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Libri a fumetti
Cinema
Interviste
Memorie preziose
Art Déco
di Maddalena Lonati
Fumetti in corso 10
- 11 - 12
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Recensioni
Recensione di
Ilaria Mainardi
Sweeney Todd
Banalmente si potrebbe dire: Burton si ama o si
odia. Ma è un giudizio banale appunto, certo è
invece che per apprezzare al meglio il cinema del
grande autore statunitense, trapiantato in Europa
per amore, è necessario un occhio vergine,
fanciullesco.
Sovraesposti a sollecitazioni visive ed uditive di
ogni genere, al turbinare esasperato di colori ed
immagini pubblicitarie che invitano all'acquisto di
quel prodotto o dell'altro (identici, ma non
televisivamente...), alla ridda di cinepanettoni,
cineombrelloni e quant'altro, ammetto che sia
complicato lasciarsi stupire da qualcosa che non ha
lo stupore o l'effettaccio come fine ultimo, come "conditio
sine qua non" per la sua esistenza.
Dal dolcissimo Edward, tanto fragile quanto
potenzialmente letali erano le sue lame, sono
passati quasi due decenni, eppure l'amarezza che
pervade i lavori di Tim Burton è sempre la stessa,
satura dell'ineluttabilità ironica di chi sa
guardare attraverso gli occhi dell'immaginazione
(penso a Chaplin, più che a Fellini).
Vent'anni però sono trascorsi trascinandosi dietro
la disillusione, la rabbia e la consapevolezza di un
gap (forse) insanabile.
E Sweeney Todd, già Benjiamin Barker, si trasforma
da vendicatore disperato a sanguinario psicopatico
(ma che fascino il male se passa attraverso il
talento straordinario di Johnny Depp!).
In una Londra vittoriana che sembra uscita dalle
pagine di Dickens (frutto del lavoro encomiabile
della premiata coppia Ferretti - Lo Schiavo), il
barbiere Barker vive sereno con moglie e figlioletta
in fasce fino a quando il corrotto giudice Turpin
(già Severus Piton di "Harry Potter") non lo
condanna ingiustamente a quindici anni di carcere
per usurpargli talamo ed affetti.
Il redivivo Todd, Figaro dark, ritornerà
dall'inferno ed affogherà la sua implacabile
vendetta in un bagno di sangue che non lo
risparmierà, vittima esso stesso della propria cieca
e furibonda rabbia.
La cecità della ragione (ricordate Ichabod Crane,
protagonista del bellissimo "Sleepy Hollow", che
indossava gli occhiali nel tentativo di indagare
razionalmente l'insondabile?) e una fantasia malata
incapace, da sola, di placare una promiscua
cupidigia di odio e amore, di gin e pasticci di
carne umana, sono il substrato della trama che si
snoda fra duetti canterini e massacri a colpi di
lama.
Inutile cercare precursori o eredi, non ce ne sono.
Burton è cresciuto e con lui il suo immaginario di
freaks schizofrenici.
"This is the end, my friend", eco di un'apocalisse
annunciata, potrebbe essere il leit motiv
dell'ultima, splendida, fatica burtoniana: nemesi
del musical classico, piuttosto una danza macabra
condita però da quell'immancabile, inafferrabile,
ironia che resta, probabilmente, l'unico barlume di
speranza in un mondo di dolore.
Menzione doverosa per il cast al completo, un plauso
particolare per Depp, alter ego di Burton: lontano
anni luce dall'istrionismo divertente di Jack
Sparrow, i suoi occhi si riempiono della struggente
malinconia del William Blake che fu. Ma con in mano
un rasoio ben affilato…
* * *
Recensioni di
Massimo Acciai
Le cronache di Narnia - Il principe Caspian
Regia di Andrew Adamson con Ben Barnes, William
Moseley, Anna Popplewell, Fantastico produzione USA,
Gran Bretagna, 2008. Durata 140 minuti circa.
Secondo capitolo della saga di Narnia, inaugurata
qualche anno fa con "Il leone, la strega e
l'armadio", che cavalca il successo dei molti
colossal fantasy usciti nell'ultimo decennio. Un
film discreto, spettacolare in molti luoghi,
inverosimile come ci si aspetta dal genere
(ragazzini guerrieri che si comportano come adulti,
battute un po' coatte, la solita immutabilità
attraverso secoli e millenni di un mondo dominato
dalla magia). Tanta avventura ad un ritmo frenetico,
con battaglie, duelli e frecce sibilanti. Un film
senza infamia e senza gloria.
Il cavaliere oscuro
Regia di Christopher Nolan con Christian Bale,
Heath Ledger, Gary Oldman, Azione produzione USA,
2008. Durata 152 minuti circa.
I film su Batman continuano a stupirmi, e non solo
per gli effetti speciali sempre più sorprendenti. A
differenza di altre saghe, in cui si ricerca una
coerenza a volte addirittura maniacale (l'universo
di Guerre Stellari e quello di Star Trek, per fare
due esempi), la storia dell'eroe mascherato da
pipistrello si dipana in un universo atemporale
(come tutti gli eroi dei fumetti d'altronde), in una
città immaginaria in cui è facile riconoscervi una
città reale - sappiamo bene quale - e, salvo certi
punti fermi (l'omicidio dei genitori di Bruce Wayne,
il suo stile di vita conflittuale), continuamente
nuova: in questo film ad esempio ci viene presentato
un Jocker ben diverso da quello del primo film di
Batman, con una genesi ed una storia del tutto
diversa (ma non era morto infatti in quel primo
film?), così come si racconta una genersi di Due
Facce inattesa e incongruente con quella del terzo o
quarto film. E Robin, che fine ha fatto?
Nell'incalzare delle scene d'azione, preponderanti,
notevoli sono i monologhi di Jocker sulla teoria del
Caos, forse il personaggio più psicologicamente
approfondito.
E venne il giorno
Un film di M. Night Shyamalan. Con Mark Wahlberg,
Zooey Deschanel, John Leguizamo, Betty Buckley,
Frank Collison, Ashlyn Sanchez, Spencer Breslin,
Robert Bailey Jr.. Genere Fantascienza, colore 91
minuti. - Produzione USA, India 2008. -
Distribuzione 20th Century Fox
Un film che non esalta e non delude, un po' horror
con atmosfere dei film di fantascienza anni '50, un
po' splatter ma senza grandi effetti speciali. Il
mistero c'è, all'inizio, ma la spiegazione arriva
troppo presto ed è banale (piacerebbe certo ad
un'ecologista l'idea che le piante avvelenino
l'uomo, spingendolo ad azioni suicide attraverso una
tossina portata dal vento). Una sola scena ironica
(il protagonista che parla ad una pianta
d'appartamento - peraltro finta - manifestando le
sue buone intenzioni) in un'atmosfera drammatica e
con tante (troppe) scene d'isterismo. L'America si
sente sempre minacciata da qualcosa (la prima
spiegazione, non a caso, riguarda i terroristi) e si
rivela incapace di fermare un disastro che poi, per
fortuna, si ferma da solo… salvo poi ripartire
proprio alla fine del film, in Francia. Certo,
l'umanità rappresenta davvero una minaccia per il
regno vegetale…
* * *
Recensioni di
Sonia Cincinelli
BACI E ABBRACCI
Baci e abbracci, quarto film diretto da Paolo Virzì
del 1999, qui una famiglia toscana, per riuscire a
salvare il bilancio di un allevamento di struzzi che
non sta dando gli esiti sperati, invita a cena per
la vigilia di Natale l'ultimo fidanzato della
sorella, assessore regionale dell'Ulivo e possibile
procacciatore di finanziamenti pubblici. Un equivoco
fa giungere nel casale di campagna, omaggiato e
onorato, un ristoratore in fallimento scambiato per
l'uomo politico. Tutti sono squattrinati disperati:
assediati dai debiti, dalle scadenze e dagli
arretrati, inseguiti dagli strozzini e dalle
bollette, respinti dalle banche, minacciati di
pignoramenti e fallimenti, senza riscaldamento,
senza vie d'uscita. Il tema di Baci e abbracci viene
affrontato con realismo e sarcastico divertimento,
senza accusare il finale di spirito accomodante,
infatti nella realtà, milioni di persone combattono
crudelmente coi soldi ma sopravvivono. I non-attori
sono scelti e diretti bene, mentre Francesco
Paolantoni della tv si rivela un ottimo interprete:
e le intonazioni dialettali livornesi risultano più
naturali che macchiettistiche. È melenso qualche
momento poetico preso in prestito da Scola o da
Tornatore: fiocca di notte una neve leggera e
magica, che ai ragazzi fa venire voglia di piangere
e d'abbracciarsi; appaiono nella bruma Giuseppe con
Maria e Gesù in groppa all'asinello, aureolati e
sperduti personaggi d'un presepe vivente; si
presentano sogni radiosi e lussuosi. Mentre nel film
molto riuscito scandito in capitoli (La Vigilia, Il
pranzo di Natale) è bellissimo il modo stralunato,
perplesso e severo con cui gli esotici struzzi
contemplano dall'alto il dibattersi dei loro
allevatori-killer.Film consigliato a tutti.
CATERINA VA IN CITTA'
Caterina va in città, del 2003 di Virzì ci racconta
di Caterina, tredicenne figlia di un professore di
filosofia fallito e di una casalinga repressa,
lascia la provincia con la famiglia e si trasferisce
a Roma. Qui, si inserisce con disinvoltura nella
vita cittadina, divisa fra l'amicizia con la figlia
di un sottosegretario fascistoide e quella con la
figlia di due "alternativi" di sinistra. Virzì,
torna con vigore al suo territorio prediletto,
quello della commedia a sfondo sociale e politico.
In questo caso la posizione è un po' sfumata, e meno
definita che in precedenza: al centro della vicenda,
infatti, non sono più la lotta di classe o le
amarezze della classe operia, ma la vacuità di
valori di una gioventù che non sa più a cosa
appigliarsi, dato che neppure i genitori offrono
certezze condivisibili. Amaro e cinico come solo i
maestri della commedia all'italiana sapevano in
passato essere, Virzì si candida ad essere il
cantore più credibile della crisi di una società che
si morde incessantemente la coda, oltre che un
ottimo direttore di attori. Fra i molteplici omaggi
che nel decennale furono rivolti a Fellini, questo
singolare film è forse il più significativo: pur non
rivelando niente di "felliniano" nello stile, che
semmai strizza l'occhio a Scola o a Monicelli.
Caterina va in città conferma che il cinema italiano
è forte d'ispirati miniaturisti della recitazione
come Sergio Castellitto e Margherita Buy; o come il
bravo Claudio Amendola. Tra le altre, segnaliamo le
amichevoli comparsate di Michele Placido, Maurizio
Costanzo e Roberto Benigni in versione girotondista.
Corti di Moira Tierney
REGIA Moira Tierney
PAESE Irlanda-USA
GENERE cortometraggi
DISTRIBUZIONE
ANNO 2000
Il Tekfestival 2008 presenta una selezione dei primi
lavori di Moira Tierney, filmmaker nata a Dublino e
residente a Brooklyn, New York. Da Tiger Me Bollix
(2000), ritratto di tre bambini irlandesi, ai
funamboli e acrobati cinesi di Circus (2003), i film
di Tierney trasmettono una sensibilità poetica che
accompagna gli spettatori a lungo dopo la visione.
La selezione include You Can't Keep a Good and The
Boys Are Back in Town (2000), Radio Haiti, Morzh (Walrus)
and American Dreams #1 & #2 (2001), American Dreams
#3: Life, Liberty & the Pursuit of Happiness (2002).
La regista si esprime in questi lavori usando dal
formato di pellicola super 16 fino al video
digitale, a volte crea suggestioni con immagini e
musica alla Geoffrey Reggio, a volte risulta essere
molto vicina alla video arte di Bill Viola e di
tanti artisti contemporanei, per un cinema
postmoderno ibridato, che fa un uso sapiente delle
sbavature tecniche che creano un'estetica
attualissima.
Moira Tierney, nata a Dublino, ha studiato
all'University College Dublin e all'Ecole Nationale
d'Arts de Cergy-Pontoise di Parigi. Nel 1998 ha
ricevuto una borsa di studio Fulbright per l'Anthology
Film Archives (New York). Nell'arco di un decennio,
lavorando con diversi formati, ha realizzato
cortometraggi sperimentali che vanno da ritratti
personali a riflessioni sociali e politiche. Il suo
lavoro è stato presentato in location e festival
internazionali tra cui Anthology Film Archives e
Rotterdam.
GOMORRA
Gomorra, ultimo film di Matteo Garrone che ha
trionfato a Cannes accaparrandosi il Gran Premio
della Giuria. Qui Totò ha tredici anni, aiuta la
madre a portare la spesa a domicilio nelle case del
vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che
girano in macchina invece che in motorino, che
contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi,
a Scampia, significa farli i morti, scambiare
l'adolescenza con una pistola. O magari, come accade
a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare
cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi
mettere paura, ma c'è sempre chi ne ha meno di te.
Impossibile fuggire, si sta da una parte o
dall'altra, e può accadere che la guerra immischi
anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo
porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan
s'è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, ma
non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto
controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto
redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei
rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di
lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore
degli altri. Funziona così, non c'è niente da fare.
Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra,
libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha
venduto oltre un milione di copie, aprendo il
sipario sulla luce artificiale e ustionante di una
lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole
non illumina più le province di Napoli e Caserta,
impossibile rischiarare questa terra buia e
straniera al punto che gli italiani hanno bisogno
dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro
paese: all'inferno. Un film freddo scarno,
probabilmente il regista si ispira alla suo primo
cortometraggio Terra di Mezzo, un po' nella
struttura e nelle modalità di linguaggio. Le due
scene più belle degne di diventare vere e proprie
icone quella in cui Marco e Ciro sparano verso il
mare nudi , pura poesia Pasoliniana e infine quella
in cui Franco e Roberto escono da una discarica con
delle tute fluorescenti estremamente oniriche. Un
vero capolavoro.
La vita segreta delle parole
La vita segreta delle parole di Isabel Coixet, film
drammatico che ha diviso la critica, ci parla di una
storia ambientata in una piattaforma petrolifera
dove lavorano alcuni uomini tra cui Hanna, una donna
solitaria e misteriosa che cerca di dimenticare il
suo passato, facendo da infermiera a Josef, un uomo
che ha temporaneamente perso la vista a causa di un
grave incidente di lavoro. Fra i due si sviluppa un
legame speciale tra verità e bugie. Un legame che li
cambierà per sempre instaurando un rapporto prezioso
e molto fragile che rischia di non avere un futuro a
causa dei traumi che entrambi hanno vissuto .
Isabel Coixet ci racconta il momento in cui le
parole possono venire fuori come onde , dopo
lunghissimi silenzi dovuti da malintesi, paure e in
questo caso anche orrori. Hanna cura le bruciture
fisiche dell'uomo e nel dialogo riesce a curare
anche se stessa. Isabel Coixet, prodotta da Pedro
Almodovar, confeziona un melodramma sentimentale,
amaro nel suo sviluppo e ironico nelle sue
conclusioni. Opera terza della regista spagnola, ci
mette un notevole carico emotivo, anche nell'uso
della videocamera, spesso fuori fuoco, che crea
anche un'immagine volutamente sporca e indecisa, e
questo è un elemento che funziona, così come
l'ambientazione alienante e capace di riallacciarsi
perfettamente allo stato emotivo dei due
protagonisti.
La regista tende a privilegiare i primi piani e in
questo dialogo di guarigione mette in risalto le
parole , sussurrate ,masticate , rotte e rubate .Nel
contorno pochi uomini che trovano nella pittaforma
una ragione di vita alternativa lontano dagli orrori
della civiltà. Alto il livello di recitazione di
Sarah Polley e Tim Barton ma anche degli attori
secondari. Un film da vedere assolutamente, tenero e
feroce allo stesso tempo.
N io e Napoleone
N io e Napoleone, film del 2006 di Paolo Virzì,
ambientato nel 1814, dove un giovane idealista
elbano sogna di uccidere Napoleone, imperatore
decaduto a cui è stata riconosciuta la sovranità
dell'isola d'Elba. Martino Papucci, maestro e
scrittore libertario, vive a Ponteferraio con la
sorella Diamantina e il fratello Ferrante. L'esilio
di Napoleone, dimorato proprio a Portoferraio, gli
offre finalmente una chance: affrontare il mito in
carne e ossa. Chiamato dal sindaco e investito dallo
stesso Napoleone, Martino accetta di diventarne lo
scrivano confidente con l'intento segreto di
assassinarlo. Ma il tentativo di compiere il delitto
fallisce con la fuga di Napoleone, che morirà sei
anni dopo sull'isola di Sant'Elena.
Tratto dal bel romanzo di Ernesto Ferrero e trattato
dagli Scarpelli, da Francesco Bruni e dallo stesso
Virzì, N è una commedia ottocentesca che affronta un
tema soprattutto novecentesco: il fascino persuasivo
del tiranno. Un'opera in costume dai toni
decisamente moderni in cui i dialetti della penisola
si alternano all'italiano maccheronico di un poco
convincente Daniel Auteuil che, nei panni di
Napoleone, sembra stare piuttosto stretto. Il film è
anche supportato dalla bella colonna sonora firmata
Paolo Buonvino e Juan Bardem. Attorno alla coppia
Napoleone-Martino ruotano diversi personaggi che
Virzì, abile scrittore di commedie, arricchisce con
toni caricaturali. Brava è Sabrina Impacciatore che
veste i panni della sorella bruttina ma intelligente
della famiglia Papucci di cui Massimo Ceccherini è
rocambolescamente innamorato. Parecchie risate
volute e alcune involontarie legate per lo più al
dialetto romanesco di Monica Bellucci, rendono la
pellicola godibile nonostante la lunghezza e
alleggeriscono di molto i toni potenzialmente
drammatici della vicenda.
Di certo non un capolavoro, ma un film per tutti che
piacerà in particolare al pubblico francese.
OVOSODO
Ovosodo, terza pellicola del regista livornese Paolo
Virzì, conquistò il Lido (Gran Premio della Giuria).
Ovosodo è la storia semplice di un ragazzo della
Livorno popolare, raccontata in prima persona e
scandita da lapidarie annotazioni su un diario di
scuola. Il protagonista è Piero, un adolescente un
po' timido e sognatore con la faccia segnata dai
brufoli, uno dei tanti ragazzi che, zaino in spalla,
vediamo ogni mattina recarsi a scuola. Di Piero,
detto "Ovosodo" (da qui il titolo del film), Virzì
racconta i primi anni di vita, quelli passati al
fianco della madre malata, l'adolescenza, segnata
dai primi amori e dai travagli esistenziali, e
l'ingresso nell'età adulta, piena di sogni infranti
ma anche di grandi conquiste. E' con uno stile
asciutto e grande garbo che Virzì affronta
l'argomento. E' con grande semplicità e senza falsa
retorica che parla dei ragazzi di oggi ed è forse
questo ad aver suscitato alla Mostra del Cinema di
Venezia le simpatie del pubblico, in gran parte
formato da giovani. Infatti Virzì rispetto ai
precedenti Jack Frusciante e Tutti Giù Per Terra,
"romanzi di formazione" un po' sguaiati, prigionieri
di un pessimismo da luogo comune e popolati da
figurine opache prive di ogni sprazzo vitale,
restituisce al periodo adolescenziale la sua
gioiosità, pur documentandone i dolori e i tormenti,
ed ai ragazzi l'energia vitale tipica della loro
età. Non sono "i giovani della generazione X" quelli
che Virzì ci propone, ma i ragazzi veri, quelli che
popolano le nostre scuole, le nostre città. Insomma
una volta tanto il riferimento è a persone reali,
tanto più reali in questo caso perché interpretati
da giovani presi nelle scuole o per la strada. Un
film godibile, dunque Ovosodo, con un cuore tenero.
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