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Undici anni fa in Rwanda, come ricorda Amnesty International, un milione di morti in appena cento giorni.
Non si può non parlare di questo film. Non è neppure proponibile un commento puramente estetico.
Primo film sulla guerra civile e sui genocidi tra Hutu e Tutsi, Hotel Rwanda è una parte della storia di cui in occidente si è voluto sapere poco e tuttora si tende a tralasciare, compreso il processo istituito ad Arusha in Tanzania. Molte cose non sono state dette dai mezzi di informazione o non dette abbastanza. Per esempio: la divisione tra le due tribù fu un'invenzione dei belgi, come viene detto nel film. Il film inoltre ha fatto circolare altre notizie sul Rwanda dopo la sua uscita, come questa: il n.2 dell'esercito Hutu era un Tutsi, il n.2 dell'esercito Tutsi era un Hutu. Che senso aveva allora tutto l'odio razziale esploso in modo incontrollato? Qui non si emette una sentenza, si racconta la storia di un uomo, un hutu direttore di un albergo di lusso, sposato con una tutsi, con due figli, benestante, acculturato e al di sopra delle divisioni etniche. Paul Rusesabagina dirige a Kigali l'Hotel des milles collines, di proprietà Sabena, che si trasforma in un rifugio, una specie di oasi che, grazie al coraggio del suo direttore, salva la vita di 1.200 persone.
Un uomo che riesce a mantenere il senso di civiltà e di umanità mentre tutti intorno a lui lo hanno perso - amici, parenti, vicini, colleghi, dipendenti - in un crescendo di odio, violenza e paura. Facendo leva sui valori della società civile, sul contegno, sulla cultura, ancorché mescolata con quella occidentale, prende il meglio da sé stesso e dalla propria storia mentre sarebbe stato facile lasciarsi prendere dal panico e pensare soltanto alle proprie responsabilità nei riguardi della famiglia. Un uomo che è restato un uomo, mentre gli altri si trasformavano in qualcosa di più basso e non riconoscibile, compresi coloro che avevano un'istruzione, con la possibilità di avere la mente più aperta e vedute più ampie. Abbandonato da quell'occidente di cui si fidava - ONU compresa - intuisce che la sola possibilità di salvezza è attaccarsi il più possibile a quel ruolo, a quei valori, crederci così tanto da portare con sé anche gli altri, in definitiva rimanere se stesso. Come Rusesabagina ha dichiarato a chi lo chiamava eroe: "Io non lo sono, sono solo un direttore d'albergo che ha fatto il suo lavoro. E che si è comportato seguendo ciò in cui credeva".
Regista di impegno civile, già autore di "Nel nome del Padre", Terry George apre, per gli ignoranti in materia come me, una finestra sul genocidio hutu-tutsi, dramma troppo taciuto sinora. Apprezzabile che il film non mostri le violenze in tutta la loro crudezza, anzi le mostra ma episodicamente, lasciandole per lo più sullo sfondo come un'eco, concentrandosi sulla follia che entra dappertutto. Indimenticabile la scena in cui la tragedia si mostra a chi, pur essendo a un passo, l'aveva appena intuita: all'alba lungo il percorso del furgoncino dell'hotel, lentamente emergono dalla foschia mattutina migliaia di corpi, tutta la strada è coperta di morti.
Non aggiungo altro, se non che non ha ottenuto i riconoscimenti che forse, oltre che meritare, gli erano dovuti. Solo il premio del pubblico al festival di Toronto.
Con meno fortuna e fama, rievoca Sotto tiro, Urla del silenzio e altri film su guerre semidimenticate, altri film da vedere, difficili da digerire non solo perché altamente drammatici, ma perché contengono pezzi della storia umana talmente amari che restano a bruciare dentro lo stomaco per un bel po'.

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