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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Il cacciatore di
Riccardo Lupo, Il
brutto sogno della contessa Carafa di
Giuseppe C. Budetta,
Un lungo 5 maggio nel cuore della vita di
Salvatore Gurrado
Poesia italiana
Recensioni
In questo numero:
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai,
recensione di Lorenzo Spurio
- "La metafora del giardino in letteratura" di
Lorenzo Spurio e Massimo Acciai
- "Graffio d'Alba" di Lenio Vallati, nota di
Massimo Acciai
- "Cassa integrazione guadagni… la mia è
straordinaria" di Antonio Capolongo
- "Le avventure di Luchi e Striche" di
Francesco Vico
- "Qualcosa che non c'è" di Maria Gioia Spano,
recensione di Emanuela Ferrari
- "Il troppo" di Giuseppe Rensi, recensione di
Emanuela Ferrari
- "L'invasione degli storni" di Roberto Mosi
Articoli
Interviste
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Da molti anni ormai vivo in
strada. Ho visto 51 inverni, ma paiono cento. In
un'altra vita avevo una casa e una famiglia, una
madre e un padre, qualcuno che si prendeva cura di
me. Ormai non so più se fu davvero in questa mia
vita terrena o in un altro corpo, o solo nei miei
sogni. A volte sogno grandi edifici gelidi e
silenziosi come cattedrali, ma più spesso piccole
stanze di legno riscaldate da un allegro fuoco nel
camino e con pietanze fumanti sulla tavola. Penso
che i sogni tipici di un clochard non siano molto
diversi dai miei. Sogni culinari. Non c'è infatti
molto da mangiare nella vie cittadine. Raramente
riesco a mettere insieme cena e pranzo, anzi questi
due termini hanno perso col tempo significato: ci
sono solo pasti malmangiati agli orari più strani.
Ho fatto un po' di tutto per tirare avanti, dal
lavavetri al parcheggiatore abusivo, finendo poi per
chiedere l'elemosina in un angolo di Piazza
Dalmazia, nel quartiere di Rifredi. In questa piazza
ci hanno ammazzato di recente un paio di
extracomunitari; i fiorentini hanno manifestato una
grande solidarietà, ma per i poveracci come me non è
cambiato nulla. Resta chi ha tutto e chi non ha
nulla. Così va il mondo.
La vita è dura per quelli come me: mai un attimo di
pace, lo stomaco sempre vuoto, non si può nemmeno
più dormire nei cassonetti perché magari prima che
ti svegli ti trovi stritolato nel camion
dell'immondizia. Fatti di questo genere se ne
leggono sulle locandine dei giornali. Perfino un
ignorante come me, che ha a mala pena fatto le
medie, lo sa. La vita è uno schifo. Una volta
leggevo molto - in quell'altra vita il cui ricordo
si fa sempre più sbiadito - e leggevo di vagabondi e
barboni felici, qualcuno addirittura sceglieva
volontariamente di vivere per strada. Stronzate. Chi
sarebbe tanto pazzo da scegliere questa vita? Allora
tanto vale spararsi in testa, si soffre meno. Gli
scrittori parlano di cose che non capiscono, mi
fanno rabbia…
La mia vita stava però per cambiare. Quella sera di
dicembre che faceva un freddo indiavolato e i
lampioni rivelavano una pioggerella dispettosa che
poteva anche essere nevischio, venne questa specie
di Gesù Cristo a raccogliere noi poveri disperati e
portarli a casa sua. Si avvicinò a me col suo
seguito di colleghi barboni: un signore distinto,
benvestito, uno che si fa la doccia tutti i giorni e
che non ha problemi a procurarsi il cibo. Sembrava
un avvocato o qualcosa del genere. Aveva un orologio
d'oro che sbucava dal polsino. Ben pettinato, con
una barba ben curata, profumato, mi domandavo cosa
ci facesse in compagnia di accattoni puzzolenti come
me. Insomma, mi si avvicinò e anziché gettarmi
qualche spicciolo come fanno talvolta i passanti, mi
salutò dandomi del lei - cosa che non fa mai
nessuno.
- Da quanto tempo non mangia? - mi domandò con
accento straniero.
Non me lo ricordavo neanche più, rimasi in silenzio,
a bocca aperta per lo stupore. Gli altri barboni mi
guardavano curiosi e mostravano anche loro
meraviglia, ma anche diffidenza.
- Verrebbe a cena da me?
Riuscii a malapena ad annuire. Che imbroglio
diabolico poteva esserci? Un ricco che invita a cena
un povero!
- Venga.
Mi alzai dal cartone su cui mi ero seduto e lo
seguii. Era chiaro che anche agli altri straccioni
era stato rivolto lo stesso invito. Il misterioso
individuo era come il pifferaio magico che si
portava in processione i disgraziati della città con
la promessa di un pasto caldo gratuito. Pensando al
finale della fiaba, come non provare un certo
timore? Ma come i topi della storia, l'uomo sembrava
averci stregato. I nostri dubbi erano sopraffatti
dalla sua voce e dalla presenza salvifica.
Io ero l'ultimo del suo giro. Raggiungemmo a piedi
una villa appena fuori città, dalle parti di
Castello. Oltrepassato il cancello ci venne incontro
un gatto bianco, di razza, a cui mancava un
orecchio. Il gatto andò a strusciarsi alla gamba del
padrone di casa, poi sparì in un cespuglio.
- Accomodatevi, amici - ci disse una volta entrati
nell'abitazione. Ci sedemmo in un salotto molto
elegante. C'erano molto quadri e opere d'arte, ed
una grande libreria che attirò subito la mia
attenzione. Non riuscii però a leggere i titoli
perché un barbone si mise in testa di fare
conversazione con me. Accettai di buon grado,
dopotutto non era così frequente scambiare due
parole nella vita infame che conduco nei vicoli. Tra
barboni non c'è poi tutta questa solidarietà che
viene descritta in certi libri; piucchealtro ci si
ignora. C'era comunque qualcosa di diverso in quel
tizio, un uomo di mezza età che non somigliava
affatto al tipico clochard. A poco a poco mi
raccontò la sua storia. Veniva da una città del nord
che non volle specificare; benestante, aveva
abbandonato moglie e figlio per non ho capito bene
quale motivo e viveva di elemosine a Sesto
Fiorentino, dormendo alla stazione di Castello o in
qualche casa abbandonata, o semplicemente su una
panchina. Più o meno come me. Non lo avevo mai visto
prima, ma d'altronde non bazzico quelle zone. A dir
la verità non conoscevo nessuno dei barboni ed
extracomunitari, compagni di quella strana serata.
Quanto a quel tizio pensai che era del tutto matto.
- Tra poco la cena sarà pronta - ci disse il nostro
anfitrione, e in effetti veniva un discreto
profumino dalla cucina; profumo d'arrosto.
La notizia suscitò commenti di gioia. Il barbone
appena conosciuto aveva uno sguardo famelico, si
vedeva che aveva un debole per l'arrosto. Quanto a
me, non ricordavo l'ultima volta che avevo mangiato
qualcosa di diverso da qualche pezzo di pizza
gettata nella spazzatura o qualche mela rubata al
mercato.
- La carne che ci apprestiamo a mangiare stasera
l'ho cacciata io personalmente - ci informò il
nostro ancora anonimo benefattore - è tutta carne di
cane randagio, più un paio di bastardini del canile
di Sesto.
Dette quel singolare annuncio con estrema
naturalezza, come se avesse detto che ci aveva
cucinato pollo arrosto o braciole ai ferri.
- Lei è un mostro!
La voce, imperiosa, era giunta dal tizio accanto a
me; il barbone che veniva da Sesto. Si fece
silenzio. Il barbone si alzò di scatto ed uscì dalla
stanza con passo furioso. Udimmo sbattere il
portone.
Ci guardammo ancora stupiti, senza sapere bene cosa
dire. Poi io mi alzai e guardai negli occhi il
padrone di casa.
- Abbiamo capito bene? - gli domandai - Carne di
cane?
- Sì, carne di cane. Ho ucciso e cucinato io
personalmente le bestie. Precisamente cani di grossa
taglia, per lo più incroci. C'è anche un cane lupo.
Più sono grossi e cattivi migliore è il sapore della
carne, non trovate? Magari non avete mai assaggiato
carne di cane, ma vi assicuro che è ottima e
salutare.
Nessuno si espresse ma, a parte il nostro compagno
barbone che se n'era andato infuriato, nessuno
rifiutò l'invito del nostro gentile anche se
singolare ospite. Ci sedemmo a tavola, eravamo circa
una decina compreso il padrone di casa - che a
quanto pareva viveva solo.
La conversazione partì solo dopo che gli stomaci
famelici si furono riempiti, e dopo qualche generoso
bicchiere di vino rosso che accompagnò il pasto. Il
nostro ospite aspettò pazientemente che ci fossimo
saziati, placando una fame ormai cronica, quindi
iniziò a chiederci com'eravamo finiti in strada.
Un barbone non ama molto parlare del proprio
passato: se ha visto tempi migliori è penoso per lui
ricordarli, se ha visto solo miseria è comunque
spiacevole. Per questo i barboni sono tipi piuttosto
taciturni e la loro conversazione non è molto
brillante. Solo un paio di noi si lasciarono andare
al racconto: un tizio con uno spiccato accento
laziale, piuttosto giovane nell'aspetto, che viveva
di espedienti solo da qualche mese e che prima aveva
un lavoro in un supermercato. Ci raccontò una storia
che aveva dell'incredibile, probabilmente se l'era
inventata per far colpo sul nostro ospite, o forse
perché era un po' toccato. Nel suo racconto aveva
condiviso una donna con un altro uomo; la donna
aveva preso in giro entrambi e quando lo avevano
scoperto l'avevano mezza ammazzata di botte e si
erano dati alla macchia. Si era definito una specie
di "ostaggio del sesso".
L'altro narratore ero io. La mia storia è piuttosto
banale: nell'infanzia e nell'adolescenza ho ricevuto
solo calci da tutti quelli che mi stavano intorno,
in primis i miei genitori, ed ad un certo punto mi
sono stufato e me ne sono andato di casa. Tutto qui.
All'epoca non sapevo quanto potesse essere dura la
vita nelle strade, senza un vero e proprio riparo e
con lo stomaco vuoto: quando l'ho imparato era
troppo tardi per tornare indietro. Comunque nessuno
mi avrebbe accolto come un figliol prodigo, avrei
avuto solo una vita ancora più dura di quella che
avevo lasciato. Poi mi sono abituato, bene o male,
anche se mai del tutto. Per questo un'idea
cominciava a girarmi per la testa, fin dal primo
boccone d'arrosto di cane.
Dopo i nostri due racconti la conversazione iniziò a
languire. Il nostro padrone di casa si chiuse in un
silenzio che giudicai malinconico. Fuori la
pioggerella si era mutata in una pioggia battente,
un vero diluvio. Tuttavia ad una certa ora fu chiaro
che, pioggia o non pioggia, dovevamo togliere il
disturbo e ringraziare per il pasto gratuito.
- Vi prego amici - ci disse al momento dei saluti -
non uscite con questo tempo!
Ci accompagnò ad una specie di gazebo davanti a
casa. Il gazebo era chiuso da vetrate e dentro c'era
un certo tepore dato da alcune stufette. Ci buttammo
su dei divani e sul tappeto, felici di passare la
notte in un posto coperto e caldo. Da qualche parte,
vicino, un cane ululava.
Ripensai parecchio nei giorni successivi a quello
strana serata. A volte speravo di rivedere apparire
l'anonimo signore gentile che mi tendesse la mano e
mi invitasse di nuovo a cena da lui, ma non lo
rividi per almeno due settimane. Durante quel tempo
continuai la mia solita vita randagia, tra il
sottopassaggio accanto al mercato di Piazza Dalmazia
- dove suonavo la mia fisarmonica vecchie canzoni
orecchiabili come "Besame mucho" e "O sole mio".
I cani non mi sono mai piaciuti: bestie aggressive e
moleste, buone solo a rompere la quiete notturna con
i loro stupidi latrati e a smerdare le strade e
perfino il sottopassaggio dove ho il mio duro
giaciglio. Non ho particolare paura dei cani
randagi, anche se si trovano brutte storie di
aggressioni nelle locandine dell'edicola, e qualche
volta mi sono trovato davanti a cagnacci ringhianti
che difendevano il "loro" territorio. Mi bastava di
solito dimostrarmi più aggressivo di loro per
liberarmene, ma non erano comunque incontri
simpatici. Una volta un barbone nuovo è arrivato a
contendermi il mio sottopassaggio. Aveva una specie
di mastino al fianco. Non saprei dire se abbaiasse
di più il cane o il padrone, ma alla fine mi bastò
rompere una bottiglia di birra, raccolta da terra, e
minacciarli con i bordi seghettati e taglienti. Non
l'ho più rivisto. Un'altra volta un punk abbestia mi
aveva guardato storto e mi aveva messo in fuga
sguinzagliandomi una specie di dobermann o qualcosa
del genere, ringhiante. Solo a stento ero riuscito a
mettermi in salvo, scavalcando il cancello di un
cortile.
Molti dei miei colleghi barboni tengono un cane per
compagnia e per impietosire i passanti. Idioti. Sono
disposti a sfamare un cane piuttosto che una
persona. Io non vorrei mai una bestia pulciosa e
puzzolente accanto a me, mi basto da solo, come ho
sempre vissuto.
Di solito mi corico presto, non più tardi di
mezzanotte, quando cessa il casino nelle strade e
tutto è tranquillità e silenzio. Beh, più o meno.
Quella notte però non riuscivo a prendere sonno sul
mio cartone lercio; c'era qualcosa nell'aria. Mai
come in quel momento ho sentito la durezza di pietra
della mia vita, l'immensa vanità del tutto. Forse se
mi fossi trovato alla stazione di Rifredi mi sarei
buttato sui binari, ma a quell'ora non circolano
neanche i treni e comunque sarebbe stata una morte
dolorosa, che non mi si addiceva. Volevo però farla
finita, anche se quando si è barboni l'unico modo
per farla finita è lasciarsi morire di freddo. Sì,
il dolce abbraccio di padre inverno, col vento che
penetra attraverso quegli stracci che non oserei
chiamare vestiti e che ti regala una grande
sonnolenza… una voglia di lasciarsi andare…
Ma non era una serata fredda quella, anzi era
piuttosto tiepida per essere una vigilia di natale.
Ci saranno stati forse cinque gradi, forse una
decina.
Mi decisi a fare fagotto delle mie poche cose e fare
due passi. Forse camminare mi avrebbe fatto passare
le paturnie. Le vie erano deserte - era l'una di
notte, come vidi dal display sopra la gioielleria, e
c'erano 9 gradi. Non c'era un filo di vento. C'era
la luna piena e le decorazioni natalizie a far luce
nelle vie. Quanto odio le decorazioni natalizie e il
natale in genere: quanta ipocrisia, quanta
elettricità sprecata quando si potrebbe rendere la
vita un po' più sopportabile a noi disgraziati!
Talvolta mi ero divertito a rompere le luminarie in
via Vittorio Emanuele, centrando le luci con dei
sassi raccolti a giro. Magari ripetere quell'esercizio
di mira mi avrebbe un po' tirato su il morale.
Camminavo nella strada alla ricerca di oggetti da
tirare quando sentii un rumore alle mie spalle. Una
specie di guaito soffocato. Mi volto e chi ti vedo?
Una figura in ombra che si avvicina ad una specie di
fagotto sulla strada. Nella figura in ombra, appena
entra nel cono di luce del lampione, riconosco il
padrone di casa che mi aveva ospitato qualche
settimana prima. Il fagotto in mezzo alla strada
invece è un cane di grossa taglia, a pelo lungo. Non
conosco le razze canine, ma mi sembra una bestia di
razza, probabilmente smarrita da qualche riccone. Il
cane viene prontamente infilato in un sacco nero,
uno di quelli per l'immondizia, e caricato su una
spalla fino al marciapiede. Quindi viene legato e
abbandonato. La figura si allontana per non più di
cinque minuti, quindi appaiono i fari di un
cassonato che si ferma vicino al sacco. L'autista è
lo stesso "cacciatore" che carica nel cassone del
veicolo. Intanto io mi ero avvicinato e osservavo la
scena da dietro un'auto parcheggiata.
- Salve! - urlai, sbucando all'improvviso.
Quello sussultò e si girò di scatto.
- Non si spaventi, sono io - mi feci avanti - ci
siamo incontrati due settimane fa, mi ha invitato a
cena, ricorda?
L'uomo mi guardò meglio, quindi sembrò riconoscermi.
- Sì certo, caro, mi ricordo! Mi ha fatto prendere
un bello spavento sa?
- Cosa sta facendo?
- Non lo vede? Sono a caccia!
- A caccia? Ma non ho sentito nessuno sparo!
- Ho usato questa - mi mostrò una pistola con una
canna molto lunga e tozza; doveva essere un
silenziatore - mica penserà che si possa sparare in
strada così come nulla fosse! Mi beccherebbero
subito.
Era l'occasione che aspettavo, ciò su cui andavo
riflettendo fin da quella cena. Mi feci avanti.
- Posso venire con lei?
L'uomo mi guardò sorpreso.
- Potrei aiutarla a stanare le prede e a
trasportarle - continuai, ormai deciso ad andare in
fondo al mio piano. - Conosco bene tutta la
provincia di Firenze.
- Beh… non so…
Divenne pensieroso. Temeva qualche brutto tiro da
parte mia? Non era quello il motivo. Sentivo che si
fidava. Dopotutto se temeva i barboni che senso
aveva invitarne a casa sua addirittura una decina?
- La prego. Conosco diversi posti dove potrebbe
trovare delle prede.
Mi guardò da capo a piedi, come per analizzarmi,
quindi mi fissò dritto negli occhi.
- La prego.
- Venga con me - mi disse infine, invitandomi a
salire sul cassone insieme al cadavere del cane;
cadavere che aveva condiviso il destino di altri due
quadrupedi, a giudicare dalle altre due buste
presenti, a meno che non si trattasse davvero di
spazzatura. Ma in fondo un cane morto non è forse
spazzatura?
No, poteva essere mangiato.
Feci così da guida. L'uomo non era molto pratico dei
dintorni, infatti si era trasferito da poco e
cacciava soprattutto a casaccio. Per quella sera non
trovammo altri randagi a giro, anche se ci spingemmo
fino a Calenzano. Vista l'ora trovammo solo
parecchie puttane lungo il viale che va a Prato. Ma
non erano quelle le nostre prede. Solo molto oltre
Settimello un grosso cane a pelo corto ci attraversò
la strada, veloce come un lampo. Gli occhi, colpiti
dai fari, rimandarono un riflesso fosforescente che
aveva qualcosa di lupesco nell'oscurità. L'uomo
fermò l'auto e la lasciò al margine della strada -
eravamo in una via un po' fuori dall'abitato,
illuminata da pochi lampioni. Ci guardammo attorno,
infine individuai l'animale che urinava presso un
vecchio muro diroccato. L'uomo prese la mira e
sparò. Non ci fu nessun rumore, il silenziatore
aveva fatto ancora una volta il suo dovere. Neanche
l'animale mandò alcun guaito; non ne ebbe il tempo,
fu centrato proprio alla testa. Vidi il muso
esplodere in una nuvola rossastra. La potenza del
colpo scaraventò l'animale contro il muro, lasciando
una chiazza di sangue, ossa e materia grigia che da
lontano sembrava un macabro murales.
Un sorriso di soddisfazione si allargò sul viso
dell'uomo. Tutto si era svolto nel giro di pochi
attimi e nel più assoluto silenzio. Il cuore prese a
battermi forte: non avevo mai assistito ad una
battuta di caccia, figuriamoci in un ambiente quasi
urbano. A dir la verità non avevo mai visto sparare
nessuno fuori da uno schermo televisivo. Fu
emozionante.
Non cacciammo altre bestie quella sera ma in un paio
d'ore si era creato un certo affiatamento tra noi,
tanto che il signore - che si chiamava Michael ed
era di origini americane, aveva più o meno la mia
età ed esercitava in effetti la professione di
l'avvocato - mi invitò a passare a trovarlo la sera
successiva, all'ora di cena, per gustarci le prede.
Iniziò così una frequentazione quasi quotidiana.
Oltre ad accompagnarlo nelle scorribande notturne,
guidandolo nelle zone che conoscevo bene dalla mia
vita randagia e solitaria, lo aiutavo a cucinare le
prede ed in cambio avevo un alloggio assicurato per
la notte nel suo gazebo. Nessuno venne mai a
protestare per il sensibile calo di cani randagi,
proprio perché randagi e privi di un padrone che li
reclamasse, anche se sicuramente in mezzo al mucchio
qualche cane di razza smarrito era capitato. I
nostri obiettivi erano comunque i cani di grossa
taglia, quelli che personalmente trovavo più
antipatici e pericolosi per l'uomo. I cagnolini
riposavano al sicuro tra le pareti domestiche,
coccolati e viziati più che bambini. Non ci
interessavano.
Un giorno gli domandai perché andasse a caccia di
cani. Certo, in questo modo risparmiava sulla spesa,
ma era evidente che c'era dell'altro. Ad esempio
risparmiava i gatti, e anzi ne teneva un paio in
casa, o per meglio dire nel vasto giardino. Il gatto
privo di un orecchio si chiamava Tigre e, seppi poi,
lo aveva perduto in uno scontro con altri gatti
randagi che si erano intrufolati nella proprietà.
C'era poi Trilli, una gattina soriana dolcissima,
con cui avevo fatto presto amicizia e che veniva a
strusciarsi sempre ai miei jeans mezzi strappati
(non per moda ma per usura).
- Perché lo faccio? - mi fece eco Michael. - E lei
perché lo fai?
- Ah beh - risposi prontamente - nel mio caso si
tratta di sopravvivenza. Ma lei potrebbe benissimo
procurarsi delle bistecche al supermercato o dal
macellaio.
Mi guardò scandalizzato.
- E che male mi hanno fatto le mucche?
- E i cani allora?
Si chiuse in un mutismo che mi fece capire di aver
toccato un tasto dolente. Lo avevo sempre sospettato
che ci fosse qualche mistero sotto, ma per quel
giorno dovetti tenermi la mia curiosità.
Uscivamo tre o quattro sere a settimana, facendo il
giro delle periferie. Dopo un mese Michael mi
consegnò una pistola con silenziatore, più o meno
come la sua. Se le era portate dietro dall'America,
dove era facile procurarsi un'arma. Ho sempre
pensato che la facilità con cui ci si può armare, e
quindi difendere, in una paese come gli Stati Uniti
fosse un buon segno di civiltà, così come la pena di
morte. Perché nutrire a spese dello stato assassini
e stupratori? Meglio toglierli dalla circolazione.
Una volta glielo dissi e lui fece la faccia
dubbiosa. Fu la sera prima che mi consegnasse
l'arma, lo ricordo bene.
Le "cene dei barboni", così come le chiamavo, si
ripetevano più o meno al ritmo di una a settimana.
Ormai il mio mentore era diventato una specie di
leggenda tra i senzatetto, un porto sicuro, un punto
di riferimento. Il segreto era tuttavia ben
custodito, dal momento che era tutto interesse degli
sfortunati ospiti che la notizia non arrivasse alle
orecchie sbagliate. Solo una volta rischiammo di
brutto. Fu verso la fine della primavera, quando le
giornate si erano fatte tiepide e lunghe ed era
piacevole starsene fuori anche fino a tardi. Quella
sera si presentarono due poliziotti con un mandato
di perquisizione. C'era stata una segnalazione per
attività illecite legate al maltrattamento di
animali; sicuramente era stato quel barbone della
prima sera che aveva definito Michael "un mostro"
prima di andarsene sbattendo la porta. Era una sera
in cui eravamo ancora in casa, di solito non
uscivamo prima di mezzanotte. Saranno state le otto.
Stavamo preparando la cena, a base di bastardi
cacciati la notte precedente. Fu il momento in cui
rischiammo tutto: molto probabilmente la prigione.
Io potevo anche sopportarla, non sarebbe stata la
prima volta che finivo dietro le sbarre, ma un tipo
borghese e delicato come Michael? Sarebbe stata la
sua rovina. I poliziotti infatti trovarono i resti
dei cani macellati, due per la precisione, ma
Michael riuscì a convincerli che si trattava dei
suoi due cani domestici morti in un incidente
stradale e che si trattava di un rituale della sua
cultura religiosa consumarne i resti. I poliziotti
si lasciarono convincere soprattutto da una lauta
bustarella, offerta dal padrone di casa. Michael era
un uomo ricco. Trovai comunque ingiusto che in
Italia fosse vietato il consumo di carne di cane e
permesso invece quello, che so, di pollo o di
agnello: perché l'agnello sì e il cane no?
Le nostre scorribande notturne rimasero comunque un
segreto, condiviso solo da noi e dai barboni e
senzatetto della zona, i quali non si tiravano certo
indietro davanti ad un piatto fumante di carne
canina, a parte qualche extracomunitario musulmano o
qualcuno che aveva appunto un cane. Cani vivi in
casa di Michael non erano infatti permessi.
Con Michael ormai ero amicissimo: pranzavamo e
cenavamo insieme praticamente tutti i giorni,
dividendoci il "bottino" delle notti precedenti.
Talvolta tornavamo a casa a mani vuote, senza aver
fatto nessun incontro canino. Michael allora passava
al canile municipale di Sesto e prendeva uno o due
bastardini che poi macellava e serviva in tavola.
Riscoprii così quelle piccole comodità casalinghe,
come potersi fare una doccia o indossare vestiti
puliti. Certo, il menu era un po' monotono, ma non
avevo mangiato così bene da anni.
Potrei raccontare tante piccole storie di caccia.
Una notte ad esempio eravamo dalle parti dell'Osmannoro,
zona industriale praticamente morta e buia a quell'ora.
Ci eravamo appostati in macchina presso un magazzino
quando udimmo un miagolio infuriato ed un abbaiare.
Smontammo subito e tirammo fuori le pistole. Davanti
a noi vedemmo sfrecciare un grosso cane che
inseguiva un gatto randagio. Facemmo fuoco. Beccammo
l'inseguitore a mezz'aria, proprio nel momento in
cui stava piombando sul povero micio. Lo colpimmo
entrambi, uno alla testa ed un altro all'addome. La
violenza del colpo lo aveva deviato dalla
traiettoria e spinto qualche metro lontano. Il gatto
era sparito. Fino a quel momento non avevo mai
colpito una preda, nonostante avessi sparato diverse
volte con la pistola che mi aveva dato Michael.
Credo che quella volta fu più un caso fortunato che
altro, fu comunque una grande soddisfazione: col mio
primo colpo avevo salvato una creatura che stava per
subire una tremenda sorte. I gatti mi sono sempre
stati simpatici, anche se non li metterei comunque
allo stesso livello degli esseri umani. Non mi hanno
mai dato noia, anzi mi hanno fatto spesso compagnia
nel gelido sottopasso di Piazza Dalmazia. L'assurda
caccia del cane nei confronti del gatto non l'ho mai
potuta giustificare: il cane non caccia per mangiare
il gatto, caccia solo per l'istinto di uccidere. Noi
invece cacciavamo un po' per mangiare e un po' per
il gusto di uccidere delle bestie immonde. Almeno
per me era così, ma sospettai che per Michael ci
fosse un motivo ancora più personale che mi teneva
nascosto.
Qualche sera dopo il mio amico americano mi mostrò
il cancello della villa del suo vicino, un certo
signor Lumachi. C'era un cartello bene in vista:
Area videosorvegliata.
A parte la violazione di domicilio in casa ci sono
quasi sempre io, quindi non ve lo consiglio. Suonate
a Lumachi e vi sarà aperto.
- Stanotte andremo a fargli una visitina - mi disse
con tono complice - ma senza suonare il campanello.
Lo guardai in modo interrogativo. Che senso avrebbe
avuto introdursi di nascosto in quella proprietà?
Scartata subito l'ipotesi di un furto con scasso -
Michael era troppo ricco, per quanto fosse
eccentrico - mi venne in mente solo un motivo
possibile.
- Portiamo le armi? - domandai, già conoscendo la
risposta.
- Certamente.
Ero emozionatissimo. La serata prometteva di essere
movimentata e avventurosa. Aspettammo l'ora più
adatta chiacchierando nel gazebo, bevendo caffè
bollente. Mi ritrovai a raccontargli la storia della
mia vita: l'infanzia e l'adolescenza infelice, la
fuga da casa, la dura vita di strada. Di lui invece
non seppi niente di più di quanto sapessi già, ossia
che era nato a Nuova York e che si era trasferito in
Italia da non molto, a dispetto dall'italiano
perfetto che parlava, tradito solo dall'accento
americano. Verso le due di notte ci muovemmo. Mi
sembrava di essere in un romanzo di Salgari, a
caccia nella giunga insieme a Sandokan o Tremal-Naik.
A me sarebbe toccata naturalmente la parte del fido
Yanez o del servo Kammamuri. Introdurci nella
proprietà del Lumachi sarebbe stato un gioco da
ragazzi: le telecamere tenevano d'occhio soprattutto
il cancello e l'ingresso della villa, mentre noi
saremo passati dal muro che divideva la proprietà di
Michael da quella del vicino. Era un muro di pietra
e calcina, alto un paio di metri, con cocci
appuntiti in cima. Non era un problema per noi.
Andammo a prendere una scala e in un baleno fummo
dall'altra parte. Facemmo appena qualche passo
quando sentimmo un ringhiare che si avvicinava. Era
il pitt bull del signor Lumachi, il cane da guardia.
Aspettammo che si avvicinasse. Lasciai il colpo a
Michael, che aveva un conto in sospeso col cane;
infatti lo sentii bisbigliare - Adesso smetterai di
rompermi i coglioni!
Un attimo e i ringhi cessarono. Infilammo il corpo
sanguinante nel sacco che ci eravamo portati dietro,
quindi ripulimmo alla meglio il sangue sul prato
gettandoci un secchio d'acqua per diluirlo. Il
terreno lo avrebbe assorbito cancellando ogni
traccia. Al mattino il padrone avrebbe semplicemente
constatato la scomparsa della bestia, senza
capacitarsi di dove potesse essere andata. Era
improbabile che avessero sentito il cane ringhiare,
la casa era piuttosto lontana; ad ogni modo tornammo
lestamente nel giardino di Michael, gettando secchio
e sacco oltre il muro e riponendo poi la scala nel
garage. L'intera operazione non era durata più di
dieci minuti. Prima di andare a letto Michael fece a
pezzi il corpo del pitt bull e lo ficcò in frigo,
come di consueto, in sacchetti trasparenti per la
conservazione delle vivande.
Pensavo che Michael fosse un po' matto e senz'altro
imprudente, soprattutto quando, il giorno
successivo, fece visita al signor Lumachi, stavolta
usando il campanello, e mi chiese di accompagnarlo.
Io non ero molto convinto, avevo paura di tradirmi,
ma lui insistette che proprio in questo modo
potevamo sviare i sospetti: non a caso aveva
sopportato l'abbaiare lugubre del cagnaccio per
tutto quel tempo, proprio per non creare alcun
sospetto.
Ci venne ad aprire la domestica filippina, la quale
ci fece accomodare in salotto dove il padrone di
casa ci raggiunse in pochi minuti. Si trattava di un
uomo corpulento, dall'aspetto decisamente volgare:
se non fosse stato per la vestaglia di seta e
l'odore pesante di colonia che lo precedeva, lo
avrei scambiato per un collega barbone.
- Come sta signor Lumachi? Sono passato per farle un
salutino insieme al mio tuttofare, Camillo…
L'uomo mi diede un'occhiata distratta e mi strinse
la mano, quindi si accasciò sulla poltrona e fece
segno di accomodarci sul divano.
- Scusate, sono un po' in agitazione: Rambo è
sparito durante la notte.
- Rambo è il suo cane? - domandò con falsa ingenuità
Michael.
- Sì, è un pitt bull di cinque anni, addestrato alla
guardia. È un mistero; le videocamere non hanno
ripreso nulla, e comunque non può aver scavalcato
cancello e muro. Non riesco a capacitarmene. Sono
davvero preoccupato, per me era come una persona.
- Immagino. Mi dispiace molto.
- Scusatemi, devo andare a denunciare la scomparsa
ai carabinieri.
- Certo. Sono passato anche per invitarla a cena da
me stasera, se se la sente s'intende.
Guardai Michael con sorpresa. Cosa diavolo aveva in
mente?
- La ringrazio, mi farebbe molto piacere, se non
altro servirà a distrarmi.
- Ma le pare! Tra buoni vicini è il minimo. Se
dovessi sapere qualcosa la chiamerò subito. Ci
vediamo allora stasera verso le otto?
Il signor Lumachi annuì stancamente. Mi fece un po'
di pena; certe persone si affezionano ai loro
animali domestici arrivando perfino a tenerne più
conto degli esseri umani. A me è sempre sembrata una
follia: come può un cane, o un gatto, paragonarsi ad
una persona? Come può ricambiare l'affetto, con
consapevolezza e libero arbitrio? Ho sempre pensato
che in qualche modo chi ama troppo gli animali
sottragga indebitamente quell'amore al genere umano,
come aveva anche osservato uno scrittore di cui mi
sfugge il nome: non a caso i nazisti amavano i cani.
Ovviamente tenni per me le mie considerazioni, anche
perché si vedeva che il Lumachi era davvero
abbattuto.
Conoscevo ormai abbastanza bene il mio amico e
padrone di casa da prevederne le azioni, eppure
riusciva ancora a sorprendermi. Quella sera la cena
fu a base di spaghetti al sugo di cane, polpette di
cane e insalata per contorno. La carne l'aveva
fornita suo malgrado Rambo. Chissà che faccia
avrebbe fatto il nostro ospite, il signor Lumachi,
se avesse saputo, a cena consumata, di aver mangiato
il suo pitt bull, cancellando così ogni prova del
nostro misfatto. La cosa mi avrebbe fatto anche
ridere, era di un umorismo nero irresistibile, ma
riuscii a trattenermi e a non tradirmi. Michael era
un attore consumato; chiacchierò con naturalezza,
esprimendo al suo vicino tutta la sua solidarietà e
sopportando senza darlo a vedere i discorsi tipici
dei padroni dei cani, ossia di quanto siano
intelligenti i loro cucciolini, di quanto siano
dolci, di quanto siano umani.
- Vedrà che il suo cane rispunterà fuori prima o poi
- lo rassicurò Michael.
Sì, pensai tra me, ma da una parte che non ti
aspetti di certo, e cercai di mascherare con finti
colpi di tosse la risata che stava montando così
come, alla fine del pasto, quando il Lumachi si
complimentò per le polpette.
Passarono un paio di mesi da quell'episodio. Il
Lumachi aveva preso un altro cane, un dobermann
dall'aspetto ancora più feroce di Rambo, ma
addestrato ad abbaiare solo in caso di intrusione.
Michael non si poteva certo lamentare in quel senso,
ma avevamo comunque ripreso le nostre scorribande
notturne, le nostre "battute di caccia" come le
chiamava il mio amico. Battute sempre meno
fruttuose: ormai avevamo fatto quasi piazza pulita.
Gli accalappiacani avranno sicuramente notato la
sospetta sparizione di cani randagi nell'area
compresa tra il Mugello e il Chianti, ma certo non
si saranno lamentati per il minor lavoro. Era tempo
di togliere le tende, come mi disse una sera Michael.
- Ormai stiamo destando troppi sospetti, e ci sono
pochi cani randagi a giro. Stiamo esaurendo le
prede.
- Beh, potremo accontentarci del canile.
- No - rispose bruscamente - daremmo troppo
nell'occhio a portar via tutti quei cani, potrebbero
venire a fare un'ispezione qui a casa, e poi… non è
solo una questione di cibo.
- Non capisco, insomma, perché lei ce l'ha tanto con
i cani?
Neanche stavolta ottenni risposta alla mia domanda.
- Da quando me ne sono andato dagli Stati Uniti - mi
disse invece - ho vagato di nazione in nazione,
sempre a caccia. Quando le prede finivano
semplicemente mi spostavo. Sono un uomo ricco, posso
permettermi di vivere di rendita e viaggiare. Quando
sono arrivato qui a Firenze sapevo che non era per
sempre. Ho intenzione di vendere la villa e
trasferirmi altrove, forse a Roma, oppure ancora più
a sud, vedremo.
La notizia mi lasciò perplesso. La pacchia era
dunque finita. Temevo che prima o poi sarebbe
arrivato quel momento; tornare al sottopasso a
elemosinare qualche spicciolo sarebbe stata dura,
non potevo più contare sui pasti assicurati. Mi
avrebbe permesso di tenere la pistola e poter così
continuare la caccia da solo? Ne dubitavo, e
comunque come avrei cucinato le prede? No, dovevo
tornare alla mia vita di prima.
Come se mi avesse letto nel pensiero, Michael mi
rassicurò prontamente.
- Può venire con me se lo desidera. Avrò pur sempre
bisogno di qualcuno che mi aiuti nelle cacce.
M'illuminai.
- Conosco bene la Capitale - dissi - ci sono molti
cani randagi, inoltre è una bella città, un po'
caotica ma vale la pena. Consiglio la periferia, la
zona di Trastevere.
- Bene, allora è deciso. Prepariamoci, andiamo a
farci un'ultima battuta: dove possiamo andare
stasera?
Senza fretta Michael cercò una sistemazione a Roma,
con frequenti viaggi in auto per visitare ville e
appartamenti. A luglio era pronto per il trasloco.
L'estate era arrivata con la canicola solita e aveva
riempito i giardini di fiorentini e stranieri in
cerca di frescura. Sulla spiaggetta sull'Arno,
davanti alle Rampe, c'erano diversi ombrelloni e
bambini a costruire castelli di sabbia che sembrava
proprio di essere al mare - se non fosse stato per
il panorama decisamente urbano.
Ormai non valeva più uscire la sera: di cani
randagi, in oltre sei mesi di battute di caccia,
ormai non ce n'erano più neanche a pagarli.
Addirittura il canile municipale era quasi vuoto e
certo la cosa non era passata inosservata. Ormai
anche i giornali parlavano del "mistero della
sparizione dei randagi", anche se era una notiziola
nelle pagine di cronaca cittadina, di quelle che
passano spesso inosservate o vengono lette come
curiosità. Ovviamente anche le "cene dei barboni"
erano cessate ormai da tempo, e il frutto delle
nostre battute finiva direttamente nei nostri
piatti, e poi infine venne a mancare anche quella.
Era tempo di andare, su quello Michael aveva
pienamente ragione.
La partenza era fissata per la prima domenica del
mese. L'appuntamento era per le quattro del
pomeriggio a casa di Michael: avremo raggiunto col
fido cassonato una bellissima palazzina a Trastevere
e lì avremo ricominciato da zero, in un territorio
vergine.
Passai la notte nel mio giaciglio nel gazebo, che
ormai tenevo spalancato. Tutto era tranquillo in
quelle notti, dopo la musica che giungeva dalla
vicina Festa Biancoverde all'Atletica Castello, e
presto la città si sarebbe svuotata come di
consueto. Quante volte avevo visto quella scena
ripetersi. Ma avrei presto cambiato scenario, la mia
vita aveva preso un'altra direzione con quell'incontro
di sette mesi prima. Ero sereno.
La mattina era stata straordinariamente afosa ed era
ancora una sfida trovarsi in strada alle quattro del
pomeriggio, ma avevo visto ben di peggio nella mia
vita e ormai mi ero abituato. Ho sempre pensato che
sarei morto di freddo più che di caldo, anche se
ogni estremo termico ha reclamato le sue vittime tra
noi gente di strada. Ma ormai non mi consideravo più
tanto "di strada": come ho detto, la mia vita era
cambiata.
Arrivai a casa del mio amico con qualche minuto di
anticipo, col bus 28 (senza biglietto ovviamente).
Non c'era nessuno a giro a quell'ora, da quelle
parti. Neanche una macchina. Suonai il campanello e
attesi. Non mi rispose nessuno. Riprovai più volte,
invano. Cominciai a preoccuparmi. Possibile che non
mi avesse sentito? Forse stava dormendo? Provai
ancora. Niente. Iniziavo a pensare che fosse
successo qualcosa di grave. Dovevo forse avvertire
la polizia? No, sarebbe stata l'ultima cosa che
avrebbe voluto il mio amico. Tra questi pensieri mi
ero intanto seduto su una panchina all'ombra di un
cipresso, e dalla posizione seduta ero passato in
breve a quella distesa e quindi al sonno.
Quando riaprii gli occhi era già sera. Nessuno aveva
disturbato il mio riposo, segno che nessuno era
passato. Michael mi avrebbe visto subito se fosse
uscito.
La sera stava scendendo sulla città, già apparivano
le prime stelle, e Venere, la stella della sera,
brillava accanto alla falce di luna. Ero ripiombato
di colpo nella mia vita randagia e miserabile.
Passai una notte infelice bighellonando tra la villa
di Michael e la stazione di Rifredi, dove infine mi
addormentai. Al mio risveglio la prima cosa che feci
fu di andare a leggere le locandine dei giornali
all'edicola. Un oscuro presentimento mi chiudeva la
gola. Nonostante i 32 gradi che segnava il display
non sentivo affatto caldo.
Compresi subito che il titolo a grandi caratteri
neri sulla locandina de La Nazione riguardava
Michael, anche se non c'era il suo nome:
TERRORE ALLO STIBBERT. BAMBINO AGGREDITO DA UN CANE.
UOMO ARMATO SPARA IN PUBBLICO. ARRESTATO.
Mi precipitai nel bar della stazione dove trovai per
fortuna una copia del quotidiano. Nelle pagine di
cronaca locale lessi l'articolo in cui si citava
nome e cognome del mio amico. Lessi d'un fiato:
FIRENZE - Domenica alle 11.30 del mattino il
giardino del museo Stibbert si è trasformato in un
far west di periferia. Una tragedia scongiurata
dall'intervento dell'avvocato M. Greene, 55 anni,
americano residente in Italia da un anno. Nonostante
il divieto di accesso ai cani, non è infrequente che
i padroni portino i loro amici a quattro zampe nel
giardino e li liberino; proprio uno di questi ha
aggredito il piccolo Alessio, 5 anni, che giocava
con gli amici sotto lo sguardo della nonna.
All'improvviso un labrador nero ha attaccato il
bimbo, azzannandolo ad un braccio e scuotendolo. Né
il pianto disperato della vittima, né i tentativi
dei presenti sono riusciti a liberarlo. A risolvere
la situazione, in maniera decisamente drastica, è
intervenuto il signor Greene. Ha estratto la sua
Beretta e, con estrema calma e sangue freddo, ha
sparato alla testa dell'animale. Il bambino ha
riportato ferite non gravi al braccio destro, è
stato trasportato sotto shock subito a Careggi.
L'uomo è stato fermato successivamente dai
carabinieri, avvisati da uno dei presenti, e portato
in centrale per accertamenti.
Rimasi di sasso. Una voce dietro di me mi fece
trasalire.
- Ehi! Se non compri nulla vattene!
Era il barista. A simili sgarbi c'ero abituato, ma
qualcosa era cambiato in me. In quei mesi avevo
riacquistato un po' del rispetto di me stesso; anche
se nullatenente, non ero più il barbone di prima,
disposto a farsi mettere i piedi in testa dal primo
venuto. Lanciai uno sguardo cattivo all'uomo, quindi
lo mandai a quel paese e me ne andai.
Ma dove andare? Chiaramente Michael non aveva potuto
avvertirmi, non avevo il cellulare e tanto meno un
telefono fisso. Potevo andarlo a trovare, ma dove lo
avevano portato? In quale centrale dei carabinieri?
Pensai che comunque a quell'ora lo avevano rimandato
a casa dopo aver pagato la cauzione, cosa che
sicuramente qualcuno aveva fatto per lui anche se lo
conoscevo come un uomo solo. Certo qualche collega
avvocato o qualche amico.
Tornai alla villa. Suonai. Una voce familiare mi
chiese al citofono chi fossi. Risposi ed entrai non
appena il cancello si aprì.
- Pare che alla fine non ci andremo a Roma - mi
disse Michael versando il tè - O almeno non così
presto.
Si sedette sulla sua poltrona di stoffa rossa,
sorseggiando dalla tazzina come un lord inglese, del
tutto calmo. Era trascorsa una settimana da quella
maledetta domenica in cui dovevamo lasciare Firenze.
- Già. - Risposi - Il processo sarà lungo immagino.
- Sciocchezze - rispose - in fondo sparare a un cane
non è come sparare ad un essere umano, non ancora
almeno. Inoltre ho salvato la vita ad un bambino, il
giudice ne terrà conto. Piuttosto, pare che questo
incidente abbia avuto una certa reazione tra gli
animalisti e i non animalisti. Sono arrivate
centinaia di lettere e mail a La Nazione e agli
altri quotidiani che hanno parlato della cosa:
ancora non so se sono più le minacce alla mia
persona o le attestazioni di stima.
La "cosa" a cui si riferiva era valsa al mio amico
gli appellativi di "serial killer dei cani" e di
"cacciatore"; in poche parole le nostre cacce erano
state scoperte, anche se il "merito" se lo era preso
tutto Michael, lasciandomi fuori. Gli ero
immensamente grato. Ancora non ho capito bene com'è
venuta fuori la storia; pare che i poliziotti
corrotti avessero chiesto un'altra mazzetta per
tacere, Michael si sarebbe rifiutato e quindi la
bolla sarebbe scoppiata. I giornali hanno taciuto su
questo punto e questa è l'unica versione che
conosco, udita dallo stesso Michael.
Alla prima udienza del processo si era difeso da
solo, pronunciando una storica arringa che aveva
fatto infuriare tutti gli animalisti presenti dentro
e fuori dell'aula. I giornalisti avevano indagato e
portato alla luce il passato del mio amico. Pare che
un tempo fosse stato sposato e che avesse un figlio.
La moglie lo aveva lasciato poco tempo dopo la morte
del bambino, all'età di otto anni, sbranato dal
mastino del vicino nella cittadina del Maine dove
vivevano. Cominciavo a comprendere l'odio feroce che
Michael nutriva verso i cani e cosa doveva aver
provato sparando a quel cane che minacciava il
bambino.
Devo dire che per una volta la giustizia italiana
seguì bene il suo corso: il mio amico non si fece
neanche un giorno di galera, il reato cadde in
prescrizione e alla fine è tornato negli Stati
Uniti. Ha poi pubblicato un libro che è diventato un
best seller in poco tempo: "Perché la mucca sì e il
cane no?". Quanto a me, ho ripreso la vita di
strada, per scelta. Da una parte avevo paura che
star troppo vicino al mio amico, che pure mi aveva
invitato come ospite a tempo indeterminato a casa
sua, avrei corso dei rischi. Temo che prima o poi
qualche pazzo lo faccia fuori, magari facendolo
saltare in aria insieme alla sua villa e ai suoi
occupanti. Scherzi a parte, in fondo mi sono ormai
affezionato al mio stile di vita e non lo cambierei
per cambiare addirittura continente. In fondo in
Italia non muoiono di fame neanche i barboni. Lo so,
sono pazzo.
Mi mancano quelle notti a giro per le periferie e la
campagna, a caccia. A volte ci ripenso con
nostalgia. Mi sentivo giovane, vivo! Di buono c'è
comunque che le strade sono un po' più pulite e non
si incontrano più cani randagi a Firenze. Siamo
riusciti a sterminarli tutti.
Di lui ho un unico ricordo: una copia del suo libro
in italiano, trovata per un evento fortuito nello
scaffale del libero scambio del circolo di Quinto
Alto. Nell'introduzione c'è un paragrafo che ho
sottolineato:
…l'ipocrisia di animalisti e cacciatori, nonché di
chiunque mangi carne bovina o carne bianca,
proveniente da animali quali vitelli, conigli,
polli, galline, ecc. e storce il naso davanti ad uno
spezzatino di cane, e pretende che sia così anche
per gli altri. In Cina è logico mangiare cani,
perché no? Anche in paesi "civili" quali l'Italia
era una pratica abbastanza diffusa in tempi di
penuria, quando si era meno schizzinosi. Io ho
ucciso e mangiato bestie aggressive e potenzialmente
pericolose per l'uomo; non ho nulla di cui
vergognarmi davanti a chi fa il sugo con una innocua
e pacifica lepre o mangia salsicce di maiali che non
hanno mai aggredito un essere umano e poi tratta il
cane di casa meglio di quanto tratti il suo vicino
umano o l'extracomunitario a cui nega quei pochi
spiccioli con cui nutre il "suo" animale. Solo in
Italia si spendono 3,5 miliardi di euro all'anno per
mantenere animali del tutto improduttivi come cani e
gatti; e se utilizzassimo questi soldi per la
ricerca scientifica? O per alleviare la vita dei
senzatetto?
Inutile precisare che quest'ultima frase è la mia
preferita.
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