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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Ominidi di
Giuseppe C. Budetta,
La libertà di Aisha di Tiziano Consani,
Lo zio Ted di
Emanuele Locatelli, Il
tempo smarrito: memorie di un'ottuagenaria
di Salvina Pizzuoli,
L'Ascensione a Colle di Dunia Sardi
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Manuela
Léa Orita
Recensioni
In questo numero:
- "La nevicata e altri racconti" di Massimo
Acciai, recensione di Monica Fantaci
- "Sempre ad est" di Massimo Acciai,
recensioni di Liliana Ugolini e Monica Fantaci
- "Un fiorentino a Sappada" di Massimo Acciai,
nota di Sandra Carresi
- "La metafora del giardino in letteratura" di
Lorenzo Spurio e Massimo Acciai, recensione di
Anna Maria Balzano
- "La cucina arancione" di Lorenzo Spurio
- "Flyte & Tallis: Ritorno a Brideshead ed
Espiazione, una analisi ravvicinata di due
grandi romanzi della letteratura inglese" di
Lorenzo Spurio, recensione di Emanuela Ferrari
- "Grecità marginale e suggestioni
etico/giuridiche: i Presocratici." di Ivan
Pozzoni
- "La Poesia di Vasco Rossi. Una
interpretazione" di Antonio Malerba, nota di
Massimo Acciai
- "Infezione" di Sunshine Faggio, nota di
Massimo Acciai
- "Carillon ballerina and the brave tin
soldier" di Caterina Pomini, nota di Massimo
Acciai
- "Amore latitante" di Fiorella Carcereri,
nota di Massimo Acciai
- "Concerto" di Roberto Mosi
- "Non ci sono foto ma qualcosa è rimasto" di
Matilde Vittoria Laricchia
- "Vibrazioni cromatiche: dalla favola alla
realtà" di Anna Maria Folchini Stabile e
Annamaria Stroppiana Calzini
- "Fortuna, il buco delle vite" di Jolanda
Buccella, recensione di Isabella da Pozzuoli
- "Gloria" di Tiziano Cosani, nota di Massimo
Acciai
- ''L'abisso è alle porte'' di Beda,
recensione di Novella Torregiani
- "Alle fonti del Clitumno" di Ulrich von
Wilamowitz-Moellendorff, recensione di
Emanuela Ferrari
- "Interni" di Annalisa Soddu
- "Imago" di Antonella Troisi
- "Io sono soltanto un granello di sabbia" di
Anna Scarpetta
- "Raccolta di aforismi" di Emilio Rega,
prefazione a cura di Lorenzo Spurio
- "Ian McEwan: sesso e perverzione" dI Lorenzo
Spurio
Interviste
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Il tempo smarrito: memorie di
un'ottuagenaria
Il tempo dentro di me, il
tempo che non si vede
e ci impasta
Mercè Rodoreda La piazza del Diamante
Oggi è il mio compleanno, compio ottant'anni.
Il fastello degli anni, no, non mi angustia; sono
traguardi segnalati da una convenzione; dentro mi
hanno appena sfiorata. Sono sempre io, mi riconosco.
Ora che c'è più passato che futuro nella mia storia,
lo inseguo, lo ripercorro, lo riassaporo, mi fermo a
ripassare la mia vita; ma non sono in grado di
ripercorrerlo tutto; questo è il mio cruccio.
Sfugge al controllo una lunga parentesi della quale
mi restano inspiegabilmente pochi episodi;
riemergono con impazienza e stento a riconoscerli
come miei, quasi fossero invecchiati precocemente,
prima di me.
La mente ritorna sempre più spesso a quel tempo
smarrito nelle pieghe della memoria, ma così
palpabile; mi turba, con i pochi frammenti rimasti.
Perché?
Il futuro è ormai troppo breve, vicino alle
conclusioni e incerto oppure i pezzi mancanti sono
davvero così rilevanti?
Non so rispondere; ho vissuto buona parte della mia
vita senza averne conservato un ricordo completo;
sono riuscita a trattenerne pochi brandelli,
sfilacciati e strappati in più punti.
Sono spaventata e affascinata da questo tempo
smarrito; preferirei impegnarmi a trascorrere
intensamente l'ultimo lasso della storia che mi
appartiene più che immaginarne il finale o
rimpiangere o rammaricarmi delle stagioni perdute
dal ricordo.
Il richiamo del passato è forte e deciso; sento una
strana ansia, forse paura, di non riuscire a mettere
a fuoco neppure i pochi episodi che la mia mente ha
conservato; nessuno può illuminare gli spazi bui di
questa ricerca, ma vorrei dare ordine ai pezzi che
si presentano senza una precisa scansione temporale;
posso provare a ricucirli senza pretese; capire
perché riemergono quando meno me lo aspetto e perché
mi angustiano tanto.
C'è stato il tempo di vivere e dimenticare e c'è il
tempo di rivivere; quale preferire e assecondare? Il
dolore o la felicità sono gli stessi, la
frustrazione e l'impotenza insopportabili.
La grande casa
Della prima infanzia ho come tutti solo una piccola
scorta di episodi, non sempre congruenti ed
identici. La memoria me li riporta sconnessi e mi ci
perdo dentro confondendoli tra le immagini di
vecchie foto o tra brani di conversazione che mi
pare di ricordare, tra gesti o sguardi di adulti,
sfuggiti e carpiti; ma forse ricordi veri non sono,
sono solo fotogrammi che la mia mente ha ottenuto
cucendo ritagli di vissuto con i racconti di mia
madre, non sempre disponibile a rinverdire il
passato, o con le sue scarne risposte alle domande
che insistentemente le rivolgevo.
So con certezza di essere nata il 21 ottobre del
1929, di lunedì che, come ripeteva sempre mia madre,
era una giornata fortunata perché al paese era
giorno di fiera. Nei suoi racconti, snocciolati alla
buona dietro mia insistenza, il parto assumeva i
contorni di una favola lieta: tra una doglia e
l'altra mangiava le mandorle sgusciate che teneva in
tasca, incurante dell'affaccendarsi delle altre
donne, quelle esperte di parti, quelle che avevano
già partorito tanti figli. Nacqui nella grande casa.
Non ero particolarmente graziosa né bella, ricordava
mia madre, anzi, insisteva che per la mia magrezza
aveva in un primo momento avuto l'impressione di
aver partorito un coniglio, di quelli scuoiati che
lei vedeva spesso penzolare inerti nella zona
adibita al macello. Avevo anche una grande bocca che
le donne curarono prontamente con delicati, ma
costanti sfregamenti di spicchi di limone, quelli
nostrani e abbondanti nel giardino del nonno e
naturalmente astringenti, come tutti ben sapevano
già allora.
Poteva bastare essere nati in un giorno di fiera per
sfatare il momento storico? In realtà nel mondo
qualche giorno dopo sarebbe crollata la borsa di
Wall Street, gli italiani vivevano ormai in pieno e
conclamato regime fascista e la Sicilia esportava
già mafiosi sulle navi dirette in America mentre il
sicilianismo si poneva a baluardo dell'immobilismo
storico dell'isola e la collusione tra potere
politico e mafia continuava, indisturbato; questo
solo per accennare ad alcuni tra gli avvenimenti che
sembravano non deporre, come al contrario sosteneva
mia madre, a favore di una nascita fortunata. Ma ero
troppo piccola per capire e troppo indaffarata
immagino a prendere le distanze in quel nuovo mondo
in cui mi muovevo come una cieca.
Dei primi dieci anni di vita conservo
prevalentemente ricordi di importazione, a me
sembrano tali, ma in realtà sono sostenuti dalle
immagini che i racconti di mia madre hanno
contribuito a ricostruire. Altri, pochi, spiccano e
sono così vividi che mi pare di esserci.
Una bimbetta con il volto paffuto e due grandi occhi
castani, ritrosi e perduti ad indagare il mondo
fuori con guardinga apprensione, quasi a prevenire
una qualsivoglia richiesta sgradita. Il mio mondo
era la grande casa, gli animali da cortile, quelli
domestici, gli uomini e le donne che mi
circondavano, i piccoli con i quali giocavo. Il
pergolato, i campi coltivati a grano, l'orto, i
recinti per gli animali erano il mondo intorno alla
grande casa dove mi sentivo protetta.
La grande casa stagliata sul fianco della collina,
con la sua struttura rettangolare, massiccia, con la
facciata di pietre e i muretti che delimitano e
sostengono la grande terrazza che la circonda da due
lati. I ricordi sono enfatici; la terrazza è
fantasmagoria di colori, profumi e frutti: il
pergolato le fa da tetto, ora gravido di grappoli
neri, ora di foglie rugginose, ora di nodose e
scarne ramosità; il profumo sensuale ed intenso
dalla siepe di gelsomino vi si mescola e si confonde
con quello più acuto dei fiori di zagara.
Ci si arriva percorrendo una stradicciola bianca,
segnata dalle ruote dei carretti e racchiusa tra i
muretti a secco che delimitano i campi. Dal muro sul
lato destro della strada, per un cancello di legno,
si accede ad un ampio giardino distinto in due dal
viottolo che dal cancello conduce alla terrazza e
alle stanze del piano terreno. Nel giardino o per
meglio dire il frutteto, melograni, meli, susini,
mentre un grosso gelso occupa buona parte del
margine più a sinistra. Lungo il muro i fichi
d'india con le loro pale spinose, carichi di frutti
che solo il nonno può cogliere, con la sua canna
speciale, quella che termina con una V. La sua
maestria è notevole, con un solo colpo sa staccare
il frutto dalla pala e sistemarlo nel grande cesto
in cui li raccoglie. Gli alberi da frutto sono gioia
golosa per noi ragazzi; quando sono carichi
diventiamo solidali e veloci come furetti, li
strappiamo a piene mani, forse perché frutti
proibiti; il nonno infatti ci sgrida e punisce
pesantemente, ma il richiamo è troppo forte e ci fa
superare ogni paura.
Addossata sul margine sinistro, quasi sotto il
maestoso gelso, corre la struttura di legno che
accoglie il pollaio. A sinistra l'aia, di fronte la
stalla e accanto i locali per il macello; solo i
grandi, per volere del nonno, hanno accesso a quella
parte. I piccoli sono dissuasi con racconti
terribili di maiali che mangiano neonati incustoditi
o rincorrono i bambini; durante la macellazione
degli animali da cortile e in inverno del maiale, i
piccoli sono allontanati. Ho sempre apprezzato da
adulta questo divieto del nonno che rivelava una
particolare sensibilità nei confronti dei più
giovani; forse un ricordo di bambino lo aveva
condotto a questa decisione. Rammento infatti con
strazio i lamenti protratti del maiale mentre veniva
ucciso, suoni che mi giungevano lontani, ma chiari e
distinti; riempivano l'aria e lasciavano tutti muti.
Una grande vasca e una panca di muratura contornano
il quadrato davanti alla stalla. A sinistra il
locale con il forno a legna in cui la nonna e le
donne della grande casa fanno il pane. Quella del
pane, dei biscotti, i famosi firringozza della
nonna, e delle schiacce farcite è uno dei ricordi
più vividi ed indelebili nella mia memoria di
bambina.
La giornata dedicata a questa importante attività
era cerimonia specialissima. Iniziava nel buio, nel
buio terminava. Io volevo sempre assistere a tutto
il processo, dalla preparazione del forno, a quella
dell'impasto fino all'infornata e quindi alla
cottura.
La preparazione del forno è lunga e faticosa: si
introducono le fascine che vengono sistemate
all'interno della bocca in modo che non soffochino
la fiamma, ma, alla giusta distanza, prendano via
via fuoco e ardano in modo da far arroventare bene
la cavità. Avvicinarsi alla bocca in quei momenti
significa essere afferrati dal calore che il fuoco
ha sviluppato, sentirsi avvampare, ma occorre
resistere per capire se l'opera di riscaldamento è
corretta.
Il caldo è soffocante nella stanza del forno; le
donne sono affaticate e affumicate; insieme al pane
non mancano i biscotti e le bambole di pasta, molto
simili alle altre, quelle di pezza: una stoffa
doppia arrotolata su se stessa e quindi rigirata a
chiudere e fermare il rotolo informe, ma
l'immaginazione lo trasforma in lunghi capelli, in
mantelli caldi e avvolgenti; a quelle di pasta la
nonna disegna gli occhi e la bocca, ma entrambe sono
molto rudimentali nelle loro fragili strutture; i
pezzi delle bambole di pasta però sono buoni da
mangiare, soprattutto ancora caldi.
Il tavolo per impastare bianco di farina, in alcuni
punti solo spruzzato, in altri completamente
ricoperto; mani veloci che piegano l'impasto
gravandolo con il peso del palmo accompagnandolo con
la flessione della spalla e del gomito; i volti
accaldati, le mani impastate, i grembiuli bianchi di
bianco; lo sguardo affettuoso della piccola donna
energica e amorosa che è mia nonna; le pagnottelle
piccole, tonde, ben incise al centro.
La nonna confezionava un solo tipo di pane, quello
che posso definire comune; non aggiungeva nulla
all'impasto di base, eppure il sapore era notevole,
la fetta robusta e morbida allo stesso tempo, la
crosta compatta e, sebbene non croccante, gradevole
nella sua consistenza. Nessuno la batteva nelle
schiacciate rustiche, quelle ripiene di verdura. Il
suo capolavoro era certamente quella con l'interno
di patate e cipolle rosolate insieme. Capolavori
anche di estetica: tonde, con un riccetto che la
nonna confeziona alternando veloce il pollice e
l'indice sul bordo esterno della schiacciata, in
modo da sigillare i due dischi di pasta sovrapposti.
Nelle narici ancora quel profumo e in bocca il
sapore di quel pane, dei biscotti, più uova che
farina, e delle schiacce farcite; sapori inseguiti,
mai dimenticati e mai più ritrovati.
A destra, rispetto ai locali del forno, i locali
dell'abitazione vera e propria cui si accedeva da
varie parti oltre che dal frutteto: un vero e
proprio labirinto del quale occorreva conoscere bene
tutti gli accessi e le vie di fuga per non perdersi;
comunque la casa era tutta aperta verso l'esterno
con il suo unico piano; i piani superiori
accoglievano infatti terrazze coperte e ampi solai
di legno per l'essiccazione dei prodotti e grandi
stanze per il deposito delle granaglie ad uso
domestico.
Grandi tavole ricolme di pomodori a seccare al sole,
frutta e carrubbe, dolci e tenere da sgranocchiare e
succhiare. Il primo ed unico piano è una sequela di
stanze una dentro l'altra e di seguito all'altra
senza corridoi divisori o con spazi organizzati e
separati. Il locale più ampio è la grande stanza
dove la famiglia si riunisce la sera per il pasto
collettivo; adiacente la cucina, con il fornello a
carbone da una parte ed un largo camino dall'altra.
Sulle travi del soffitto tante leccornie appese in
attesa delle feste o di ospiti per essere consumate;
soprattutto le provole, pendono per la parte
stretta, a funcia; a me piace particolarmente perché
più saporita; me ne tocca sempre un pezzetto quando
viene avviata. Tutto intorno alla cucina e alla
grande stanza si inseguono le camere, una dopo
l'altra; si va a dormire presto e d'inverno per
scaldare il letto si sistema u parrinu, la strana
struttura a campana che sostiene lo scaldino.
D'estate ci si sposta fuori, sotto il pergolato,
nella terrazza grande che si apre davanti alla porta
principale.
È lì che il cielo per la prima volta da bambina mi è
venuto incontro con il suo bel manto nerazzurro
pieno di punti luminosissimi e una luna gigante,
biancolatte. Non era possibile non guardare il cielo
non solo perché occupava una buona porzione del
paesaggio davanti a noi, ma anche perché era lui che
ci guardava con il suo terso e intenso chiarore
soprattutto quando la luna, bianca presenza delle
notti d'estate, illuminava, spegneva, camuffava
tratti di firmamento e accanto e sotto di lei, la
sua malia non permetteva di pensare ad altro.
Dalla cucina si accede al pozzo, al lavatoio, alla
latrina o per meglio dire al buco che un coperchio
come un tappo chiude, ma occorre uscire all'esterno;
la copertura di questi locali non è in muratura, ma
di legno e d'inverno ci fa un gran freddo. Nei
recipienti l'acqua gela e bisogna spaccarla prima di
lavarsi il viso e le mani; ci vuole grande coraggio.
Adiacente è l'orto con le erbe per profumare,
condire, curare; la salvia che la nonna raccomanda
sempre di strusciare sui denti e sulle gengive,
l'alloro e la menta per lenire il mal di pancia, le
mandorle e il loro latticello che la nonna ottiene
pestandole sgusciate e mondate in un pestello di
colore dorato e altri alberi da frutta. Il grande
ciliegio sul quale mi arrampico e dal quale sono
caduta varie volte sbucciandomi e rischiando
notevoli ammaccature. Non è bello come il gelso
dentro il quale puoi quasi nasconderti, ma è alto e
si domina tutto l'orto. Avevo paura nell'orto, forse
per i divieti del nonno o per i racconti che i
grandi si divertivano a fare per spaventare i
piccini. Dopo la guerra lo associavo alle corse
verso il rifugio, il basso pertugio nel quale dovevo
infilarmi prima che la grotta si aprisse in una
volta più ampia.
Non allontanarsi troppo dalla casa era dovuto ad una
mia naturale inclinazione alla casalinghitudine che,
anche dopo, avrebbe costituito una mia precipua
caratteristica, ma soprattutto obbedivo ciecamente a
precise richieste sottolineate da racconti
raccapriccianti di lupi mannari e uomini cattivi che
gli adulti non mi lesinavano. Crescevo in quella
parte orientale dell'isola che aveva conosciuto un
notevole sviluppo agricolo e che era all'avanguardia
per le tecniche di produzione e di coltivazione e
dove, negli anni immediatamente precedenti, la
nascita di un fascismo rurale aveva dato vita a
manifestazioni squadriste ed a scontri con i gruppi
di opposta convinzione politica. L'affermazione del
fascismo in quest'area si legava anche ai contrasti,
acuiti dopo la prima guerra, tra la grande massa dei
braccianti e la piccola proprietà terriera che aveva
risposto alle richieste con aggressioni e violenze
vive ancora nelle menti e negli animi di chi ne
aveva magari sentito solo parlare; le paure vissute
si intrecciavano con i racconti dei massacri
compiuti nelle campagne sempre negli anni intorno al
1920 dalle forze dell'ordine per reprimere i
movimenti contadini e la richiesta di terre; troppi
morti a Catania, a Gela, a Comiso, a Ragusa.
Ammazzati o costretti a dimettersi o confinati gli
amministratori socialisti dei comuni limitrofi in
seguito agli atti di violenza delle squadre
fasciste. Ma ancora più vicini erano i
rastrellamenti di Gangi, paese madonita, contro i
clan mafiosi ad opera del prefetto Mori, ma alla
gente pacifica facevano comunque paura: i mafiosi
veri se la cavavano, i pesci piccoli cascavano nella
rete e i proprietari terrieri si liberavano di
gabellotti troppo sfrontati, e non cambiava nulla.
Restava la paura, stratificata, profonda; quella che
non necessariamente nasce dall'essere direttamente
coinvolti in un'esperienza mafiosa; come una
malattia endemica, basta un niente perché esploda in
tutta la sua virulenza: è questa paura che ogni
siciliano si portava e si porta ancora dentro.
Latifondo e mafia; i mali della Sicilia; piaghe nate
dalla dissoluzione della grande proprietà feudale e
dalla mancanza di una precisa autorità che definisse
i nuovi diritti di proprietà: la mafia, feroce forza
intermedia tra il proprietario e il contadino,
garantiva con i gabellotti e i campieri manovalanza
a basso costo e l'asservimento dei contadini al
proprietario che comunque doveva sottostare al
ricatto della malavita. Questa forza garantista di
un equilibrio imposto, era stata l'unica in grado di
gestire il vuoto di potere che poi con la prima
guerra si sarebbe riaperto e ancora una volta
perpetuato. Lo stesso Mussolini si era appoggiato
alla mafia per trionfare in Sicilia alle
amministrative del '25, anche se successivamente
sembrò volersi liberare di quelle collaborazioni
illegali, anche perché aveva ormai il pieno favore
dei grandi proprietari terrieri, grazie alle nuove
norme che non li limitavano e nell'elevare i canoni
d'affitto e nel liberarsi dei mezzadri; la mafia non
aveva quindi più motivo di esistere e poteva essere
combattuta sul campo; era arrivato così l'uomo di
ferro che avrebbe dovuto debellare il male alle
radici: il prefetto Mori. Ma quando la sua opera si
volse contro i pezzi da novanta, quelli che
appartenevano non solo alle classi sociali più
elevate, ma che svolgevano i loro traffici sotto
coperture legali, il prefetto fu sgradito e presto
esautorato. Intanto, durante la grande paura, i
grossi mafiosi si erano iscritti al partito fascista
o erano emigrati in America da dove loro o i loro
figli sarebbero tornati in appoggio alle truppe di
liberazione.
Il latifondo e la fame di terra dei contadini
siciliani non sono stati gli unici mali senza
soluzione, ad essi si sono accompagnate le
conseguenze delle esperienze che nel tempo e da
tempo la gente pacifica aveva subito; ricordo la
frase di Cattaneo che studiando in seguito il
fenomeno mi avrebbe colpita e convinta, perché
affermava che dar la terra senza i capitali
necessari a farla rendere era come dare le bottiglie
e non il vino per riempirle. Mancanza quindi di
infrastrutture e non solo; un altro male contro il
quale occorreva combattere era soprattutto la
diffidenza. Don Sturzo aveva indicato chiaramente
nella mancanza di spirito di associazione e di
solidarietà e nella sfiducia totale, insieme alla
paura costante di essere ingannati e sopraffatti, le
difficoltà del mondo contadino: occorreva
emanciparsi dalla figura del gabellotto,
l'intermediario che subaffittava piccoli
appezzamenti dal latifondo che fomentava la
diffidenza e la paura. Tutti tentativi vani sin
dalla creazione delle affittanze collettive e dalla
nascita delle casse rurali alla fine dell'Ottocento,
se ancora nel 1940, la legge Tassinari, cercava di
modificare i vecchi rapporti e se ancora nel 1941,
Lucio Tasca, il futuro sindaco di Palermo dopo lo
sbarco alleato, gradito agli ambienti mafiosi e
separatisti, poteva permettersi di scrivere l'Elogio
del latifondo siciliano, dove dimostrava i vantaggi
dell'economia latifondista per il clima e la
struttura morfologica siciliana e dove gabellotti e
campieri erano figure efficaci della classe media e
non figure che nel latifondo regnavano indisturbate
alle spalle dei contadini ed anche dei padroni.
Il potere malato, una piaga che non sarebbe mai
stata risolta in modo indolore perché la mafia aveva
compreso che le masse più povere e senza una
coscienza politica erano manovrabili e ricattabili
non solo come lavoratori, ma anche come elettori.
Ma io tutto questo non lo sapevo e non avrei
comunque potuto capirlo; l'ho studiato da grande,
inseguendo un desiderio, all'inizio incompreso, di
riacciuffare quelle radici che i fatti futuri
avrebbero sradicato definitivamente, ma soprattutto
per cercare di capire alcune drastiche decisioni
prese da mio padre; da bambina sentivo solo
l'apprensione degli adulti nelle frasi che forse non
erano rivolte solo a me, ma erano forme esorcistiche
contro quella paura stratificata che si portavano
addosso. Morti ammazzati, persecuzioni, movimenti
moralizzatori ed epurativi nei confronti di quella
manovalanza troppo collusa con la criminalità non
erano serviti a nulla, non era mutato nulla.
La vita nella grande casa sembrava risentire senza
grossi scossoni dei movimenti che dal continente
erano calati in Sicilia e dove cercavano di prendere
il controllo della vita politica; il nonno, il
nostro capo famiglia, era un piccolo proprietario
che gestiva le proprietà direttamente insieme con
gli altri membri della famiglia, allargata alle
nuore, i generi e i nipoti. Era fascista, mi
raccontava la mamma, fanatico di Mussolini più che
del PNF e dei suoi principi. Mi sono chiesta a lungo
e varie volte perché il nonno lo fosse diventato e
da grande me ne sono vergognata. Come nipote
conservo di lui l'immagine di un signore alto,
elegante, con grandi occhi chiari, ereditati solo da
Giovanni e dai suoi figli quasi un passaporto per il
nord dove si sarebbero stabiliti; era cordiale e
conviviale, padrone e signore, figlio di una nobiltà
decaduta e impoverita per debiti e per cattiva
conduzione delle sostanze, ma conservata nei modi e
nel comportamento. Era forse questo il riscatto che
credeva di ottenere con l'appartenenza al fascio?
Riconquistare un ruolo che la sua famiglia aveva
perso? Dopo i rossori della giovinezza avevo smesso
di pormi questa domanda e mi consolavo confrontando
la sua scelta con quella di altri, anche scrittori
di spessore, Vittorini, Pirandello, Brancati,
siciliani che avevano aderito il fascismo. È anche
vero che in Sicilia il movimento fascista assumeva
delle caratteristiche che posso definire sue
proprie, almeno per quanto riguarda quello della
prima ora. Troppe connotazioni vi erano confluite,
da quella nazionalista, più accreditata in Sicilia
del fascismo medesimo, a quella
patriottico-risorgimentale e non per ultima quella
di riscatto delle masse lavoratrici e quindi di
lotta strenua alla mafia. Ma è anche vero, come ebbe
a scrivere Sciascia, che la Sicilia era già fascista
in quanto era già mafiosa e perché la mafia, come il
fascismo, era appunto anche altre cose. Anche il
padre di mio padre era fascista. Non era un
proprietario, ma un ferroviere. Nelle trasferte
saliva spesso al paese e veniva in campagna a
trovare il nonno; allora le candele restavano a
lungo accese nella notte a rischiarare tremolanti i
loro interminabili e caldi confronti politici mentre
scaldavano il corpo con sorsate generose del vino
forte che il nonno produceva dalle sue vigne per uso
familiare. Ma lo scorrere delle stagioni nella
grande casa così ben scandite da tutte le operazioni
che la terra richiedeva per dare i suoi frutti,
ovattava con il costante succedersi gli echi del
mondo; la famiglia era infatti concentrata a lottare
contro le imprevedibili risposte della natura ai
tentativi di piegarla ai desideri degli umani, a far
quadrare i conti oberati da sempre nuove gabelle, a
convivere con la vita quotidiana. Ma io ignoravo
buona parte di questi travagli che a volte intuivo
nelle tensioni familiari; ero felice tra tutti
quegli umani che mi vivevano accanto e che
rappresentavano ciascuno a suo modo tanti mio padre
e tante mia madre, in un ruolo indistinto dove era
evidente la preponderanza di quello maschile
comunque affiancato dal fondamentale apporto
femminile nella conduzione della casa di tutti. Il
primo grande scossone nella mia felice esistenza
arrivò per me improvviso e inaspettato; il mondo
esterno era entrato prepotentemente nella vita della
grande casa. Avevo sentito parlare di guerra, dagli
adulti, dai giochi dei piccoli, avevo visto armi,
fucili soprattutto, ma era un fenomeno lontano e
incompreso. Sparare, morire. Ma la mia mente
rifiutava la sequenza anche se l'avevo vista con i
miei occhi e preferivo immaginare che poi ci si
rialzasse e si ricominciasse da capo. Nel 1935 una
guerra lontana aveva scosso le fondamenta su cui
poggiava per me la famiglia della grande casa. Era
inverno, lo ricordo perché faceva freddo e
minacciava neve. Ma forse non era questo il motivo
per cui quell'episodio è stampato nella mia memoria
di bambina. La nonna è inginocchiata accanto al
lettone, la testa china, le mani rovistano in una
vecchia cassetta che sporge appena tra le assi di
legno su cui si appoggiano i materassi; il nonno è
accanto a lei in piedi; la sua posizione mi sfugge,
è innaturale; è leggermente inclinata in avanti con
il braccio destro che termina con qualcosa che
sfiora la testa della nonna. Non mi vedono, sono
intenti ciascuno al proprio compito. La nonna
intanto sta infilando lentamente e senza parole
dentro una calza di lana degli oggetti che vedo per
la prima volta: due anelli, un braccialetto, una
collana, due orecchini. Li guarda attentamente prima
di infilarli nella calza, quasi un ultimo sguardo,
un addio. Sento a distanza la tensione e il suo
dolore; sembra non volersi separare da quegli
oggetti; sono sicuramente cari ricordi. Passa la
calza appesantita al nonno che la prende con la mano
libera e quindi a gesti della stessa mano la esorta
ad alzarsi. Nessuna parola tra i due. Solo ora vedo
chiaramente che il nonno stringe una pistola nella
mano destra; era l'oggetto con cui sfiorava la testa
della nonna. Devo allontanarmi; non devono vedermi.
Trovo la forza di muovermi; le gambe sono pesanti e
gli occhi guardano e sfuggono la scena nella paura
di essere vista. Non mi è chiaro nulla di quello che
sta succedendo, avverto solo animalescamente che c'
è un pericolo che la nonna ha corso e che anch'io
sto correndo. Tintu, malu cristianu; parole amare
salgono alla mia bocca; si strozzano in gola insieme
alle lacrime che non vogliono uscire dagli occhi. Il
nonno era dunque un cattivo. Voleva quegli oggetti
cui la nonna teneva, e ad ogni costo. Ero abituata a
saperlo severo, ma non era la stessa cosa: trovavo
giusta la sua durezza e le punizioni che infliggeva
ai piccoli se non rispettavano le regole, ma sapeva
essere anche dolce, paziente e giocherellone. Non
assomigliava proprio a quello che mi faceva
cavalluccio sulle ginocchia: canta una strana
filastrocca di latte e formaggio, e mi sorride
rassicurante ad ogni sussulto delle sue forti gambe;
caracollo e rido felice. Non era lo stesso che dopo
la pioggia mi portava a cercare le lumache, il mio
piatto preferito: mi guida sapientemente e
amorosamente durante la loro ricerca, illumina con
la lanterna gli spazi bui; mi ripara sotto la manta
parapioggia; sa quanto mi piacciono le lumache che
la nonna cucina così bene dopo averle fatte
spurgare. E i piccoli curiosoni, hanno ancora una
volta lasciato sboccato il coperchio del grosso
tegame che le tiene prigioniere per tutta una notte
prima di essere cucinate; al mattino la sorpresa tra
sconforto e ilarità: le lumache si sono disperse per
tutta la cucina e anche sui muri; riacchiapparle non
è stato facile, ma sicuramente divertente e quella
ghiottoneria ha soddisfatto più palati.
Non sono più riuscita a mangiare le lumache lontano
dalla Sicilia.
Pochi giorni dopo gli stessi oggetti, riposti in una
scatola, erano pronti per essere consegnati durante
la cerimonia che si sarebbe svolta in paese. Tutte
le donne erano state chiamate a sostenere lo sforzo
della patria a fronteggiare le sanzioni in cui il
regime era incorso con l'attacco all'Etiopia. La
nonna non aveva risposto volontariamente all'appello
del Duce, anzi, era molto contrariata, come ebbe a
dirmi mia madre interrogata da me su quell'avvenimento
a lungo taciuto; seppi poi che era comunque riuscita
a nascondere gli ori più belli o comunque per lei
più importanti e conservarli per noi; gliene avrebbe
fatto dono poi, come ricordo, alla nostra definitiva
partenza.
Se quello fu un avvenimento traumatico, la guerra lo
fu di più. Da noi ne arrivò in un primo momento solo
l'eco, ma lo stravolgimento che produsse nella
grande casa fu sconvolgente. I maschi giovani
partirono tutti, anche mio padre. E fui orfana
immediatamente di tutte le mie figure paterne. Poi
arrivarono i lavori pesanti per le donne, i loro
dolori nel non ricevere notizie o nel riceverne di
cattive e luttuose, i bombardamenti e le corse verso
il rifugio per evitare le incursioni preavvisate
dagli ormai chiari segnali degli animali domestici.
Maruzza si mette prima le zampe sulle orecchie e
dopo comincia a guaiolare appiattendosi per terra
quasi a volersi rendere invisibile. Le galline si
ritirano come se fosse notte e smettono per giorni
di fare le uova. Nitriti e belati, scalpiccii di
zoccoli, furie per liberarsi dai lacci. Corse verso
il rifugio, là, in fondo all'orto attraversato in
fretta saltando i cespugli; battiti nelle tempie,
aria fredda nelle narici, dolore alla gola.
In quel periodo non ricordo di aver patito la fame o
di avere memoria di pasti poveri anche se Vittorio,
il più piccolo, reclamava il pane bianco e piangeva
e inveiva contro la guerra che lo costringeva a
mangiare pani tintu , il pane nero per lui tanto
cattivo. I ricordi di scuola si mescolano con il
suono delle sirene degli allarmi, con il lungo
grembiule nero e i colletti bianchi, abbagliante
ricordo delle compagne di classe senza testa e senza
un volto. Frequentavo la scuola media come mio padre
aveva voluto perché poi mi diplomassi; non voleva
che facessi come lui che, a causa di una bocciatura,
aveva dovuto rinunciare al diploma, ad un anno dalla
conclusione. Suo padre infatti lo aveva punito
mandandolo a lavorare perchè i scecchi a
travagghiari . Mi ripeteva che anche se fossi stata
bocciata lui mi avrebbe costretta a prendere
comunque il diploma. Ma ricordo che ero ritenuta
brava anche se non ne ho una memoria dettagliata; mi
piaceva la storia e leggere. Forse è per questo che
i fatti sono spesso confusi e combinati con scene
irreali o che mi appaiono tali nella memoria
nebulosa e imprecisa. Leggevo forse per fuggire da
quell'incubo che ero costretta a vivere a partire
dal 1942 e per tutto il 1943, per la guerra e per la
vicinanza all'aeroporto militare di Comiso,
importante base dell'Asse. Ricordo perfettamente il
sibilo e poi l'assordante frastuono delle bombe
nell'impatto con il terreno e poi il fumo e la
polvere e l'odore che riempivano l'aria anche per
giorni.
Ma poi arrivarono gli alleati sulle loro camionette.
Le feste e le acclamazioni serpeggiavano festose e
riscaldavano il cuore nell'euforia generale che
dimenticava le distruzioni, le sofferenze e la
morte, per un attimo. La vita continuava nel grido
che i compaesani rivolgevano ormai abitualmente al
passaggio di ciascuna camionetta, lo ricordo come
fosse ora, tanto ancora vive nelle mie orecchie lo
stimp stamp buattaim, incredibili parole senza senso
o solo suoni improbabili, un ritornello incongruo
che gesti inequivocabili accompagnano; le mani
insieme mimano la forma di una scatola rotonda; le
dita congiunte della mano destra si muovono poi
verso la bocca aperta mentre la voce ripete suoni
insignificanti di una lingua sconosciuta ma che
acquistano significato nel gesto.
Cioccolata e buatte concesse generosamente dai
soldati accompagnate con un sorriso; trattenuta tra
i denti spicca morbida e appiccicosa la gomma che
masticavano continuamente; tutto è ancora impresso
nelle immagini della mia memoria di adolescente.
In realtà ero ormai abbastanza grande per ricordare,
ma la mia facoltà di ricordare era come quella di un
bambino piccolo. Vivevo, ma era come non esserci;
continuo era lo scollegamento tra il corpo e la
mente. Anche lo sbocciare della mia sessualità era
passato completamente senza lasciare traccia se non
quella evidente di emorragie intermittenti. Il
terrore, lo sgomento, il dolore avevano sostituito
la dolcezza, la serenità nel mio mondo; nella grande
casa niente era più come prima. Ma non avevo ancora
subito il colpo ferale che mi avrebbe segnata, senza
esserne cosciente, per buona parte della mia
esistenza. Anche se la guerra era finita nella
grande casa niente era più come prima. Alcuni degli
uomini partiti non erano ancora tornati perché
prigionieri o dispersi; altri non avrebbero più
fatto ritorno. Altri sebbene fossero tornati, come
mio padre, erano cambiati non solo nel fisico. Era
magro e non parlava volentieri né di guerra né
d'altro. Lavorava svogliatamente, ma nessuno doveva
disturbarlo quando ascoltava i notiziari alla radio
di cui aveva montato personalmente l'antenna come
aveva imparato a fare, diceva, durante la guerra.
Cosa lo interessava lo avrei capito solo molto tempo
dopo.
Dopo lo sbarco e l'amministrazione militare alleata
la Sicilia affrontava ancora una volta il triste
problema della mafia che si avviava a prendere
direttamente il potere politico-amministrativo
dell'isola. Queste cose io le compresi molto dopo;
al tempo mi sfuggivano i malumori di mio padre che
oltre ad essere diventato durante la guerra un
convinto antifascista, sempre che fascista lo fosse
mai stato, ma non lo diceva, era sgomentato da
quanto si stava apparecchiando per il tempo futuro.
Penso proprio che fosse stata questa la ragione dei
suoi silenzi e che proprio in quel periodo stesse
facendosi strada la volontà di abbandonare la sua
terra. Con lo sbarco una nuova pagina di morti,
lotte sociali e guerre civili si abbattè sulla
Sicilia. Il controllo amministrativo e militare sul
territorio era esercitato dalle due potenze
occupanti, ognuna nella rispettiva zona di
competenza: agli inglesi la Sicilia orientale, agli
americani la parte occidentale dell'isola. Il
quartier generale dell'amgot, sigla con la quale era
designato il centro di comando dell'esercito
alleato, fu stabilito dapprima a Siracusa e poi a
Palermo. Gli ufficiali ebbero il compito di
sostituire i podestà e gli altri funzionari locali
con nuovi sindaci e collaboratori, scelti tra le
personalità più in vista: i servizi segreti alleati
fornirono una lista di nomi degli uomini più
importanti della Sicilia, nella maggior parte
aristocratici. Non sempre gli ufficiali si
rivelarono attenti e all'altezza del compito loro
affidato tanto che alcuni di loro subirono influenze
negative nella scelta degli amministratori; così
accadde che in alcuni comuni sostituirono i podestà
con i mafiosi locali perché fuorviati dalle
informazioni della popolazione o dai suggerimenti di
certi gregari della mafia, interpreti o uomini di
fiducia del governo militare. Avvenne insomma quello
che la mafia aveva da sempre sperato: molti mafiosi
divennero sindaci e la mafia passò ad amministrare
direttamente, come mai prima, più della metà dei
comuni siciliani; come Calogero Vizzini, Don Calò,
un pezzo da novantanove, capo supremo della mafia
siciliana per trentatre anni. Era stato allontanato
dalla Sicilia dal prefetto Mori, ma divenne sindaco
di Villalba per volere proprio dell'amgot.
Ciò diede nuova e solida autorità ai mafiosi; la
mafia contribuì quindi alla nascita del Movimento
Indipendentista Siciliano, il Mis, composto non solo
da malavitosi, anche se la componente era molto
importante. Il Movimento avrebbe avuto un peso
politico non indifferente e organizzò persino un suo
esercito, l'Evis, l'Esercito volontario di
indipendenza siciliana, nel quale militarono banditi
e mafiosi di grosso calibro e con a capo Salvatore
Giuliano. E ancora morti ammazzati, rivolte, fatti
eclatanti, come quello che ebbe come protagonista
una donna, Maria Occhipinti, che aveva capeggiato la
rivolta nel gennaio del '45; con un gesto
rivoluzionario, si sdraiò davanti al camion con i
nuovi richiamati alle armi, femmina e incinta,
guidando la sommossa partita dal quartiere a Russia
di Ragusa, il quartiere dei rossi dove la Occhipinti
era nata. Basta guerra e basta fame; tutti erano
insorti e molti giovani per sfuggire ai
rastrellamenti si erano nascosti nelle campagne. Tra
il 1944-e il 45 la richiesta agli agricoltori di
ulteriori 25 kg di grano e la chiamata alle armi dei
giovani del 1922, ma anche del '23 e '24 avevano
esasperato la popolazione ormai disperata e
affamata.
E i soldati sparano, ammazzano, feriscono. E poi,
dopo giorni di scontri, tutto si quieta, la rivolta
è sedata, ma molti ragusani vengono incarcerati o
abbandonano la città. La Occhipinti arrestata. E in
Sicilia non cambia nulla, mentre la versione
ufficiale leggerà gli avvenimenti come rigurgito
fascista e tentativo separatista. Nemmeno con la
morte dello stesso Giuliano e anni dopo del suo
sicario, Gaspare Pisciotta. Ma di questa morte mio
padre avrebbe avuto notizia nel continente, lontano
dalla sua terra. Io invece, allora indaffarata a
seguire i miei nuovi percorsi per impossessarmi
della storia e della vita di una città che non mi
apparteneva, lessi della morte di Giuliano
nell'articolo di Tommaso Besozzi comparso
sull'Europeo pochi giorni dopo, con il quale il
giornalista smantellava la versione ufficiale della
morte del bandito, e mi confermava la corretta
lettura che mio padre aveva subito dato
dell'avvenimento: normalmente restio a fornire la
sua opinione o a parlare di politica in famiglia, da
subito non dette credito alla versione che su tutti
i notiziari veniva sbandierata come il risultato di
una trappola tesa dalle forze dell'ordine; ricordo
benissimo la faccia torva con la quale ascoltava il
notiziario; ebbe subito a dire, quasi parlando a se
stesso, che quella era una faccenda di mafia.
Probabilmente in tutta la Sicilia la versione
ufficiale non fece mai convinto nessuno. Chi vive di
mafia, sa riconoscere le sue azioni.
Il caso Giuliano, che studiai anni dopo anche
attraverso gli articoli di Besozzi , dimostrava come
la mafia gestisse il suo potere sulle terre: quando
nel secondo dopoguerra le terre furono occupate e si
cominciò ancora a parlare di riforma agraria, né i
baroni, né i membri delle cooperative sorte sulle
terre occupate erano disposti a pagare la protezione
della malavita. Fu allora che la mafia giocò la
carta degli uomini della montagna, i banditi, quelli
che dovevano ripristinare il dominio della paura,
protetti dall'organizzazione. In seguito fu sempre
Don Calogero Vizzini, il pezzo da novantanove e
sindaco di Villalba, a decidere la fine di Giuliano,
quando la ricerca del bandito aveva richiamato
troppe forze dell'ordine che ostacolavano le imprese
criminose. Povera Sicilia, povera terra angariata e
martoriata e povere le sua creature terrorizzate e
costrette a subire; sarebbe mai stato possibile
liberarsi del giogo mafioso espressione del potere
malato? Era questa la domanda che mio padre
probabilmente si poneva e la cui risposta negativa
lo aveva poi spinto a muoversi diversamente.
In quell'inverno del '45 i due nonni fascisti, ormai
nostalgici, poi increduli e sgomenti di fronte
all'incalzare delle notizie che si susseguivano
sulla fine di Mussolini, avevano invece ripreso i
loro antichi incontri e trascorrevano le notti a
ricordare il tempo che fu, ma soprattutto a
rimpiangere Lui, che forse non era morto, ma era
fuggito, salvato forse dagli stessi americani e che
forse presto sarebbe ritornato.
Dopo la mia partenza per il continente non avrei più
rivisto né l'uno né l'altro.
Partire
Partire significa non tornare mai più.
A me giovanetta quell'esperienza avrebbe lasciato,
sepolta nel mio intimo, questa convinzione e
nient'altro, se non scampoli di vita vissuta in quel
traumatico abbandono degli affetti, dei cieli, del
sole, del calore e dei colori della terra che mi
aveva vista nascere e poi partire per sempre all'età
di 17 anni compiuti; un'adulta con la memoria
bambina. Anche questo tempo mi sfugge, ma sento
stringente l'angustia che accompagna gli spezzoni
che testimoniano tangibilmente gli avvenimenti. Lo
strazio dei saluti, gli ultimi, definitivi; gli
abbracci e le lacrime; i silenzi nel cuore. Il
trasferimento dalla grande casa alla stazione,
quella delle linee sicule, bombardata e ancora
notevolmente danneggiata; il viaggio senza luogo e
senza tempo, ma pieno di odori acri nelle narici,
stanchezza e sonni irrequieti; i nostri pochi
bagagli; mia madre bella con i capelli morbidi sulle
spalle fermati in alto in due bande separate e i
suoi grossi occhiali a nascondere gli occhi piccoli
ma vivacissimi, il volto animato dall'imminente
avventura. Mio padre appesantito dalle due grosse
valigie che le cammina accanto con passo sicuro, lo
sguardo limpido proiettato in avanti; da pochi mesi
vivevamo in una Repubblica e il futuro gli sembrava
più libero e felice, soprattutto lontano dalla
Sicilia. Il mare e lo stretto da attraversare sulla
nave traghetto, la Messina, l'unica superstite delle
ammiraglie del periodo anteguerra, l'Aspromonte, la
Scilla e la Reggio, affondate per evitarne
l'utilizzo al nemico, sempre stracarica e che per
questo si era meritata, in quegli anni subito dopo
il 1944, il suggestivo soprannome di iaddinaru. E
poi, lungo la ferrovia Ionica, l'unica funzionante,
il nostro lungo cammino nel continente, verso la
Toscana, verso Firenze. Odori, cieli, colori via via
sempre più sbiaditi, lingue diverse, macerie e
distruzioni identiche, ma ancora maggiori e ancora
evidenti. La prima sosta, la più lunga, qualche
giorno per riposare, a Gioia del Colle, presso
parenti alla lontana, ma felici di accogliere altri
esuli, altri che come loro hanno abbandonato la
terra delle origini, in cerca di fortuna perché cu
nesce arrinesce era questo il motto di
incoraggiamento che non nascondeva in quel nesce il
dolore per l'uscita e l'abbandono, ma anche l'attesa
della riuscita nell'avvenire più prossimo, quasi uno
scotto da pagare, ma per il quale valesse la pena.
Di Gioia del Colle, dove restammo cinque giorni, non
ricordo nulla; resta invece legata a questa località
la mia prima esperienza con la mozzarella,
precisamente la treccia. Alle cinque di quei
pomeriggi c'era un appuntamento che ricordo con
precisione: un grande stanzone con due grossi
recipienti dal contenuto denso e biancastro. Ai
bordi dei recipienti, un uomo sbracciato infila
completamente il braccio nella massa densa
rimestandolo con forza, almeno tale pare la
difficoltà nel compiere l'operazione. Ne estrae
quindi la parte più solida; con velocità e maestria
l'arrotola, con il braccio ormai fuori dal
contenitore, mentre con l'altro la recide ottenendo
pasta di mozzarella intrecciata, di varia lunghezza
e spessore. La treccia gocciola latte e ancora calda
viene sistemata dal mozzarellaio nelle scodelle che
abbiamo portato da casa. I ragazzi, i miei lontani
cugini, la addentano; gocciole di latte scendono
lungo le loro dita che stringono la pasta morbida,
calda e sugosa; mi invitano a fare altrettanto, ma
un groppo ed un peso acuto mi impedisce di far
passare dalla bocca allo stomaco anche il più
piccolo boccone; annuso con diffidenza la massa
biancastra che giace nella mia scodella e scuoto la
testa; mi canzonano e mi punzecchiano; non mi voglio
sporcare? Non so usare le mani? Non posso e non
voglio rispondere; sorrido imbarazzata e aspetto di
tornare a casa. Di quella bontà sopraffina avrei
sentito parlare in seguito, ma io non ne ho mai
conosciuto il sapore.
I parenti che ci ospitavano insistettero perché
restassimo a Gioia; nodo stradale e ferroviario, con
un campo di aviazione importante, avrebbe
sicuramente offerto opportunità di lavoro a mio
padre e a mia madre. Così ci invogliavano i nostri
lontani parenti; mio padre restava comunque
irremovibile. In parte seguiva indicazioni
fornitegli da suo padre che in tempi lontani era
stato a Pisa con tutta la famiglia. Il nonno
conservava ancora una vecchia foto di mio padre,
allora bambino, con la madre in piazza dei Miracoli,
e soprattutto il ricordo di un periodo felice della
sua vita che associava alla cittadina toscana e dove
era sicuro che anche mio padre avrebbe trovato una
sistemazione. Non so di preciso quali strani disegni
perseguisse mio padre allora, ma so per certo che
non era Pisa la sua destinazione, bensì Firenze.
Firenze non è solo una bella città per la sua
geografia dalle forme morbide e dolcemente ondulate,
per il fiume che l'attraversa fondendo gli elementi
dell'acqua e della pietra, è una esposizione d'arte
permanente in piena armonia con il paesaggio
naturale che l' accoglie. Io so con certezza che ne
rimasi folgorata nonostante allora fosse ancora
pesantemente ferita e mutilata dalle incursioni
aeree, con le piaghe ancora aperte e visibili in
quei buchi al posto delle macerie e in quei palazzi
e torri spettrali in mezzo ai crolli tra gli spazi
vuoti. La bellezza è una buona medicina. Firenze non
riuscì a guarirmi, ma il suo fascino riuscì a
conquistarmi al punto che concentrò la mia
attenzione in un'opera di ricostruzione libraria di
quanto era andato distrutto con le bombe tedesche
nei quartieri trecenteschi intorno al Ponte Vecchio.
La storia da studiare a scuola diventa meno
interessante della storia della città che ho
cominciato ad amare. Mi chiudo in Biblioteca
Nazionale a consultare libri e vecchie foto che mi
restituiscano integra l'immagine della Firenze prima
dei bombardamenti e prima delle mine tedesche. La
scuola occupa un posto di secondo piano; mi crea
problemi di inserimento, di rapporti con i coetanei
e con gli adulti, scrupoli nei confronti di mio
padre, nei confronti di me stessa che mi confronto
per la prima volta con difficoltà scolastiche.
Essere bocciata è forse quello che voglio, per
riuscire ad integrarmi un po' prima di impegnarmi
nuovamente nello studio. Sono assorbita
completamente dal conoscere capillarmente il centro
storico della città non solo visitandola, ma
soprattutto studiandola dai libri di storia e di
storia dell'arte. Le mine tedesche dell'agosto del
'44 avevano fatto saltare tutti i ponti ad
esclusione di Ponte Vecchio che fu comunque bloccato
negli accessi dalle distruzioni delle due aree di
qua e di là d'Arno; sulla sponda destra del fiume le
distruzioni furono ingenti. La ricostruzione delle
zone del centro storico fu oggetto di studio ma
anche di partecipazione popolare: due le posizioni
che, all'inizio del 1945, avevano trovato posto
nelle pagine dei primi due numeri della rivista Il
Ponte , nata appunto nell'aprile del '45; la prima
era del critico americano Bernard Berenson,
sostenitore della ricostruzione in base al criterio
com'era, dov'era, cioè della riproduzione il più
possibile fedele all'originale degli edifici
distrutti; la seconda era quella di Ranuccio Bianchi
Bandinelli che riteneva il ritorno al passato come
atto retorico in quanto costruito su di un falso, un
falso antico, e proponeva pertanto interventi
innovativi. Io mi votai anima e corpo alla corrente
che ripristinava, che voleva riportare il più
integralmente possibile il prima. Ma com'era Firenze
prima, io non lo sapevo e questa ricerca assorbì
tutte le mie ansie e ricordi e angustie del mio
recente passato, proiettandomi verso un futuro che,
in quella lotta tra l'una o l'altra visione
ricostruttrice, sentivo più mio. In realtà a Firenze
la ricostruzione della zona di qua e di là d'Arno
intorno a Ponte Vecchio fu di compromesso tra
vecchio e nuovo; la Torre dei Rossi-Cerchi come
Giano presenta il lato verso il Ponte Vecchio nel
tradizionale filaretto in pietra a vista, ma
guardandola da via Guicciardini mostra invece
un'inconfondibile facciata anni '50; la torre dei
Rigaletti, già dei Gherardini, che si trova poco
dopo via Por Santa Maria, è invece prevalentemente
originale nei materiali e nella ricostruzione basata
su disegni e foto storiche. Ma queste antiche torri,
come quelle degli Amidei, danneggiata a metà senza
però crollare completamente, sono in mezzo agli
edifici degli anni della ricostruzione. La vecchia
Firenze trecentesca non era riuscita quindi a
rinascere, neppure falsamente antica. I fiorentini
di allora non apprezzarono memori non solo di come
era; probabilmente avrebbero condiviso l'opinione di
Giuseppe Impastato quando sosteneva che bisogna
proteggere il nostro paesaggio dallo scempio anche
perché nessuno avrebbe ricordato più com'era prima e
lo scempio sarebbe sembrato una normale bruttura.
Solo il Ponte a Santa Trinita può dirsi restituito
ai suoi antichi splendori, soprattutto dopo il
fortunato ritrovamento della testa della Primavera.
Ricordo ancora i manifesti che tappezzarono la città
per incentivarne la ricerca: promettevano 3000
dollari a chi fosse in grado di darne notizie valide
al ritrovamento. Già dal '44 si erano cercati i
pezzi del ponte in Arno, ma la testa della Primavera
in un primo momento non fu trovata. Leggende
metropolitane si diffusero sulla sorte toccata alla
bella testa della statua del Francavilla che dal
1608 ornava il ponte: i più la credevano perduta per
sempre, rubata si diceva da un soldato americano,
però un nero; altri credettero di averla ritrovata
nel Lazio; pochi avrebbero mai immaginato che la
custodisse ancora il letto dell'Arno in una fossa
maggiore delle altre, dove si era cercato, ma dove
le troppe macerie che ancora lo ingombravano ne
avevano impedito il ritrovamento. Solo nel 1961 la
testa fece casualmente la sua comparsa durante i
lavori di drenaggio del fiume che l'aveva saputa
custodire e preservare anche dalle sue rovinose
piene. La festa fu grande e il ponte magnifico, era
stato ricostruito secondo i canoni del com'era e
dov'era, recuperandone i pezzi in Arno e riscoprendo
le antiche cave di pietra a Boboli, la cava usata
quattro secoli prima. Partecipai a quella festa
collettiva, ma ormai ero un'altra donna.
A parte il coinvolgimento quasi totale nell'opera di
ricostruzione, il restante era occupato da
situazioni che ricordo poco distintamente, ma di cui
affiorano solo le sensazioni, senza immagini.
Ricordo la scuola, lo storico istituto magistrale
Capponi in piazza Frescobaldi, il mio disagio e le
mie fughe. Tutto in me era inadeguato alla nuova
geografia, a partire dal nome. Concetta detta in
famiglia Concettina; nella mia terra è un nome molto
diffuso, quasi inflazionato derivato dall'Immacolata
Concezione, ma in Toscana non trovava la stessa
collocazione. Decisi di farmi chiamare Tina, mi
suonava più agile e mi faceva sentire meno
straniera; il diminutivo si adattava infatti ad
essere collegato non solo a Concetta. Il colorito
olivastro, i tratti del volto marcati e irregolari,
quelli però non potevo camuffarli. Quella
dell'essere straniera è un sensazione che mi ha
accompagnata per lungo tempo. La lingua era stato il
primo baluardo da superare. Scoprivo che la lingua
non è fatta di parole, di cose che si dicono e che
si pensano, ma che nella lingua c'è un mondo, un
passato che si tramanda e che si vive e acquisisce
giorno per giorno nella geografia che ti accoglie e
nella storia che vivi; è radici. Lo stesso Dante
ebbe a dire, per rivalutare il volgare rispetto al
latino nel De vulgari eloquentia, che la lingua
migliore nella quale esprimersi è quella che si è
ascoltata dalla nascita. Mi scoprivo a farfugliare
un toscano imitato nella pronuncia e nelle
locuzioni, negli intercalari e nei modi di dire,
imparavo una nuova lingua è vero, ma solo come
espressione del mio malessere e del mio disagio. È
difficile non poter avere più una terra di
riferimento, perché la si deve cancellare anche dal
ricordo, tanto ti fa soffrire, è difficile
dimenticare la propria lingua e il proprio modo di
entrare in relazione con gli altri, soprattutto
perché quegli altri sono diversi nell'approccio, ma
è ancora più difficile rinnegare tutto questo
patrimonio e acquisire altro come proprio. Solo
dopo, più adulta ho recuperato, anzi ho voluto
recuperare le mie origini cercandole e spesso senza
riuscire più a trovarle; il lavoro di demolizione e
rimozione mi era perfettamente riuscito. I miei
genitori erano tutti assorbiti dalla conduzione
della famiglia, dal lavoro, dalle difficoltà di
trovare un alloggio stabile e non troppo oneroso;
non riuscivano a capire o forse a vedere le mie
difficoltà o forse, da adulti, sapevano farvi fronte
in modo diverso. Mio padre aveva trovato lavoro alle
Ferrovie, mentre mamma, raffinata ricamatrice,
lavorava anche per i Ricami fiorentini. Anche loro
avranno avuto le loro difficoltà ad inserirsi, ma
non si vedeva. Ricordo che mia madre, sebbene
lavorasse tanto e per un salario misero in
proporzione, era garrula e felice; la mattina usciva
di casa canticchiando un vecchio motivo della Pizzi
Tutto passa e si scorda un motivetto allegro nel
ritornello che mia madre intonava con voce
squillante tutto deve finir e le nubi nel cielo
dovranno sparir e tornava la sera annunciandosi con
lo stesso motivo, quasi non ci fosse stata soluzione
di continuità tra i due momenti. Più tardi mi sono
chiesta se quel gioioso ritornello non fosse altro
che un incoraggiamento che riprometteva a se stessa
tutte le mattine e tutte le sere; cosa doveva
scordare mia madre? Anche mio padre, sebbene
visibilmente stanco, era indaffarato in riunioni
serali che lo vedevano spesso tornare nel cuore
della notte e alzarsi comunque qualche ora dopo per
andare a lavorare. Partecipava sicuramente a
riunioni politiche alle quali non accennava
minimamente. Seppi solo con l'attentato a Togliatti
che si era iscritto al Partito Comunista Italiano.
Mia madre da ragazza si era specializzata nel
trapunto sia ovattato che a cordoncino o trapunto
fiorentino, una tecnica antichissima diffusa e nota
anche in Sicilia e nell'area mediterranea; è un
ricamo a rilievo, molto gradevole e decorativo.
Negli anni in cui lei lavorava a Firenze veniva
usato per colli e polsi di vestaglie di raso di
cotone o di seta, ma anche per impreziosire buste
portabiancheria e coperte. Conservo ancora la mia
coperta da culla; mia madre l'aveva ricamata negli
ultimi mesi di gravidanza. Ha motivi floreali e
fiocchi e uccelli; la trapunta è di colore azzurro,
non so se per scongiurare la nascita di una femmina
o perché a mia madre era particolarmente piaciuta la
tinta pastello di quella stoffa in rasatello di
cotone. Il ricamo a rilievo è delicato e il filo
utilizzato è di colore su colore. Era abbinata ad un
lenzuolino bianco il cui bordo riproponeva alcuni
dei motivi della piccola trapunta. Non sono una
feticista, ma mi ha sempre rammentato l'amore che
mia madre portava verso la creatura che teneva in
grembo. I ricordi di quel mio tempo perduto sono
così pochi che da sempre mi sono aggrappata anche
agli oggetti, quasi reperti a testimonianza di quel
lungo periodo. Il mio tempo dimenticato è una lunga
parentesi che si chiude solo nel 1951; da quel
momento è tutto stranamente ben chiaro; dall'ottobre
di quell'anno la mia memoria bambina ha come
conosciuto una crescita vertiginosa diventando
adulta e forte. Il prima si compone invece di
spezzoni più o meno lunghi e più o meno sicuri; ho
cercato di ricucirli, quasi maestra di rammendo,
colmando i buchi e aggiungendo a volte qualche
ricamo, per farli più belli e gradevoli.
Dal '48 al '51 ancora solo episodi occupano la mia
memoria: lo zio Giovanni che passa da Firenze
diretto a Milano, anche lui partiva ma da solo, al
momento, verso il Nord, successivamente vi avrebbe
portato la famiglia. Quell'incontro straziante mi
precipitò di nuovo nell'acuto dolore che mi premeva
il petto e di cui non avevo fatto menzione ad
alcuno. Era un dolore forte, soffocante; saliva
dalla bocca dello stomaco e si irraggiava poi al
centro, come un macigno che premesse lo sterno. Lo
zio non si fermò, ma i pochi minuti alla stazione
bastarono ad aprire vecchie ferite. Ci abbracciamo
mescolando le nostre lacrime, le nostre parole,
lingue antiche e nuove si mescolano senza criterio.
Sorrisi rassicuranti tentano di smorzare palpiti di
gioia e vecchi dolori. Mani allacciate, racconti.
Bene, stanno tutti bene, ma. Parole terribili
raccontano fatti che non voglio sentire.
Languore, senso di vertigine, stretta dolorosa alla
bocca dello stomaco, apnea.
La grande casa sarà venduta insieme alle terre; il
nonno e la nonna trasferiti in paese; la grande casa
probabilmente abbattuta per far posto ad una grande
via di comunicazione. Il mio mondo sta crollando da
lontano; non so salvarlo mentre sta per scomparire
definitivamente. Percepisco la mia fragilità mentre
cedo, mi spezzo e frantumo.
Per giorni, non so di preciso quanti, mi muovo
imbambolata, non posso parlare e ingoiare nulla.
Nessuno ci bada; mio padre e mia madre sono
anch'essi taciturni e disappetenti.
Oltre alla visita dello zio, di quegli anni solo
altri due avvenimenti occupano abbastanza spazio,
non come ricordo tangibile di fatti, volti, persone,
ma come sensazione di quel che provavo: il mio
diploma e la morte di mio padre. Il mio diploma è
stato l'ultimo ed il più bel regalo che abbia fatto
a mio padre prima che morisse. La scuola è un altro
dei miei momenti bui; conservo pochi e sfumati
ricordi della mia classe, delle compagne, degli
insegnanti. Molti volti si sovrappongono e
confondono tra fisionomie affini. Ho memoria del mio
banco alto e nero con il seggiolino reclinabile che
quando ti alzi devi accompagnare per non fare
rumore. Rivedo il piano inclinato e la scanalatura
dove appoggiare la penna e il buco vacante della
boccetta per l'inchiostro. Accanto a me intravedo
una grossa macchia nera, quella del lungo grembiule
della mia compagna di banco dallo strano cognome
riferito ad un ortaggio che ora non riesco bene ad
identificare. I terribili e sempre peggiori
risultati dei compiti di latino tra i quali il più
significativo era sottolineato da un 1--.La campana
liberatoria e il mio gironzolare per la città o
verso il ponte alla Vittoria il primo ad essere
ricostruito in poco più di un anno tra il '45 e il
'46 o verso ponte S. Niccolò, terminato nel '49 ad
una sola campata, ma che lasciò insoddisfatti molti
fiorentini.
Il vecchio ponte, costruito nel 1837, era opera di
ingegneri francesi esperti nella costruzione di
ponti metallici e si chiamava San Ferdinando; cambiò
nome alla fine del granducato e fu detto appunto a
San Niccolò. Non ebbe vita facile; abbattuto
dall'alluvione del 1844 fu ricostruito e poi minato
e distrutto nel 1944; era un bel ponte sospeso che
avevo visto ed ammirato nei dipinti ottocenteschi
che lo ritraevano e ne avevo colto le suggestioni:
si stagliava con la sua struttura aerea in uno dei
tanti tramonti sull'Arno, contornato da campanili e
torri e cupole della città antica chiusa ancora tra
le vecchie mura; i tramonti sul fiume molte volte mi
avrebbero stretto in un abbraccio di tenera e
struggente melanconia, anche in quell'opera di
cantieri aperti e di ricostruzione, nell'ora che
volge il disio.
Ricordo perfettamente i risultati finali di quell'anno
scolastico del 1948 la cui dicitura inequivocabile
mi indicava respinta. Il '49 lo ricordo meglio;
miglioravo anche perché mi sentivo meno sola. Ero
stata inserita in una nuova classe e lì avevo
trovato Pina, figlia di sfollati dalla campagna,
come tanti nel '46 verso la città. Qualcosa ci
accomunava, a partire dal nome; in realtà Giuseppa,
quindi Giuseppina e infine Pina non era dissimile
dal percorso seguito dal mio per approdare al
definitivo Tina. Non era la mia compagna di banco
eppure si era accorta di me ed aveva per me una
stima che stentavo a capire. Ramata, con due occhi
verdi grandi e ridenti, un'aria schietta e una bocca
sempre pronta al sorriso condiscendente e
disincantato di chi sa cogliere l'ironia anche nelle
avversità. Mi colpiva il suo spirito burlone e la
sua arguzia nel sorprendere in ciascuno debolezze
celate. Con lei riesco a guardare di nuovo avanti e
riesco ad intravedere ciò che prima non riuscivo
nemmeno a immaginare. Pina diventa la mia amica,
quella che non avevo mai avuto e che, come a poche
persone è dato di avere, sa starmi accanto e
sostenermi senza che io ne sia consapevole. La sua
fiducia è contagiosa e tutto mi pare più semplice.
Senza di lei non sarei riuscita forse a superare
l'improvvisa morte di mio padre.
In realtà io non l'ho mai superata.
Ancora oggi lo immagino in terre lontane a
perseguire i suoi ideali di giustizia e di riscatto
delle masse più umiliate; lì la sera a veglia
racconta di sé e della sua vita, fatta di rinunce e
di lotte, ma anche di soddisfazioni e vittorie.
Non l'ho visto uscire e non l'ho più visto tornare.
Quel feretro per me è un vuoto giaciglio, mio padre
è altrove.
Mia madre piange l'uomo, il compagno discreto, il
lavoratore, colui che era morto sul lavoro, in un
incidente, uno dei tanti.
Sognavano una vita diversa, speravano nella
rivoluzione vagheggiata e sentita imminente
soprattutto dopo l'attentato a Togliatti; tempesta
senza vento l'aveva definita mio padre in preda ad
un'amara considerazione in cui paragonava l'Italia
alla Sicilia; ora dovevano arrendersi di fronte ad
un imprevisto, a un incidente, ad una fatalità.
Si era arresa mia madre, a quarantadue anni, ancora
così giovane.
La mia mente o forse tutto il mio essere rifiuta un
viaggio più capillare in quel tempo. La memoria si
annebbia e mi pare di soffocare. Venti anni di una
vita occuperebbero poco più di venti pagine.
A che serve passare di giorni se non si
ricordano?
Cesare Pavese Dialoghi con Leucò
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