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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Il cacciatore di
Riccardo Lupo, Il
brutto sogno della contessa Carafa di
Giuseppe C. Budetta,
Un lungo 5 maggio nel cuore della vita di
Salvatore Gurrado
Poesia italiana
Recensioni
In questo numero:
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai,
recensione di Lorenzo Spurio
- "La metafora del giardino in letteratura" di
Lorenzo Spurio e Massimo Acciai
- "Graffio d'Alba" di Lenio Vallati, nota di
Massimo Acciai
- "Cassa integrazione guadagni… la mia è
straordinaria" di Antonio Capolongo
- "Le avventure di Luchi e Striche" di
Francesco Vico
- "Qualcosa che non c'è" di Maria Gioia Spano,
recensione di Emanuela Ferrari
- "Il troppo" di Giuseppe Rensi, recensione di
Emanuela Ferrari
- "L'invasione degli storni" di Roberto Mosi
Articoli
Interviste
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L'ultimo canto Malt Laurids
Brigge
Vorremmo avere il tempo di un
topo,
i giorni stabiliti senza il pensiero:
che ci illude e mai ci svela il vero,
di quello che passa, del prima e del dopo
pallidi e bianchi, incolore, sottili,
fuliggine pallida dal cielo di Dio,
nella somma degli anni, in quegli aprili
bianchi, incolore, ma bianchi,
slavati e pallidi, né uomini o santi.
Saremo dal sonno seppelliti,
un luccichio di placide colombe,
nelle sigillate pareti dell'ecatombe
perduti nel sonno e avviliti
uniche salvezze possibili
potendo più affidarci alle costellazioni,
ad ogni scia del cielo come aquiloni
feriti tra le cose non più riferibili:
sarà feroce il distacco, assai lento
dai ricordi dalla sacra consistenza
dell'umana vestigia e della scienza
come un'ombra che si dirada nel vento.
Non avremmo modo di parlarci,
in quel mondo scomodo dei progetti
discutere perché come insetti
ripiegati sulle ossa potremmo mai svegliarci?
Ogni vita e con lei tutto sparirà;
ombre di spettri mal creduti.
Un teatro di miti mai vissuti
come l'eco di un amore che non si saprà...
la leggenda, l'erranza, il soffio, la trama,
la dura inevitabile arrampicata sugli specchi
sfiniti e marci d'autunno cadenti stecchi
d'alberi cui ogni resurrezione è lontana.
Lasceremo gli amici, i Compagni di strada?
Non assaliremo più le diligenze?
Giuro, le tante che ho cercato coincidenze
di assalire in rampanti assalti senza spada?
Sarà una morte sublime come il suo volto,
assorto e di profilo che si scopre al mattino,
e avrà il sapore di un amore bambino
che non si è mai raccontato molto.
Le lettere a Milano un colpo al cuore,
effimere memorie di un uomo dalle mani grandi
potente come un dio, e senza santi
esule di patria,perduto d'amore.
E si placherà ogni respiro, ogni avventura
nel sonno remoto di una donna nuda,
nel silenzio assordante della cruda
rumorosa e tacita lotta di una brutta disavventura.
Di un sesso immaginato sommariamente
come letto sulle acque che per pudore
il volto suo annegano per pietà e per amore
nella affollata e dolce trama della mente.
Euridice incantata nel giardino
cui l'universo offre l'incanto del mistero
troverà tra la cenere il suo cimitero
di un uomo recluso a restare bambino.
Poiché a vent'anni ci si cerca anche in piedi,
accostandosi l'un l'altro anche contro una porta,
cercando di afferrare la vita e con lei ogni sorta
di allusione pianta quando ti siedi.
Cercando piano, dolce ma piano di entrare
nel corpo evangelico dell'altro così dannato
sorpresi dai fanali sinistri nell'inventato
teatro cui è facile giocare, ingannare
se stessi come il vero e il falso,
cui s'appende ai drappi ogni menzogna,
tutte le cose a cui si è mentito, la carogna
di un applauso clamoroso e grasso.
E confonderemo l'alba per la sera,
i nostri vent'anni senza cifra alcuna,
al termine di una notte senza luna.
Senza più estati, inverni e primavera.
Ogni rumore, ogni gemito, ogni voce,
appunto, saremo solo creature,
cui vana sarà l'ombra delle paure,
il muro d'ogni timore nell'ombroso legno,
del sacro legno che della vita è il segno
l'ultima bagnata ombra della croce.
Ritratto democratico
Iuri Lombardi
Vecchi sozzoni dal culo mencio
appassiti fiori dimenticati
dall'abbacchio a ciondoloni e lercio
siate voi da me sempre dannati!
Falsi profeti, untori di peste e gogna,
dalle pance piene al fiorir di gotta
voi, portatori di razzismo e vergogna
siete l'insulto dell'infelice lotta;
che più non s'addice a nessuna vita
al fluire dei giorni come uno sputo,
amaro segreto oramai saputo
che la merda vi togliete con le dita;
abbiate pietà, liberate le poltrone
oramai prodi di potere e d'egoismo,
nonché carogne di vile eroismo
lasciateci almeno l'acqua ed il sapone,
in questo caldo e crudele aprile
di versi mai sentiti per l'estrema unzione,
per noi senza patria né educazione
potete accomodarvi nel porcile!
Per questo accorato e democratico
coro di spaventati e tristi cavalieri
così degno d'additar il socratico
ambito apogeo di oggi e di ieri,
arcigno ma pur sempre sorridente,
figlio di strade, taverne e di balere,
dolce cupido di mille sere
dagli occhi belli ed il cuor saccente,
lasciateci al fuoco sacro dell'amato,
al nostro petto già caldo nei mattini,
di noi funesti e giovani di-vini,
per l'eterno cristo addormentato!
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