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Libri a fumetti

Parole di fumo su città di pietra: Breve visita guidata alle metropoli disegnate
Recensione di Andrea Cantucci

Cinema

recensioni di Massimo Acciai, Sonia Cincinelli, Ilaria Mainardi
À bout de souffle - rubrica a cura di Ilaria Mainardi
Intervista a Daniele Segre di Ilaria Mainardi

Interviste

Pirografia, quando il fuoco diventa arte: Intervista a Luigi Conci
a cura di Massimo Acciai

Memorie preziose

Art Déco
di Maddalena Lonati

Fumetti in corso 10 - 11 - 12

Strisce di Andrea Cantucci

Recensioni
 


Recensione di Ilaria Mainardi

Sweeney Todd

Banalmente si potrebbe dire: Burton si ama o si odia. Ma è un giudizio banale appunto, certo è invece che per apprezzare al meglio il cinema del grande autore statunitense, trapiantato in Europa per amore, è necessario un occhio vergine, fanciullesco.
Sovraesposti a sollecitazioni visive ed uditive di ogni genere, al turbinare esasperato di colori ed immagini pubblicitarie che invitano all'acquisto di quel prodotto o dell'altro (identici, ma non televisivamente...), alla ridda di cinepanettoni, cineombrelloni e quant'altro, ammetto che sia complicato lasciarsi stupire da qualcosa che non ha lo stupore o l'effettaccio come fine ultimo, come "conditio sine qua non" per la sua esistenza.
Dal dolcissimo Edward, tanto fragile quanto potenzialmente letali erano le sue lame, sono passati quasi due decenni, eppure l'amarezza che pervade i lavori di Tim Burton è sempre la stessa, satura dell'ineluttabilità ironica di chi sa guardare attraverso gli occhi dell'immaginazione (penso a Chaplin, più che a Fellini).
Vent'anni però sono trascorsi trascinandosi dietro la disillusione, la rabbia e la consapevolezza di un gap (forse) insanabile.
E Sweeney Todd, già Benjiamin Barker, si trasforma da vendicatore disperato a sanguinario psicopatico (ma che fascino il male se passa attraverso il talento straordinario di Johnny Depp!).
In una Londra vittoriana che sembra uscita dalle pagine di Dickens (frutto del lavoro encomiabile della premiata coppia Ferretti - Lo Schiavo), il barbiere Barker vive sereno con moglie e figlioletta in fasce fino a quando il corrotto giudice Turpin (già Severus Piton di "Harry Potter") non lo condanna ingiustamente a quindici anni di carcere per usurpargli talamo ed affetti.
Il redivivo Todd, Figaro dark, ritornerà dall'inferno ed affogherà la sua implacabile vendetta in un bagno di sangue che non lo risparmierà, vittima esso stesso della propria cieca e furibonda rabbia.
La cecità della ragione (ricordate Ichabod Crane, protagonista del bellissimo "Sleepy Hollow", che indossava gli occhiali nel tentativo di indagare razionalmente l'insondabile?) e una fantasia malata incapace, da sola, di placare una promiscua cupidigia di odio e amore, di gin e pasticci di carne umana, sono il substrato della trama che si snoda fra duetti canterini e massacri a colpi di lama.
Inutile cercare precursori o eredi, non ce ne sono.
Burton è cresciuto e con lui il suo immaginario di freaks schizofrenici.
"This is the end, my friend", eco di un'apocalisse annunciata, potrebbe essere il leit motiv dell'ultima, splendida, fatica burtoniana: nemesi del musical classico, piuttosto una danza macabra condita però da quell'immancabile, inafferrabile, ironia che resta, probabilmente, l'unico barlume di speranza in un mondo di dolore.
Menzione doverosa per il cast al completo, un plauso particolare per Depp, alter ego di Burton: lontano anni luce dall'istrionismo divertente di Jack Sparrow, i suoi occhi si riempiono della struggente malinconia del William Blake che fu. Ma con in mano un rasoio ben affilato…

* * *

Recensioni di Massimo Acciai

Le cronache di Narnia - Il principe Caspian
Regia di Andrew Adamson con Ben Barnes, William Moseley, Anna Popplewell, Fantastico produzione USA, Gran Bretagna, 2008. Durata 140 minuti circa.


Secondo capitolo della saga di Narnia, inaugurata qualche anno fa con "Il leone, la strega e l'armadio", che cavalca il successo dei molti colossal fantasy usciti nell'ultimo decennio. Un film discreto, spettacolare in molti luoghi, inverosimile come ci si aspetta dal genere (ragazzini guerrieri che si comportano come adulti, battute un po' coatte, la solita immutabilità attraverso secoli e millenni di un mondo dominato dalla magia). Tanta avventura ad un ritmo frenetico, con battaglie, duelli e frecce sibilanti. Un film senza infamia e senza gloria.

Il cavaliere oscuro
Regia di Christopher Nolan con Christian Bale, Heath Ledger, Gary Oldman, Azione produzione USA, 2008. Durata 152 minuti circa.

I film su Batman continuano a stupirmi, e non solo per gli effetti speciali sempre più sorprendenti. A differenza di altre saghe, in cui si ricerca una coerenza a volte addirittura maniacale (l'universo di Guerre Stellari e quello di Star Trek, per fare due esempi), la storia dell'eroe mascherato da pipistrello si dipana in un universo atemporale (come tutti gli eroi dei fumetti d'altronde), in una città immaginaria in cui è facile riconoscervi una città reale - sappiamo bene quale - e, salvo certi punti fermi (l'omicidio dei genitori di Bruce Wayne, il suo stile di vita conflittuale), continuamente nuova: in questo film ad esempio ci viene presentato un Jocker ben diverso da quello del primo film di Batman, con una genesi ed una storia del tutto diversa (ma non era morto infatti in quel primo film?), così come si racconta una genersi di Due Facce inattesa e incongruente con quella del terzo o quarto film. E Robin, che fine ha fatto?
Nell'incalzare delle scene d'azione, preponderanti, notevoli sono i monologhi di Jocker sulla teoria del Caos, forse il personaggio più psicologicamente approfondito.

E venne il giorno
Un film di M. Night Shyamalan. Con Mark Wahlberg, Zooey Deschanel, John Leguizamo, Betty Buckley, Frank Collison, Ashlyn Sanchez, Spencer Breslin, Robert Bailey Jr.. Genere Fantascienza, colore 91 minuti. - Produzione USA, India 2008. - Distribuzione 20th Century Fox


Un film che non esalta e non delude, un po' horror con atmosfere dei film di fantascienza anni '50, un po' splatter ma senza grandi effetti speciali. Il mistero c'è, all'inizio, ma la spiegazione arriva troppo presto ed è banale (piacerebbe certo ad un'ecologista l'idea che le piante avvelenino l'uomo, spingendolo ad azioni suicide attraverso una tossina portata dal vento). Una sola scena ironica (il protagonista che parla ad una pianta d'appartamento - peraltro finta - manifestando le sue buone intenzioni) in un'atmosfera drammatica e con tante (troppe) scene d'isterismo. L'America si sente sempre minacciata da qualcosa (la prima spiegazione, non a caso, riguarda i terroristi) e si rivela incapace di fermare un disastro che poi, per fortuna, si ferma da solo… salvo poi ripartire proprio alla fine del film, in Francia. Certo, l'umanità rappresenta davvero una minaccia per il regno vegetale…

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Recensioni di Sonia Cincinelli


BACI E ABBRACCI

Baci e abbracci, quarto film diretto da Paolo Virzì del 1999, qui una famiglia toscana, per riuscire a salvare il bilancio di un allevamento di struzzi che non sta dando gli esiti sperati, invita a cena per la vigilia di Natale l'ultimo fidanzato della sorella, assessore regionale dell'Ulivo e possibile procacciatore di finanziamenti pubblici. Un equivoco fa giungere nel casale di campagna, omaggiato e onorato, un ristoratore in fallimento scambiato per l'uomo politico. Tutti sono squattrinati disperati: assediati dai debiti, dalle scadenze e dagli arretrati, inseguiti dagli strozzini e dalle bollette, respinti dalle banche, minacciati di pignoramenti e fallimenti, senza riscaldamento, senza vie d'uscita. Il tema di Baci e abbracci viene affrontato con realismo e sarcastico divertimento, senza accusare il finale di spirito accomodante, infatti nella realtà, milioni di persone combattono crudelmente coi soldi ma sopravvivono. I non-attori sono scelti e diretti bene, mentre Francesco Paolantoni della tv si rivela un ottimo interprete: e le intonazioni dialettali livornesi risultano più naturali che macchiettistiche. È melenso qualche momento poetico preso in prestito da Scola o da Tornatore: fiocca di notte una neve leggera e magica, che ai ragazzi fa venire voglia di piangere e d'abbracciarsi; appaiono nella bruma Giuseppe con Maria e Gesù in groppa all'asinello, aureolati e sperduti personaggi d'un presepe vivente; si presentano sogni radiosi e lussuosi. Mentre nel film molto riuscito scandito in capitoli (La Vigilia, Il pranzo di Natale) è bellissimo il modo stralunato, perplesso e severo con cui gli esotici struzzi contemplano dall'alto il dibattersi dei loro allevatori-killer.Film consigliato a tutti.


CATERINA VA IN CITTA'

Caterina va in città, del 2003 di Virzì ci racconta di Caterina, tredicenne figlia di un professore di filosofia fallito e di una casalinga repressa, lascia la provincia con la famiglia e si trasferisce a Roma. Qui, si inserisce con disinvoltura nella vita cittadina, divisa fra l'amicizia con la figlia di un sottosegretario fascistoide e quella con la figlia di due "alternativi" di sinistra. Virzì, torna con vigore al suo territorio prediletto, quello della commedia a sfondo sociale e politico. In questo caso la posizione è un po' sfumata, e meno definita che in precedenza: al centro della vicenda, infatti, non sono più la lotta di classe o le amarezze della classe operia, ma la vacuità di valori di una gioventù che non sa più a cosa appigliarsi, dato che neppure i genitori offrono certezze condivisibili. Amaro e cinico come solo i maestri della commedia all'italiana sapevano in passato essere, Virzì si candida ad essere il cantore più credibile della crisi di una società che si morde incessantemente la coda, oltre che un ottimo direttore di attori. Fra i molteplici omaggi che nel decennale furono rivolti a Fellini, questo singolare film è forse il più significativo: pur non rivelando niente di "felliniano" nello stile, che semmai strizza l'occhio a Scola o a Monicelli. Caterina va in città conferma che il cinema italiano è forte d'ispirati miniaturisti della recitazione come Sergio Castellitto e Margherita Buy; o come il bravo Claudio Amendola. Tra le altre, segnaliamo le amichevoli comparsate di Michele Placido, Maurizio Costanzo e Roberto Benigni in versione girotondista.


Corti di Moira Tierney

REGIA Moira Tierney
PAESE Irlanda-USA
GENERE cortometraggi
DISTRIBUZIONE
ANNO 2000

Il Tekfestival 2008 presenta una selezione dei primi lavori di Moira Tierney, filmmaker nata a Dublino e residente a Brooklyn, New York. Da Tiger Me Bollix (2000), ritratto di tre bambini irlandesi, ai funamboli e acrobati cinesi di Circus (2003), i film di Tierney trasmettono una sensibilità poetica che accompagna gli spettatori a lungo dopo la visione. La selezione include You Can't Keep a Good and The Boys Are Back in Town (2000), Radio Haiti, Morzh (Walrus) and American Dreams #1 & #2 (2001), American Dreams #3: Life, Liberty & the Pursuit of Happiness (2002).
La regista si esprime in questi lavori usando dal formato di pellicola super 16 fino al video digitale, a volte crea suggestioni con immagini e musica alla Geoffrey Reggio, a volte risulta essere molto vicina alla video arte di Bill Viola e di tanti artisti contemporanei, per un cinema postmoderno ibridato, che fa un uso sapiente delle sbavature tecniche che creano un'estetica attualissima.
Moira Tierney, nata a Dublino, ha studiato all'University College Dublin e all'Ecole Nationale d'Arts de Cergy-Pontoise di Parigi. Nel 1998 ha ricevuto una borsa di studio Fulbright per l'Anthology Film Archives (New York). Nell'arco di un decennio, lavorando con diversi formati, ha realizzato cortometraggi sperimentali che vanno da ritratti personali a riflessioni sociali e politiche. Il suo lavoro è stato presentato in location e festival internazionali tra cui Anthology Film Archives e Rotterdam.


GOMORRA

Gomorra, ultimo film di Matteo Garrone che ha trionfato a Cannes accaparrandosi il Gran Premio della Giuria. Qui Totò ha tredici anni, aiuta la madre a portare la spesa a domicilio nelle case del vicinato e sogna di affiancare i grandi, quelli che girano in macchina invece che in motorino, che contano i soldi e i loro morti. Ma diventare grandi, a Scampia, significa farli i morti, scambiare l'adolescenza con una pistola. O magari, come accade a Marco e Ciro, trovare un arsenale, sparare cannonate che ti fanno sentire invincibile. Puoi mettere paura, ma c'è sempre chi ne ha meno di te. Impossibile fuggire, si sta da una parte o dall'altra, e può accadere che la guerra immischi anche Don Ciro (Imparato), una vita da tranquillo porta-soldi, perché gli ordini sono mutati, il clan s'è spezzato in due. Si può cambiare mestiere, ma non si può uscire dal Sistema che tutto sa e tutto controlla. Quando Roberto si lamenta di un posto redditizio e sicuro nel campo dello smaltimento dei rifiuti tossici, Franco (Servillo), il suo datore di lavoro, lo ammonisce: non creda di essere migliore degli altri. Funziona così, non c'è niente da fare.
Matteo Garrone porta sullo schermo Gomorra, libro-scandalo di Roberto Saviano che in Italia ha venduto oltre un milione di copie, aprendo il sipario sulla luce artificiale e ustionante di una lampada per camorristi vanitosi ed esaltati. Il sole non illumina più le province di Napoli e Caserta, impossibile rischiarare questa terra buia e straniera al punto che gli italiani hanno bisogno dei sottotitoli per decifrarla. Siamo in un altro paese: all'inferno. Un film freddo scarno, probabilmente il regista si ispira alla suo primo cortometraggio Terra di Mezzo, un po' nella struttura e nelle modalità di linguaggio. Le due scene più belle degne di diventare vere e proprie icone quella in cui Marco e Ciro sparano verso il mare nudi , pura poesia Pasoliniana e infine quella in cui Franco e Roberto escono da una discarica con delle tute fluorescenti estremamente oniriche. Un vero capolavoro.


La vita segreta delle parole

La vita segreta delle parole di Isabel Coixet, film drammatico che ha diviso la critica, ci parla di una storia ambientata in una piattaforma petrolifera dove lavorano alcuni uomini tra cui Hanna, una donna solitaria e misteriosa che cerca di dimenticare il suo passato, facendo da infermiera a Josef, un uomo che ha temporaneamente perso la vista a causa di un grave incidente di lavoro. Fra i due si sviluppa un legame speciale tra verità e bugie. Un legame che li cambierà per sempre instaurando un rapporto prezioso e molto fragile che rischia di non avere un futuro a causa dei traumi che entrambi hanno vissuto .
Isabel Coixet ci racconta il momento in cui le parole possono venire fuori come onde , dopo lunghissimi silenzi dovuti da malintesi, paure e in questo caso anche orrori. Hanna cura le bruciture fisiche dell'uomo e nel dialogo riesce a curare anche se stessa. Isabel Coixet, prodotta da Pedro Almodovar, confeziona un melodramma sentimentale, amaro nel suo sviluppo e ironico nelle sue conclusioni. Opera terza della regista spagnola, ci mette un notevole carico emotivo, anche nell'uso della videocamera, spesso fuori fuoco, che crea anche un'immagine volutamente sporca e indecisa, e questo è un elemento che funziona, così come l'ambientazione alienante e capace di riallacciarsi perfettamente allo stato emotivo dei due protagonisti.
La regista tende a privilegiare i primi piani e in questo dialogo di guarigione mette in risalto le parole , sussurrate ,masticate , rotte e rubate .Nel contorno pochi uomini che trovano nella pittaforma una ragione di vita alternativa lontano dagli orrori della civiltà. Alto il livello di recitazione di Sarah Polley e Tim Barton ma anche degli attori secondari. Un film da vedere assolutamente, tenero e feroce allo stesso tempo.


N io e Napoleone

N io e Napoleone, film del 2006 di Paolo Virzì, ambientato nel 1814, dove un giovane idealista elbano sogna di uccidere Napoleone, imperatore decaduto a cui è stata riconosciuta la sovranità dell'isola d'Elba. Martino Papucci, maestro e scrittore libertario, vive a Ponteferraio con la sorella Diamantina e il fratello Ferrante. L'esilio di Napoleone, dimorato proprio a Portoferraio, gli offre finalmente una chance: affrontare il mito in carne e ossa. Chiamato dal sindaco e investito dallo stesso Napoleone, Martino accetta di diventarne lo scrivano confidente con l'intento segreto di assassinarlo. Ma il tentativo di compiere il delitto fallisce con la fuga di Napoleone, che morirà sei anni dopo sull'isola di Sant'Elena.
Tratto dal bel romanzo di Ernesto Ferrero e trattato dagli Scarpelli, da Francesco Bruni e dallo stesso Virzì, N è una commedia ottocentesca che affronta un tema soprattutto novecentesco: il fascino persuasivo del tiranno. Un'opera in costume dai toni decisamente moderni in cui i dialetti della penisola si alternano all'italiano maccheronico di un poco convincente Daniel Auteuil che, nei panni di Napoleone, sembra stare piuttosto stretto. Il film è anche supportato dalla bella colonna sonora firmata Paolo Buonvino e Juan Bardem. Attorno alla coppia Napoleone-Martino ruotano diversi personaggi che Virzì, abile scrittore di commedie, arricchisce con toni caricaturali. Brava è Sabrina Impacciatore che veste i panni della sorella bruttina ma intelligente della famiglia Papucci di cui Massimo Ceccherini è rocambolescamente innamorato. Parecchie risate volute e alcune involontarie legate per lo più al dialetto romanesco di Monica Bellucci, rendono la pellicola godibile nonostante la lunghezza e alleggeriscono di molto i toni potenzialmente drammatici della vicenda.
Di certo non un capolavoro, ma un film per tutti che piacerà in particolare al pubblico francese.


OVOSODO

Ovosodo, terza pellicola del regista livornese Paolo Virzì, conquistò il Lido (Gran Premio della Giuria). Ovosodo è la storia semplice di un ragazzo della Livorno popolare, raccontata in prima persona e scandita da lapidarie annotazioni su un diario di scuola. Il protagonista è Piero, un adolescente un po' timido e sognatore con la faccia segnata dai brufoli, uno dei tanti ragazzi che, zaino in spalla, vediamo ogni mattina recarsi a scuola. Di Piero, detto "Ovosodo" (da qui il titolo del film), Virzì racconta i primi anni di vita, quelli passati al fianco della madre malata, l'adolescenza, segnata dai primi amori e dai travagli esistenziali, e l'ingresso nell'età adulta, piena di sogni infranti ma anche di grandi conquiste. E' con uno stile asciutto e grande garbo che Virzì affronta l'argomento. E' con grande semplicità e senza falsa retorica che parla dei ragazzi di oggi ed è forse questo ad aver suscitato alla Mostra del Cinema di Venezia le simpatie del pubblico, in gran parte formato da giovani. Infatti Virzì rispetto ai precedenti Jack Frusciante e Tutti Giù Per Terra, "romanzi di formazione" un po' sguaiati, prigionieri di un pessimismo da luogo comune e popolati da figurine opache prive di ogni sprazzo vitale, restituisce al periodo adolescenziale la sua gioiosità, pur documentandone i dolori e i tormenti, ed ai ragazzi l'energia vitale tipica della loro età. Non sono "i giovani della generazione X" quelli che Virzì ci propone, ma i ragazzi veri, quelli che popolano le nostre scuole, le nostre città. Insomma una volta tanto il riferimento è a persone reali, tanto più reali in questo caso perché interpretati da giovani presi nelle scuole o per la strada. Un film godibile, dunque Ovosodo, con un cuore tenero.

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