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Narrativa

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi in prosa inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
Il cacciatore di Riccardo Lupo, Il brutto sogno della contessa Carafa di Giuseppe C. Budetta, Un lungo 5 maggio nel cuore della vita di Salvatore Gurrado

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Giuseppe Bonaccorso, Alessandra Ferrari, Emanuela Ferrari, Iuri Lombardi, Italo Magnelli, Alessandro Monticelli, Ivana Orlando, Margherita Pirri

Recensioni

In questo numero:
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai, recensione di Lorenzo Spurio
- "La metafora del giardino in letteratura" di Lorenzo Spurio e Massimo Acciai
- "Graffio d'Alba" di Lenio Vallati, nota di Massimo Acciai
- "Cassa integrazione guadagni… la mia è straordinaria" di Antonio Capolongo
- "Le avventure di Luchi e Striche" di Francesco Vico
- "Qualcosa che non c'è" di Maria Gioia Spano, recensione di Emanuela Ferrari
- "Il troppo" di Giuseppe Rensi, recensione di Emanuela Ferrari
- "L'invasione degli storni" di Roberto Mosi 

Articoli

CicloInVersoEmilia 2012: dal 3 al 5 maggio tre giorni di bici e poesia
di Enrico Pietrangeli

Interviste

Intervista a Ivana Orlando
A cura di Massimo Acciai

Il cacciatore
 

Riccardo Lupo
 

Da molti anni ormai vivo in strada. Ho visto 51 inverni, ma paiono cento. In un'altra vita avevo una casa e una famiglia, una madre e un padre, qualcuno che si prendeva cura di me. Ormai non so più se fu davvero in questa mia vita terrena o in un altro corpo, o solo nei miei sogni. A volte sogno grandi edifici gelidi e silenziosi come cattedrali, ma più spesso piccole stanze di legno riscaldate da un allegro fuoco nel camino e con pietanze fumanti sulla tavola. Penso che i sogni tipici di un clochard non siano molto diversi dai miei. Sogni culinari. Non c'è infatti molto da mangiare nella vie cittadine. Raramente riesco a mettere insieme cena e pranzo, anzi questi due termini hanno perso col tempo significato: ci sono solo pasti malmangiati agli orari più strani.
Ho fatto un po' di tutto per tirare avanti, dal lavavetri al parcheggiatore abusivo, finendo poi per chiedere l'elemosina in un angolo di Piazza Dalmazia, nel quartiere di Rifredi. In questa piazza ci hanno ammazzato di recente un paio di extracomunitari; i fiorentini hanno manifestato una grande solidarietà, ma per i poveracci come me non è cambiato nulla. Resta chi ha tutto e chi non ha nulla. Così va il mondo.
La vita è dura per quelli come me: mai un attimo di pace, lo stomaco sempre vuoto, non si può nemmeno più dormire nei cassonetti perché magari prima che ti svegli ti trovi stritolato nel camion dell'immondizia. Fatti di questo genere se ne leggono sulle locandine dei giornali. Perfino un ignorante come me, che ha a mala pena fatto le medie, lo sa. La vita è uno schifo. Una volta leggevo molto - in quell'altra vita il cui ricordo si fa sempre più sbiadito - e leggevo di vagabondi e barboni felici, qualcuno addirittura sceglieva volontariamente di vivere per strada. Stronzate. Chi sarebbe tanto pazzo da scegliere questa vita? Allora tanto vale spararsi in testa, si soffre meno. Gli scrittori parlano di cose che non capiscono, mi fanno rabbia…
La mia vita stava però per cambiare. Quella sera di dicembre che faceva un freddo indiavolato e i lampioni rivelavano una pioggerella dispettosa che poteva anche essere nevischio, venne questa specie di Gesù Cristo a raccogliere noi poveri disperati e portarli a casa sua. Si avvicinò a me col suo seguito di colleghi barboni: un signore distinto, benvestito, uno che si fa la doccia tutti i giorni e che non ha problemi a procurarsi il cibo. Sembrava un avvocato o qualcosa del genere. Aveva un orologio d'oro che sbucava dal polsino. Ben pettinato, con una barba ben curata, profumato, mi domandavo cosa ci facesse in compagnia di accattoni puzzolenti come me. Insomma, mi si avvicinò e anziché gettarmi qualche spicciolo come fanno talvolta i passanti, mi salutò dandomi del lei - cosa che non fa mai nessuno.
- Da quanto tempo non mangia? - mi domandò con accento straniero.
Non me lo ricordavo neanche più, rimasi in silenzio, a bocca aperta per lo stupore. Gli altri barboni mi guardavano curiosi e mostravano anche loro meraviglia, ma anche diffidenza.
- Verrebbe a cena da me?
Riuscii a malapena ad annuire. Che imbroglio diabolico poteva esserci? Un ricco che invita a cena un povero!
- Venga.
Mi alzai dal cartone su cui mi ero seduto e lo seguii. Era chiaro che anche agli altri straccioni era stato rivolto lo stesso invito. Il misterioso individuo era come il pifferaio magico che si portava in processione i disgraziati della città con la promessa di un pasto caldo gratuito. Pensando al finale della fiaba, come non provare un certo timore? Ma come i topi della storia, l'uomo sembrava averci stregato. I nostri dubbi erano sopraffatti dalla sua voce e dalla presenza salvifica.
Io ero l'ultimo del suo giro. Raggiungemmo a piedi una villa appena fuori città, dalle parti di Castello. Oltrepassato il cancello ci venne incontro un gatto bianco, di razza, a cui mancava un orecchio. Il gatto andò a strusciarsi alla gamba del padrone di casa, poi sparì in un cespuglio.
- Accomodatevi, amici - ci disse una volta entrati nell'abitazione. Ci sedemmo in un salotto molto elegante. C'erano molto quadri e opere d'arte, ed una grande libreria che attirò subito la mia attenzione. Non riuscii però a leggere i titoli perché un barbone si mise in testa di fare conversazione con me. Accettai di buon grado, dopotutto non era così frequente scambiare due parole nella vita infame che conduco nei vicoli. Tra barboni non c'è poi tutta questa solidarietà che viene descritta in certi libri; piucchealtro ci si ignora. C'era comunque qualcosa di diverso in quel tizio, un uomo di mezza età che non somigliava affatto al tipico clochard. A poco a poco mi raccontò la sua storia. Veniva da una città del nord che non volle specificare; benestante, aveva abbandonato moglie e figlio per non ho capito bene quale motivo e viveva di elemosine a Sesto Fiorentino, dormendo alla stazione di Castello o in qualche casa abbandonata, o semplicemente su una panchina. Più o meno come me. Non lo avevo mai visto prima, ma d'altronde non bazzico quelle zone. A dir la verità non conoscevo nessuno dei barboni ed extracomunitari, compagni di quella strana serata. Quanto a quel tizio pensai che era del tutto matto.
- Tra poco la cena sarà pronta - ci disse il nostro anfitrione, e in effetti veniva un discreto profumino dalla cucina; profumo d'arrosto.
La notizia suscitò commenti di gioia. Il barbone appena conosciuto aveva uno sguardo famelico, si vedeva che aveva un debole per l'arrosto. Quanto a me, non ricordavo l'ultima volta che avevo mangiato qualcosa di diverso da qualche pezzo di pizza gettata nella spazzatura o qualche mela rubata al mercato.
- La carne che ci apprestiamo a mangiare stasera l'ho cacciata io personalmente - ci informò il nostro ancora anonimo benefattore - è tutta carne di cane randagio, più un paio di bastardini del canile di Sesto.
Dette quel singolare annuncio con estrema naturalezza, come se avesse detto che ci aveva cucinato pollo arrosto o braciole ai ferri.
- Lei è un mostro!
La voce, imperiosa, era giunta dal tizio accanto a me; il barbone che veniva da Sesto. Si fece silenzio. Il barbone si alzò di scatto ed uscì dalla stanza con passo furioso. Udimmo sbattere il portone.
Ci guardammo ancora stupiti, senza sapere bene cosa dire. Poi io mi alzai e guardai negli occhi il padrone di casa.
- Abbiamo capito bene? - gli domandai - Carne di cane?
- Sì, carne di cane. Ho ucciso e cucinato io personalmente le bestie. Precisamente cani di grossa taglia, per lo più incroci. C'è anche un cane lupo. Più sono grossi e cattivi migliore è il sapore della carne, non trovate? Magari non avete mai assaggiato carne di cane, ma vi assicuro che è ottima e salutare.
Nessuno si espresse ma, a parte il nostro compagno barbone che se n'era andato infuriato, nessuno rifiutò l'invito del nostro gentile anche se singolare ospite. Ci sedemmo a tavola, eravamo circa una decina compreso il padrone di casa - che a quanto pareva viveva solo.
La conversazione partì solo dopo che gli stomaci famelici si furono riempiti, e dopo qualche generoso bicchiere di vino rosso che accompagnò il pasto. Il nostro ospite aspettò pazientemente che ci fossimo saziati, placando una fame ormai cronica, quindi iniziò a chiederci com'eravamo finiti in strada.
Un barbone non ama molto parlare del proprio passato: se ha visto tempi migliori è penoso per lui ricordarli, se ha visto solo miseria è comunque spiacevole. Per questo i barboni sono tipi piuttosto taciturni e la loro conversazione non è molto brillante. Solo un paio di noi si lasciarono andare al racconto: un tizio con uno spiccato accento laziale, piuttosto giovane nell'aspetto, che viveva di espedienti solo da qualche mese e che prima aveva un lavoro in un supermercato. Ci raccontò una storia che aveva dell'incredibile, probabilmente se l'era inventata per far colpo sul nostro ospite, o forse perché era un po' toccato. Nel suo racconto aveva condiviso una donna con un altro uomo; la donna aveva preso in giro entrambi e quando lo avevano scoperto l'avevano mezza ammazzata di botte e si erano dati alla macchia. Si era definito una specie di "ostaggio del sesso".
L'altro narratore ero io. La mia storia è piuttosto banale: nell'infanzia e nell'adolescenza ho ricevuto solo calci da tutti quelli che mi stavano intorno, in primis i miei genitori, ed ad un certo punto mi sono stufato e me ne sono andato di casa. Tutto qui. All'epoca non sapevo quanto potesse essere dura la vita nelle strade, senza un vero e proprio riparo e con lo stomaco vuoto: quando l'ho imparato era troppo tardi per tornare indietro. Comunque nessuno mi avrebbe accolto come un figliol prodigo, avrei avuto solo una vita ancora più dura di quella che avevo lasciato. Poi mi sono abituato, bene o male, anche se mai del tutto. Per questo un'idea cominciava a girarmi per la testa, fin dal primo boccone d'arrosto di cane.
Dopo i nostri due racconti la conversazione iniziò a languire. Il nostro padrone di casa si chiuse in un silenzio che giudicai malinconico. Fuori la pioggerella si era mutata in una pioggia battente, un vero diluvio. Tuttavia ad una certa ora fu chiaro che, pioggia o non pioggia, dovevamo togliere il disturbo e ringraziare per il pasto gratuito.
- Vi prego amici - ci disse al momento dei saluti - non uscite con questo tempo!
Ci accompagnò ad una specie di gazebo davanti a casa. Il gazebo era chiuso da vetrate e dentro c'era un certo tepore dato da alcune stufette. Ci buttammo su dei divani e sul tappeto, felici di passare la notte in un posto coperto e caldo. Da qualche parte, vicino, un cane ululava.

Ripensai parecchio nei giorni successivi a quello strana serata. A volte speravo di rivedere apparire l'anonimo signore gentile che mi tendesse la mano e mi invitasse di nuovo a cena da lui, ma non lo rividi per almeno due settimane. Durante quel tempo continuai la mia solita vita randagia, tra il sottopassaggio accanto al mercato di Piazza Dalmazia - dove suonavo la mia fisarmonica vecchie canzoni orecchiabili come "Besame mucho" e "O sole mio".
I cani non mi sono mai piaciuti: bestie aggressive e moleste, buone solo a rompere la quiete notturna con i loro stupidi latrati e a smerdare le strade e perfino il sottopassaggio dove ho il mio duro giaciglio. Non ho particolare paura dei cani randagi, anche se si trovano brutte storie di aggressioni nelle locandine dell'edicola, e qualche volta mi sono trovato davanti a cagnacci ringhianti che difendevano il "loro" territorio. Mi bastava di solito dimostrarmi più aggressivo di loro per liberarmene, ma non erano comunque incontri simpatici. Una volta un barbone nuovo è arrivato a contendermi il mio sottopassaggio. Aveva una specie di mastino al fianco. Non saprei dire se abbaiasse di più il cane o il padrone, ma alla fine mi bastò rompere una bottiglia di birra, raccolta da terra, e minacciarli con i bordi seghettati e taglienti. Non l'ho più rivisto. Un'altra volta un punk abbestia mi aveva guardato storto e mi aveva messo in fuga sguinzagliandomi una specie di dobermann o qualcosa del genere, ringhiante. Solo a stento ero riuscito a mettermi in salvo, scavalcando il cancello di un cortile.
Molti dei miei colleghi barboni tengono un cane per compagnia e per impietosire i passanti. Idioti. Sono disposti a sfamare un cane piuttosto che una persona. Io non vorrei mai una bestia pulciosa e puzzolente accanto a me, mi basto da solo, come ho sempre vissuto.
Di solito mi corico presto, non più tardi di mezzanotte, quando cessa il casino nelle strade e tutto è tranquillità e silenzio. Beh, più o meno. Quella notte però non riuscivo a prendere sonno sul mio cartone lercio; c'era qualcosa nell'aria. Mai come in quel momento ho sentito la durezza di pietra della mia vita, l'immensa vanità del tutto. Forse se mi fossi trovato alla stazione di Rifredi mi sarei buttato sui binari, ma a quell'ora non circolano neanche i treni e comunque sarebbe stata una morte dolorosa, che non mi si addiceva. Volevo però farla finita, anche se quando si è barboni l'unico modo per farla finita è lasciarsi morire di freddo. Sì, il dolce abbraccio di padre inverno, col vento che penetra attraverso quegli stracci che non oserei chiamare vestiti e che ti regala una grande sonnolenza… una voglia di lasciarsi andare…
Ma non era una serata fredda quella, anzi era piuttosto tiepida per essere una vigilia di natale. Ci saranno stati forse cinque gradi, forse una decina.
Mi decisi a fare fagotto delle mie poche cose e fare due passi. Forse camminare mi avrebbe fatto passare le paturnie. Le vie erano deserte - era l'una di notte, come vidi dal display sopra la gioielleria, e c'erano 9 gradi. Non c'era un filo di vento. C'era la luna piena e le decorazioni natalizie a far luce nelle vie. Quanto odio le decorazioni natalizie e il natale in genere: quanta ipocrisia, quanta elettricità sprecata quando si potrebbe rendere la vita un po' più sopportabile a noi disgraziati! Talvolta mi ero divertito a rompere le luminarie in via Vittorio Emanuele, centrando le luci con dei sassi raccolti a giro. Magari ripetere quell'esercizio di mira mi avrebbe un po' tirato su il morale.
Camminavo nella strada alla ricerca di oggetti da tirare quando sentii un rumore alle mie spalle. Una specie di guaito soffocato. Mi volto e chi ti vedo? Una figura in ombra che si avvicina ad una specie di fagotto sulla strada. Nella figura in ombra, appena entra nel cono di luce del lampione, riconosco il padrone di casa che mi aveva ospitato qualche settimana prima. Il fagotto in mezzo alla strada invece è un cane di grossa taglia, a pelo lungo. Non conosco le razze canine, ma mi sembra una bestia di razza, probabilmente smarrita da qualche riccone. Il cane viene prontamente infilato in un sacco nero, uno di quelli per l'immondizia, e caricato su una spalla fino al marciapiede. Quindi viene legato e abbandonato. La figura si allontana per non più di cinque minuti, quindi appaiono i fari di un cassonato che si ferma vicino al sacco. L'autista è lo stesso "cacciatore" che carica nel cassone del veicolo. Intanto io mi ero avvicinato e osservavo la scena da dietro un'auto parcheggiata.
- Salve! - urlai, sbucando all'improvviso.
Quello sussultò e si girò di scatto.
- Non si spaventi, sono io - mi feci avanti - ci siamo incontrati due settimane fa, mi ha invitato a cena, ricorda?
L'uomo mi guardò meglio, quindi sembrò riconoscermi.
- Sì certo, caro, mi ricordo! Mi ha fatto prendere un bello spavento sa?
- Cosa sta facendo?
- Non lo vede? Sono a caccia!
- A caccia? Ma non ho sentito nessuno sparo!
- Ho usato questa - mi mostrò una pistola con una canna molto lunga e tozza; doveva essere un silenziatore - mica penserà che si possa sparare in strada così come nulla fosse! Mi beccherebbero subito.
Era l'occasione che aspettavo, ciò su cui andavo riflettendo fin da quella cena. Mi feci avanti.
- Posso venire con lei?
L'uomo mi guardò sorpreso.
- Potrei aiutarla a stanare le prede e a trasportarle - continuai, ormai deciso ad andare in fondo al mio piano. - Conosco bene tutta la provincia di Firenze.
- Beh… non so…
Divenne pensieroso. Temeva qualche brutto tiro da parte mia? Non era quello il motivo. Sentivo che si fidava. Dopotutto se temeva i barboni che senso aveva invitarne a casa sua addirittura una decina?
- La prego. Conosco diversi posti dove potrebbe trovare delle prede.
Mi guardò da capo a piedi, come per analizzarmi, quindi mi fissò dritto negli occhi.
- La prego.
- Venga con me - mi disse infine, invitandomi a salire sul cassone insieme al cadavere del cane; cadavere che aveva condiviso il destino di altri due quadrupedi, a giudicare dalle altre due buste presenti, a meno che non si trattasse davvero di spazzatura. Ma in fondo un cane morto non è forse spazzatura?
No, poteva essere mangiato.

Feci così da guida. L'uomo non era molto pratico dei dintorni, infatti si era trasferito da poco e cacciava soprattutto a casaccio. Per quella sera non trovammo altri randagi a giro, anche se ci spingemmo fino a Calenzano. Vista l'ora trovammo solo parecchie puttane lungo il viale che va a Prato. Ma non erano quelle le nostre prede. Solo molto oltre Settimello un grosso cane a pelo corto ci attraversò la strada, veloce come un lampo. Gli occhi, colpiti dai fari, rimandarono un riflesso fosforescente che aveva qualcosa di lupesco nell'oscurità. L'uomo fermò l'auto e la lasciò al margine della strada - eravamo in una via un po' fuori dall'abitato, illuminata da pochi lampioni. Ci guardammo attorno, infine individuai l'animale che urinava presso un vecchio muro diroccato. L'uomo prese la mira e sparò. Non ci fu nessun rumore, il silenziatore aveva fatto ancora una volta il suo dovere. Neanche l'animale mandò alcun guaito; non ne ebbe il tempo, fu centrato proprio alla testa. Vidi il muso esplodere in una nuvola rossastra. La potenza del colpo scaraventò l'animale contro il muro, lasciando una chiazza di sangue, ossa e materia grigia che da lontano sembrava un macabro murales.
Un sorriso di soddisfazione si allargò sul viso dell'uomo. Tutto si era svolto nel giro di pochi attimi e nel più assoluto silenzio. Il cuore prese a battermi forte: non avevo mai assistito ad una battuta di caccia, figuriamoci in un ambiente quasi urbano. A dir la verità non avevo mai visto sparare nessuno fuori da uno schermo televisivo. Fu emozionante.
Non cacciammo altre bestie quella sera ma in un paio d'ore si era creato un certo affiatamento tra noi, tanto che il signore - che si chiamava Michael ed era di origini americane, aveva più o meno la mia età ed esercitava in effetti la professione di l'avvocato - mi invitò a passare a trovarlo la sera successiva, all'ora di cena, per gustarci le prede.
Iniziò così una frequentazione quasi quotidiana. Oltre ad accompagnarlo nelle scorribande notturne, guidandolo nelle zone che conoscevo bene dalla mia vita randagia e solitaria, lo aiutavo a cucinare le prede ed in cambio avevo un alloggio assicurato per la notte nel suo gazebo. Nessuno venne mai a protestare per il sensibile calo di cani randagi, proprio perché randagi e privi di un padrone che li reclamasse, anche se sicuramente in mezzo al mucchio qualche cane di razza smarrito era capitato. I nostri obiettivi erano comunque i cani di grossa taglia, quelli che personalmente trovavo più antipatici e pericolosi per l'uomo. I cagnolini riposavano al sicuro tra le pareti domestiche, coccolati e viziati più che bambini. Non ci interessavano.
Un giorno gli domandai perché andasse a caccia di cani. Certo, in questo modo risparmiava sulla spesa, ma era evidente che c'era dell'altro. Ad esempio risparmiava i gatti, e anzi ne teneva un paio in casa, o per meglio dire nel vasto giardino. Il gatto privo di un orecchio si chiamava Tigre e, seppi poi, lo aveva perduto in uno scontro con altri gatti randagi che si erano intrufolati nella proprietà. C'era poi Trilli, una gattina soriana dolcissima, con cui avevo fatto presto amicizia e che veniva a strusciarsi sempre ai miei jeans mezzi strappati (non per moda ma per usura).
- Perché lo faccio? - mi fece eco Michael. - E lei perché lo fai?
- Ah beh - risposi prontamente - nel mio caso si tratta di sopravvivenza. Ma lei potrebbe benissimo procurarsi delle bistecche al supermercato o dal macellaio.
Mi guardò scandalizzato.
- E che male mi hanno fatto le mucche?
- E i cani allora?
Si chiuse in un mutismo che mi fece capire di aver toccato un tasto dolente. Lo avevo sempre sospettato che ci fosse qualche mistero sotto, ma per quel giorno dovetti tenermi la mia curiosità.

Uscivamo tre o quattro sere a settimana, facendo il giro delle periferie. Dopo un mese Michael mi consegnò una pistola con silenziatore, più o meno come la sua. Se le era portate dietro dall'America, dove era facile procurarsi un'arma. Ho sempre pensato che la facilità con cui ci si può armare, e quindi difendere, in una paese come gli Stati Uniti fosse un buon segno di civiltà, così come la pena di morte. Perché nutrire a spese dello stato assassini e stupratori? Meglio toglierli dalla circolazione. Una volta glielo dissi e lui fece la faccia dubbiosa. Fu la sera prima che mi consegnasse l'arma, lo ricordo bene.
Le "cene dei barboni", così come le chiamavo, si ripetevano più o meno al ritmo di una a settimana. Ormai il mio mentore era diventato una specie di leggenda tra i senzatetto, un porto sicuro, un punto di riferimento. Il segreto era tuttavia ben custodito, dal momento che era tutto interesse degli sfortunati ospiti che la notizia non arrivasse alle orecchie sbagliate. Solo una volta rischiammo di brutto. Fu verso la fine della primavera, quando le giornate si erano fatte tiepide e lunghe ed era piacevole starsene fuori anche fino a tardi. Quella sera si presentarono due poliziotti con un mandato di perquisizione. C'era stata una segnalazione per attività illecite legate al maltrattamento di animali; sicuramente era stato quel barbone della prima sera che aveva definito Michael "un mostro" prima di andarsene sbattendo la porta. Era una sera in cui eravamo ancora in casa, di solito non uscivamo prima di mezzanotte. Saranno state le otto. Stavamo preparando la cena, a base di bastardi cacciati la notte precedente. Fu il momento in cui rischiammo tutto: molto probabilmente la prigione. Io potevo anche sopportarla, non sarebbe stata la prima volta che finivo dietro le sbarre, ma un tipo borghese e delicato come Michael? Sarebbe stata la sua rovina. I poliziotti infatti trovarono i resti dei cani macellati, due per la precisione, ma Michael riuscì a convincerli che si trattava dei suoi due cani domestici morti in un incidente stradale e che si trattava di un rituale della sua cultura religiosa consumarne i resti. I poliziotti si lasciarono convincere soprattutto da una lauta bustarella, offerta dal padrone di casa. Michael era un uomo ricco. Trovai comunque ingiusto che in Italia fosse vietato il consumo di carne di cane e permesso invece quello, che so, di pollo o di agnello: perché l'agnello sì e il cane no?
Le nostre scorribande notturne rimasero comunque un segreto, condiviso solo da noi e dai barboni e senzatetto della zona, i quali non si tiravano certo indietro davanti ad un piatto fumante di carne canina, a parte qualche extracomunitario musulmano o qualcuno che aveva appunto un cane. Cani vivi in casa di Michael non erano infatti permessi.

Con Michael ormai ero amicissimo: pranzavamo e cenavamo insieme praticamente tutti i giorni, dividendoci il "bottino" delle notti precedenti. Talvolta tornavamo a casa a mani vuote, senza aver fatto nessun incontro canino. Michael allora passava al canile municipale di Sesto e prendeva uno o due bastardini che poi macellava e serviva in tavola. Riscoprii così quelle piccole comodità casalinghe, come potersi fare una doccia o indossare vestiti puliti. Certo, il menu era un po' monotono, ma non avevo mangiato così bene da anni.
Potrei raccontare tante piccole storie di caccia. Una notte ad esempio eravamo dalle parti dell'Osmannoro, zona industriale praticamente morta e buia a quell'ora. Ci eravamo appostati in macchina presso un magazzino quando udimmo un miagolio infuriato ed un abbaiare. Smontammo subito e tirammo fuori le pistole. Davanti a noi vedemmo sfrecciare un grosso cane che inseguiva un gatto randagio. Facemmo fuoco. Beccammo l'inseguitore a mezz'aria, proprio nel momento in cui stava piombando sul povero micio. Lo colpimmo entrambi, uno alla testa ed un altro all'addome. La violenza del colpo lo aveva deviato dalla traiettoria e spinto qualche metro lontano. Il gatto era sparito. Fino a quel momento non avevo mai colpito una preda, nonostante avessi sparato diverse volte con la pistola che mi aveva dato Michael. Credo che quella volta fu più un caso fortunato che altro, fu comunque una grande soddisfazione: col mio primo colpo avevo salvato una creatura che stava per subire una tremenda sorte. I gatti mi sono sempre stati simpatici, anche se non li metterei comunque allo stesso livello degli esseri umani. Non mi hanno mai dato noia, anzi mi hanno fatto spesso compagnia nel gelido sottopasso di Piazza Dalmazia. L'assurda caccia del cane nei confronti del gatto non l'ho mai potuta giustificare: il cane non caccia per mangiare il gatto, caccia solo per l'istinto di uccidere. Noi invece cacciavamo un po' per mangiare e un po' per il gusto di uccidere delle bestie immonde. Almeno per me era così, ma sospettai che per Michael ci fosse un motivo ancora più personale che mi teneva nascosto.
Qualche sera dopo il mio amico americano mi mostrò il cancello della villa del suo vicino, un certo signor Lumachi. C'era un cartello bene in vista:

Area videosorvegliata.
A parte la violazione di domicilio in casa ci sono quasi sempre io, quindi non ve lo consiglio. Suonate a Lumachi e vi sarà aperto.

- Stanotte andremo a fargli una visitina - mi disse con tono complice - ma senza suonare il campanello.
Lo guardai in modo interrogativo. Che senso avrebbe avuto introdursi di nascosto in quella proprietà? Scartata subito l'ipotesi di un furto con scasso - Michael era troppo ricco, per quanto fosse eccentrico - mi venne in mente solo un motivo possibile.
- Portiamo le armi? - domandai, già conoscendo la risposta.
- Certamente.
Ero emozionatissimo. La serata prometteva di essere movimentata e avventurosa. Aspettammo l'ora più adatta chiacchierando nel gazebo, bevendo caffè bollente. Mi ritrovai a raccontargli la storia della mia vita: l'infanzia e l'adolescenza infelice, la fuga da casa, la dura vita di strada. Di lui invece non seppi niente di più di quanto sapessi già, ossia che era nato a Nuova York e che si era trasferito in Italia da non molto, a dispetto dall'italiano perfetto che parlava, tradito solo dall'accento americano. Verso le due di notte ci muovemmo. Mi sembrava di essere in un romanzo di Salgari, a caccia nella giunga insieme a Sandokan o Tremal-Naik. A me sarebbe toccata naturalmente la parte del fido Yanez o del servo Kammamuri. Introdurci nella proprietà del Lumachi sarebbe stato un gioco da ragazzi: le telecamere tenevano d'occhio soprattutto il cancello e l'ingresso della villa, mentre noi saremo passati dal muro che divideva la proprietà di Michael da quella del vicino. Era un muro di pietra e calcina, alto un paio di metri, con cocci appuntiti in cima. Non era un problema per noi. Andammo a prendere una scala e in un baleno fummo dall'altra parte. Facemmo appena qualche passo quando sentimmo un ringhiare che si avvicinava. Era il pitt bull del signor Lumachi, il cane da guardia. Aspettammo che si avvicinasse. Lasciai il colpo a Michael, che aveva un conto in sospeso col cane; infatti lo sentii bisbigliare - Adesso smetterai di rompermi i coglioni!
Un attimo e i ringhi cessarono. Infilammo il corpo sanguinante nel sacco che ci eravamo portati dietro, quindi ripulimmo alla meglio il sangue sul prato gettandoci un secchio d'acqua per diluirlo. Il terreno lo avrebbe assorbito cancellando ogni traccia. Al mattino il padrone avrebbe semplicemente constatato la scomparsa della bestia, senza capacitarsi di dove potesse essere andata. Era improbabile che avessero sentito il cane ringhiare, la casa era piuttosto lontana; ad ogni modo tornammo lestamente nel giardino di Michael, gettando secchio e sacco oltre il muro e riponendo poi la scala nel garage. L'intera operazione non era durata più di dieci minuti. Prima di andare a letto Michael fece a pezzi il corpo del pitt bull e lo ficcò in frigo, come di consueto, in sacchetti trasparenti per la conservazione delle vivande.

Pensavo che Michael fosse un po' matto e senz'altro imprudente, soprattutto quando, il giorno successivo, fece visita al signor Lumachi, stavolta usando il campanello, e mi chiese di accompagnarlo. Io non ero molto convinto, avevo paura di tradirmi, ma lui insistette che proprio in questo modo potevamo sviare i sospetti: non a caso aveva sopportato l'abbaiare lugubre del cagnaccio per tutto quel tempo, proprio per non creare alcun sospetto.
Ci venne ad aprire la domestica filippina, la quale ci fece accomodare in salotto dove il padrone di casa ci raggiunse in pochi minuti. Si trattava di un uomo corpulento, dall'aspetto decisamente volgare: se non fosse stato per la vestaglia di seta e l'odore pesante di colonia che lo precedeva, lo avrei scambiato per un collega barbone.
- Come sta signor Lumachi? Sono passato per farle un salutino insieme al mio tuttofare, Camillo…
L'uomo mi diede un'occhiata distratta e mi strinse la mano, quindi si accasciò sulla poltrona e fece segno di accomodarci sul divano.
- Scusate, sono un po' in agitazione: Rambo è sparito durante la notte.
- Rambo è il suo cane? - domandò con falsa ingenuità Michael.
- Sì, è un pitt bull di cinque anni, addestrato alla guardia. È un mistero; le videocamere non hanno ripreso nulla, e comunque non può aver scavalcato cancello e muro. Non riesco a capacitarmene. Sono davvero preoccupato, per me era come una persona.
- Immagino. Mi dispiace molto.
- Scusatemi, devo andare a denunciare la scomparsa ai carabinieri.
- Certo. Sono passato anche per invitarla a cena da me stasera, se se la sente s'intende.
Guardai Michael con sorpresa. Cosa diavolo aveva in mente?
- La ringrazio, mi farebbe molto piacere, se non altro servirà a distrarmi.
- Ma le pare! Tra buoni vicini è il minimo. Se dovessi sapere qualcosa la chiamerò subito. Ci vediamo allora stasera verso le otto?
Il signor Lumachi annuì stancamente. Mi fece un po' di pena; certe persone si affezionano ai loro animali domestici arrivando perfino a tenerne più conto degli esseri umani. A me è sempre sembrata una follia: come può un cane, o un gatto, paragonarsi ad una persona? Come può ricambiare l'affetto, con consapevolezza e libero arbitrio? Ho sempre pensato che in qualche modo chi ama troppo gli animali sottragga indebitamente quell'amore al genere umano, come aveva anche osservato uno scrittore di cui mi sfugge il nome: non a caso i nazisti amavano i cani. Ovviamente tenni per me le mie considerazioni, anche perché si vedeva che il Lumachi era davvero abbattuto.
Conoscevo ormai abbastanza bene il mio amico e padrone di casa da prevederne le azioni, eppure riusciva ancora a sorprendermi. Quella sera la cena fu a base di spaghetti al sugo di cane, polpette di cane e insalata per contorno. La carne l'aveva fornita suo malgrado Rambo. Chissà che faccia avrebbe fatto il nostro ospite, il signor Lumachi, se avesse saputo, a cena consumata, di aver mangiato il suo pitt bull, cancellando così ogni prova del nostro misfatto. La cosa mi avrebbe fatto anche ridere, era di un umorismo nero irresistibile, ma riuscii a trattenermi e a non tradirmi. Michael era un attore consumato; chiacchierò con naturalezza, esprimendo al suo vicino tutta la sua solidarietà e sopportando senza darlo a vedere i discorsi tipici dei padroni dei cani, ossia di quanto siano intelligenti i loro cucciolini, di quanto siano dolci, di quanto siano umani.
- Vedrà che il suo cane rispunterà fuori prima o poi - lo rassicurò Michael.
Sì, pensai tra me, ma da una parte che non ti aspetti di certo, e cercai di mascherare con finti colpi di tosse la risata che stava montando così come, alla fine del pasto, quando il Lumachi si complimentò per le polpette.

Passarono un paio di mesi da quell'episodio. Il Lumachi aveva preso un altro cane, un dobermann dall'aspetto ancora più feroce di Rambo, ma addestrato ad abbaiare solo in caso di intrusione. Michael non si poteva certo lamentare in quel senso, ma avevamo comunque ripreso le nostre scorribande notturne, le nostre "battute di caccia" come le chiamava il mio amico. Battute sempre meno fruttuose: ormai avevamo fatto quasi piazza pulita. Gli accalappiacani avranno sicuramente notato la sospetta sparizione di cani randagi nell'area compresa tra il Mugello e il Chianti, ma certo non si saranno lamentati per il minor lavoro. Era tempo di togliere le tende, come mi disse una sera Michael.
- Ormai stiamo destando troppi sospetti, e ci sono pochi cani randagi a giro. Stiamo esaurendo le prede.
- Beh, potremo accontentarci del canile.
- No - rispose bruscamente - daremmo troppo nell'occhio a portar via tutti quei cani, potrebbero venire a fare un'ispezione qui a casa, e poi… non è solo una questione di cibo.
- Non capisco, insomma, perché lei ce l'ha tanto con i cani?
Neanche stavolta ottenni risposta alla mia domanda.
- Da quando me ne sono andato dagli Stati Uniti - mi disse invece - ho vagato di nazione in nazione, sempre a caccia. Quando le prede finivano semplicemente mi spostavo. Sono un uomo ricco, posso permettermi di vivere di rendita e viaggiare. Quando sono arrivato qui a Firenze sapevo che non era per sempre. Ho intenzione di vendere la villa e trasferirmi altrove, forse a Roma, oppure ancora più a sud, vedremo.
La notizia mi lasciò perplesso. La pacchia era dunque finita. Temevo che prima o poi sarebbe arrivato quel momento; tornare al sottopasso a elemosinare qualche spicciolo sarebbe stata dura, non potevo più contare sui pasti assicurati. Mi avrebbe permesso di tenere la pistola e poter così continuare la caccia da solo? Ne dubitavo, e comunque come avrei cucinato le prede? No, dovevo tornare alla mia vita di prima.
Come se mi avesse letto nel pensiero, Michael mi rassicurò prontamente.
- Può venire con me se lo desidera. Avrò pur sempre bisogno di qualcuno che mi aiuti nelle cacce.
M'illuminai.
- Conosco bene la Capitale - dissi - ci sono molti cani randagi, inoltre è una bella città, un po' caotica ma vale la pena. Consiglio la periferia, la zona di Trastevere.
- Bene, allora è deciso. Prepariamoci, andiamo a farci un'ultima battuta: dove possiamo andare stasera?

Senza fretta Michael cercò una sistemazione a Roma, con frequenti viaggi in auto per visitare ville e appartamenti. A luglio era pronto per il trasloco. L'estate era arrivata con la canicola solita e aveva riempito i giardini di fiorentini e stranieri in cerca di frescura. Sulla spiaggetta sull'Arno, davanti alle Rampe, c'erano diversi ombrelloni e bambini a costruire castelli di sabbia che sembrava proprio di essere al mare - se non fosse stato per il panorama decisamente urbano.
Ormai non valeva più uscire la sera: di cani randagi, in oltre sei mesi di battute di caccia, ormai non ce n'erano più neanche a pagarli. Addirittura il canile municipale era quasi vuoto e certo la cosa non era passata inosservata. Ormai anche i giornali parlavano del "mistero della sparizione dei randagi", anche se era una notiziola nelle pagine di cronaca cittadina, di quelle che passano spesso inosservate o vengono lette come curiosità. Ovviamente anche le "cene dei barboni" erano cessate ormai da tempo, e il frutto delle nostre battute finiva direttamente nei nostri piatti, e poi infine venne a mancare anche quella. Era tempo di andare, su quello Michael aveva pienamente ragione.
La partenza era fissata per la prima domenica del mese. L'appuntamento era per le quattro del pomeriggio a casa di Michael: avremo raggiunto col fido cassonato una bellissima palazzina a Trastevere e lì avremo ricominciato da zero, in un territorio vergine.
Passai la notte nel mio giaciglio nel gazebo, che ormai tenevo spalancato. Tutto era tranquillo in quelle notti, dopo la musica che giungeva dalla vicina Festa Biancoverde all'Atletica Castello, e presto la città si sarebbe svuotata come di consueto. Quante volte avevo visto quella scena ripetersi. Ma avrei presto cambiato scenario, la mia vita aveva preso un'altra direzione con quell'incontro di sette mesi prima. Ero sereno.
La mattina era stata straordinariamente afosa ed era ancora una sfida trovarsi in strada alle quattro del pomeriggio, ma avevo visto ben di peggio nella mia vita e ormai mi ero abituato. Ho sempre pensato che sarei morto di freddo più che di caldo, anche se ogni estremo termico ha reclamato le sue vittime tra noi gente di strada. Ma ormai non mi consideravo più tanto "di strada": come ho detto, la mia vita era cambiata.
Arrivai a casa del mio amico con qualche minuto di anticipo, col bus 28 (senza biglietto ovviamente). Non c'era nessuno a giro a quell'ora, da quelle parti. Neanche una macchina. Suonai il campanello e attesi. Non mi rispose nessuno. Riprovai più volte, invano. Cominciai a preoccuparmi. Possibile che non mi avesse sentito? Forse stava dormendo? Provai ancora. Niente. Iniziavo a pensare che fosse successo qualcosa di grave. Dovevo forse avvertire la polizia? No, sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe voluto il mio amico. Tra questi pensieri mi ero intanto seduto su una panchina all'ombra di un cipresso, e dalla posizione seduta ero passato in breve a quella distesa e quindi al sonno.
Quando riaprii gli occhi era già sera. Nessuno aveva disturbato il mio riposo, segno che nessuno era passato. Michael mi avrebbe visto subito se fosse uscito.
La sera stava scendendo sulla città, già apparivano le prime stelle, e Venere, la stella della sera, brillava accanto alla falce di luna. Ero ripiombato di colpo nella mia vita randagia e miserabile. Passai una notte infelice bighellonando tra la villa di Michael e la stazione di Rifredi, dove infine mi addormentai. Al mio risveglio la prima cosa che feci fu di andare a leggere le locandine dei giornali all'edicola. Un oscuro presentimento mi chiudeva la gola. Nonostante i 32 gradi che segnava il display non sentivo affatto caldo.

Compresi subito che il titolo a grandi caratteri neri sulla locandina de La Nazione riguardava Michael, anche se non c'era il suo nome:

TERRORE ALLO STIBBERT. BAMBINO AGGREDITO DA UN CANE. UOMO ARMATO SPARA IN PUBBLICO. ARRESTATO.

Mi precipitai nel bar della stazione dove trovai per fortuna una copia del quotidiano. Nelle pagine di cronaca locale lessi l'articolo in cui si citava nome e cognome del mio amico. Lessi d'un fiato:

FIRENZE - Domenica alle 11.30 del mattino il giardino del museo Stibbert si è trasformato in un far west di periferia. Una tragedia scongiurata dall'intervento dell'avvocato M. Greene, 55 anni, americano residente in Italia da un anno. Nonostante il divieto di accesso ai cani, non è infrequente che i padroni portino i loro amici a quattro zampe nel giardino e li liberino; proprio uno di questi ha aggredito il piccolo Alessio, 5 anni, che giocava con gli amici sotto lo sguardo della nonna. All'improvviso un labrador nero ha attaccato il bimbo, azzannandolo ad un braccio e scuotendolo. Né il pianto disperato della vittima, né i tentativi dei presenti sono riusciti a liberarlo. A risolvere la situazione, in maniera decisamente drastica, è intervenuto il signor Greene. Ha estratto la sua Beretta e, con estrema calma e sangue freddo, ha sparato alla testa dell'animale. Il bambino ha riportato ferite non gravi al braccio destro, è stato trasportato sotto shock subito a Careggi. L'uomo è stato fermato successivamente dai carabinieri, avvisati da uno dei presenti, e portato in centrale per accertamenti.

Rimasi di sasso. Una voce dietro di me mi fece trasalire.
- Ehi! Se non compri nulla vattene!
Era il barista. A simili sgarbi c'ero abituato, ma qualcosa era cambiato in me. In quei mesi avevo riacquistato un po' del rispetto di me stesso; anche se nullatenente, non ero più il barbone di prima, disposto a farsi mettere i piedi in testa dal primo venuto. Lanciai uno sguardo cattivo all'uomo, quindi lo mandai a quel paese e me ne andai.
Ma dove andare? Chiaramente Michael non aveva potuto avvertirmi, non avevo il cellulare e tanto meno un telefono fisso. Potevo andarlo a trovare, ma dove lo avevano portato? In quale centrale dei carabinieri? Pensai che comunque a quell'ora lo avevano rimandato a casa dopo aver pagato la cauzione, cosa che sicuramente qualcuno aveva fatto per lui anche se lo conoscevo come un uomo solo. Certo qualche collega avvocato o qualche amico.
Tornai alla villa. Suonai. Una voce familiare mi chiese al citofono chi fossi. Risposi ed entrai non appena il cancello si aprì.

- Pare che alla fine non ci andremo a Roma - mi disse Michael versando il tè - O almeno non così presto.
Si sedette sulla sua poltrona di stoffa rossa, sorseggiando dalla tazzina come un lord inglese, del tutto calmo. Era trascorsa una settimana da quella maledetta domenica in cui dovevamo lasciare Firenze.
- Già. - Risposi - Il processo sarà lungo immagino.
- Sciocchezze - rispose - in fondo sparare a un cane non è come sparare ad un essere umano, non ancora almeno. Inoltre ho salvato la vita ad un bambino, il giudice ne terrà conto. Piuttosto, pare che questo incidente abbia avuto una certa reazione tra gli animalisti e i non animalisti. Sono arrivate centinaia di lettere e mail a La Nazione e agli altri quotidiani che hanno parlato della cosa: ancora non so se sono più le minacce alla mia persona o le attestazioni di stima.
La "cosa" a cui si riferiva era valsa al mio amico gli appellativi di "serial killer dei cani" e di "cacciatore"; in poche parole le nostre cacce erano state scoperte, anche se il "merito" se lo era preso tutto Michael, lasciandomi fuori. Gli ero immensamente grato. Ancora non ho capito bene com'è venuta fuori la storia; pare che i poliziotti corrotti avessero chiesto un'altra mazzetta per tacere, Michael si sarebbe rifiutato e quindi la bolla sarebbe scoppiata. I giornali hanno taciuto su questo punto e questa è l'unica versione che conosco, udita dallo stesso Michael.
Alla prima udienza del processo si era difeso da solo, pronunciando una storica arringa che aveva fatto infuriare tutti gli animalisti presenti dentro e fuori dell'aula. I giornalisti avevano indagato e portato alla luce il passato del mio amico. Pare che un tempo fosse stato sposato e che avesse un figlio. La moglie lo aveva lasciato poco tempo dopo la morte del bambino, all'età di otto anni, sbranato dal mastino del vicino nella cittadina del Maine dove vivevano. Cominciavo a comprendere l'odio feroce che Michael nutriva verso i cani e cosa doveva aver provato sparando a quel cane che minacciava il bambino.

Devo dire che per una volta la giustizia italiana seguì bene il suo corso: il mio amico non si fece neanche un giorno di galera, il reato cadde in prescrizione e alla fine è tornato negli Stati Uniti. Ha poi pubblicato un libro che è diventato un best seller in poco tempo: "Perché la mucca sì e il cane no?". Quanto a me, ho ripreso la vita di strada, per scelta. Da una parte avevo paura che star troppo vicino al mio amico, che pure mi aveva invitato come ospite a tempo indeterminato a casa sua, avrei corso dei rischi. Temo che prima o poi qualche pazzo lo faccia fuori, magari facendolo saltare in aria insieme alla sua villa e ai suoi occupanti. Scherzi a parte, in fondo mi sono ormai affezionato al mio stile di vita e non lo cambierei per cambiare addirittura continente. In fondo in Italia non muoiono di fame neanche i barboni. Lo so, sono pazzo.
Mi mancano quelle notti a giro per le periferie e la campagna, a caccia. A volte ci ripenso con nostalgia. Mi sentivo giovane, vivo! Di buono c'è comunque che le strade sono un po' più pulite e non si incontrano più cani randagi a Firenze. Siamo riusciti a sterminarli tutti.
Di lui ho un unico ricordo: una copia del suo libro in italiano, trovata per un evento fortuito nello scaffale del libero scambio del circolo di Quinto Alto. Nell'introduzione c'è un paragrafo che ho sottolineato:

…l'ipocrisia di animalisti e cacciatori, nonché di chiunque mangi carne bovina o carne bianca, proveniente da animali quali vitelli, conigli, polli, galline, ecc. e storce il naso davanti ad uno spezzatino di cane, e pretende che sia così anche per gli altri. In Cina è logico mangiare cani, perché no? Anche in paesi "civili" quali l'Italia era una pratica abbastanza diffusa in tempi di penuria, quando si era meno schizzinosi. Io ho ucciso e mangiato bestie aggressive e potenzialmente pericolose per l'uomo; non ho nulla di cui vergognarmi davanti a chi fa il sugo con una innocua e pacifica lepre o mangia salsicce di maiali che non hanno mai aggredito un essere umano e poi tratta il cane di casa meglio di quanto tratti il suo vicino umano o l'extracomunitario a cui nega quei pochi spiccioli con cui nutre il "suo" animale. Solo in Italia si spendono 3,5 miliardi di euro all'anno per mantenere animali del tutto improduttivi come cani e gatti; e se utilizzassimo questi soldi per la ricerca scientifica? O per alleviare la vita dei senzatetto?

Inutile precisare che quest'ultima frase è la mia preferita.

 
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