess a salvare il Burlesque con un escamotage
legale e si impalma il suo bel cameriere divenuto,
nel frattempo, songwriter.
La Aguilera canta bene ma recita male, assomigliando
a tratti in modo quasi imbarazzante alla nostra
Nancy Brilli.
Cher, al centoventesimo lifting, non ha mezza ruga
ma nemmeno più un'espressione. Eppure, quando canta
"You haven't seen tha last of me" mette a tacere la
giovane antagonista e si porta a casa un
meritatissimo Golden Globe per la miglior canzone
originale.
Il parco maschile del film è di una bellezza
mozzafiato, ma su tutti spicca Stanley Tucci, forse
il meno glamour ma di sicuro il più affascinante per
classe e carisma.
La colonna sonora passa via abbastanza inosservata
(peccato mortale per un musical) e in una scena,
quella del post coitum tra la Aguilera e il suo
boyfriend, il riferimento a "Cabaret" è
inequivocabile.
Peccato ci sia più talento in una singola unghia
verde di Liza Minnelli che in tutti i 119 minuti di
questo film.
Mario Gardini
* * *
Amore e altri rimedi
USA 2010
con Jake Gyllenhaal, Anne Hathaway, Oliver Platt
Lui è un simpatico bastardo dal pisello allegro che,
proprio a causa di questo, ha appena perso il suo
lavoro di venditore. Lei è una tipa tosta di 26 anni
al primo stadio del Parkinson. Lui, a ritmo di
Macarena, diventa informatore farmaceutico e
soccombe nella guerra tra Prozac e Zoloft. Lei vuole
solo sesso e rifugge così tanto da qualsiasi impegno
sentimentale da sembrare quasi un maschio gay. Lui
assurge alla gloria grazie all'avvento del Viagra
che, come giustamente ci ricorda Belinda Carlisle, è
il Paradiso sulla Terra. Lei organizza gite per
vecchietti in Canada dove le medicine costano di
meno.
Complice una borsettata in testa, tra i due esplode
la passione, destinata a trasformarsi rapidamente in
qualcosa di più profondo. Ma la malattia incombe e
la paura di una vita a due, in questo caso, è più
giustificata che mai. Nonostante qualcuno consigli
molto carinamente al giovane di scappare a gambe
levate prima che sia troppo tardi, lui invece decide
il contrario. Ma sarà lei quella intenzionata a
troncare prima di dover dipendere troppo, sia
psicologicamente che fisicamente, da qualcun altro.
È vero, siamo a Hollywood. Però fa sempre bene
all'anima pensare che l'amore possa essere più forte
di tutto, perfino del Parkinson. Anche perché il
regista Howard Zief ci risparmia di vedere come
diventerà la bella Maggie una volta raggiunto il
quinto stadio.
Una buona sceneggiatura, ricca di humor nero, aiuta
a superare con un sorriso anche le parti più pesanti
del film, che mantiene comunque un encomiabile
equilibrio tra dolce e amaro per quasi tutta la sua
(forse un po' eccessiva) durata.
Jake Gyllenhaal e Anne Hathaway, già sposi infelici
in Brokeback Mountain, sono belli, bravi e si
candidano a diventare la coppia simbolo di un'epoca
squallida in cui è più facile dire "scopiamo" che
"ti amo". Eppure, alla fine, la morale è sempre
quella: a cosa serve possedere qualsiasi cosa se non
hai accanto una persona cara con cui dividerla?
Con un contorno di medici disillusi, infermiere
passepartout e un barbone che si rifà una vita
grazie agli antidepressivi trovati in un cassonetto,
"Amore e altri rimedi" è un film piacevole e, a
tratti, toccante, il quale può vantare, tra i suoi
vari meriti, anche quello di farci dire addio a Jill
Clayburgh, donna tutta sola scomparsa lo scorso
novembre a soli 66 anni.
Mario Gardini
* * *
Il cigno nero
USA 2010
di Darren Aronofsky
con Natalie Portman, Vincent Cassel, Barabra Hershey
Nina è una bella e tormentata adolescente mai
cresciuta. Fa la ballerina a New York e vive in una
specie di casa di bambole con una madre opprimente
che riversa su di lei tutte le sue frustrazioni di
"etoile" mancata.
Un giorno per Nina arriva finalmente la grande
occasione: essere Odette, la protagonista de "Il
lago dei cigni", interpretando il doppio ruolo sia
del cigno bianco che di quello nero.
Però il regista/coreografo francese (un viscido
Vincent Cassel) la mette sotto pressione poiché la
sua innocenza e la sua ossessiva ricerca della
perfezione la rendono straordinaria nel ruolo del
cigno bianco, ma la sua totale carenza di sensualità
la penalizza in quello del suo malvagio alter ego.
Oltretutto nel corpo di ballo si è appena aggiunta
la provocante Lili (Mila Kunis) che toglie il sonno
a Nina non solo per la paura che le soffi la parte,
ma anche per i desideri saffici inconfessati della
povera ragazza.
Ma sarà proprio Lili la chiave di volta che farà
emergere la metà oscura di Nina portandola al
trionfo ma, nello stesso tempo, condannandola alla
rovina.
Morboso e patinato, presuntuoso ma privo di grande
spessore artistico, "Il cigno nero" tocca tanti temi
senza approfondirne nessuno.
L'anoressia, i sacrifici per arrivare al successo,
la disperazione di chi si avvia lungo il viale del
tramonto sono solo tante piccole particelle di un
insieme che da una lato affascina per la sua forza
immaginifica ma, dall'altro, annoia per la
prevedibilità della trama.
Il regista Darren Aronofsky, che divenne famoso
resuscitando Mickey Rourke nel pluripremiato "The
wrastler", qui gioca un po' troppo a fare Andrzej
Zulawski, anche se del collega polacco non ha né il
talento onirico né lo spirito sulfureo.
Il film si regge interamente sulle spalle di una
bravissima Natalie Portman (giustamente premiata con
l'Oscar) la quale, sulla punta dei piedi, ci conduce
attraverso i gironi del suo inferno personale
graffiandosi la schiena, tagliandosi le unghie fino
alla carne, sballando con l'ecstasy e gemendo per il
primo orgasmo fai-da-te.
Un mio amico ha definito "Il cigno nero" una sublime
boiata. Concordo in pieno.
Mario Gardini
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