|
|
Libri a fumetti
Cinema
Interviste
Memorie preziose
Art Déco
di Maddalena Lonati
Fumetti in corso 10
- 11 - 12
|
|
Intervista di Ilaria Mainardi a
Daniele Segre
Trovo difficile scrivere della
vita e dell'opera di un artista, corro il rischio di
banalizzare e non potrei perdonarmelo.
Bertolt Brecht sosteneva che per essere creativi
fosse necessario partire dalle "cattive cose nuove"
e mi sembra, parere del tutto personale e parziale,
che Daniele Segre abbia cominciato proprio da lì.
Non so quanto faccia piacere sentirselo dire, ma il
suo Cinema, perché di questo si tratta, è impastato
di sudore e di coraggio. Il coraggio umano e civile
di chi sente la necessità di parlare nonostante il
"silenzio assordante" (come lo stesso Segre lo
definisce più avanti e come lo avrebbe definito Pier
Paolo Pasolini) che, talvolta, sembra circondarlo, o
accerchiarlo.
Daniele Segre (Alessandria, 1952) è fotografo,
regista, docente ed autore tout court. Fra i suoi
lavori più recenti : "Vecchie" (2002), divenuto in
seguito pièce teatrale, "Mitraglia e il verme"
(2004) e "Morire di lavoro" (2008) sul quale il
regista annota che si è trattato di "un viaggio
difficile e doloroso, ma necessario per testimoniare
e stimolare ancora di più l'attenzione sul mondo del
lavoro italiano dove ogni giorno muoiono 4
lavoratori, oltre alle centinaia e migliaia che
rimangono lesi da incidenti sui luoghi di lavoro,
per non parlare delle vedove e degli orfani da
lavoro...".
L'ho incontrato, virtualmente, per "Segreti di
Pulcinella".
Mi sembra che il suo cinema, sia che tratti di
sieropositività o di disagio psichico, sia che
affronti il dramma delle morti sul lavoro, si ancori
alla realtà e da questa tragga spunto ed ispirazione
(anche tragica ispirazione, se vuole). Lo faceva
anche Shakespeare e nessuno si è mai sognato di
affermare che il suo fosse un teatro "minore" o
addirittura che si trattasse di un "non teatro".
L'impressione che ho è che nel nostro Paese si tenda
a definire cinema soltanto ciò che non racconta ciò
che è (senza voler dare, con questa affermazione, un
giudizio artistico), relegando al ruolo defilato di
documentario qualunque altra forma di espressione
cinematografica. Ammesso che la mia impressione sia
corretta, lei come si colloca in un panorama che
sembra aver paura del suo lavoro e con il quale
tuttavia non può non avere a che fare (per ragioni
produttive, distributive ecc.)?
Il mio lavoro si è sempre ispirato alla realtà e il
mio linguaggio della rappresentazione, in tutte le
varie forme che ho sperimentato nel cinema e nel
teatro, è nato, si è nutrito e vive di realtà.
Concordo con la sua impressione di definire cinema,
almeno nel nostro paese, ciò che non racconta ma che
fa finta di raccontare, all'interno di una
convenzione oramai consolidata
per la quale la verità deve essere farcita di
consolazione, negazione della realtà che è comunque
l'ispiratrice ma che deve essere attutita se non
fatta scomparire per evitare di conoscerla. Sembra
un paradosso ma è così.
Però è anche vero che da sempre si può raccontare la
realtà attraverso una fiaba o una poesia, e quasi
sempre è preferibile questa forma di racconto
rispetto alla rappresentazione docu-fictionata,
melodrammatica e consolatoria o scandalistica.
Non ho mai considerato un mio lavoro filmico come
documentario, ma sempre come film; non credo per
presunzione, ma perché il termine documentario mi
sta stretto, mi fa sentire in un ghetto,
discriminato. Per me esiste solo il cinema e la
necessità di raccontare storie in cui credo, che
possano in un certo senso placare la mia
inquietudine ed offrire allo spettatore la
complessità della condizione umana con l'intensità
che l'umanità ha; senza maschere, senza
mistificazioni o opportunismi e compromissioni
politiche e culturali.
Mi sono reso conto che proprio dove opero e mi
esprimo, cioè in Italia, il sistema sembra aver
paura sempre più del mio lavoro; lo testimonia
l'indifferenza e il rifiuto che ha avuto il mio
ultimo film Morire di lavoro da parte della RAI,
dell'Istituto Luce e di altri distributori e dalle
case editrici, da Einaudi a Feltrinelli. Al
contrario di questo silenzio che poeticamente potrei
definire "assordante" sono arrivate e stanno
arrivando numerosissime richieste di presentazioni
del film in tutta Italia dalla società civile; dalle
Associazioni, ai Sindacati, alla Confindustria, all'Inail,
alle scuole edili e professionali in genere e altri
ancora; un'esperienza veramente straordinaria che in
questi 6 mesi, da quando il film è stato presentato
in anteprima alla Camera dei deputati a Roma e al
Parlamento europeo a Strasburgo, mi ha consentito di
fare un lungo e importante viaggio di formazione nel
mio paese, l'Italia.
Una distribuzione fatta dalla mia società I
Cammelli, come con la mia società ho prodotto il
film con il sostegno del Piemonte Film Doc Fund e
l'indispensabile collaborazione del Sindacato delle
Costruzioni della CGIL.
Come mi colloco in questo panorama? Cerco di
collocarmi nel limite delle mie possibilità,
e la mia unica possibilità è la qualità nel
risultato del mio lavoro, condizionato e stimolato
dalle ridottissime risorse produttive, alla ricerca
di una unicità che mi aiuti a trovare la mia
identità, non solo artistica ma anche civile.
Per il resto è solo resistenza nel continuare a
voler portare avanti un progetto che dura da
trentatre anni come regista e da ventisette anche
come produttore indipendente.
Recentemente mi è capitato di leggere alcune
dichiarazioni di Sean Penn, notoriamente oppositore
fermo della politica di George Bush, e ho ravvisato
in lui e nelle sue parole un'onestà intellettuale ed
una caparbietà che, mi sembra, dovrebbero essere
requisiti fondamentali di chi, per una ragione o per
l'altra, ha la possibilità di essere ascoltato: un
connubio "pedagogico" tra mezzo e messaggio grazie
al quale chi ha voce tenta di incidere sulla società
affermando con forza il proprio pensiero. Cosa può
fare secondo lei un intellettuale, un cineasta, nel
nostro Paese, per far sì che le voci "contro" (ma,
ça va sans dire, "pro" qualcos'altro) possano
davvero ritenersi Libere?
Come regista mi sono sempre impegnato e mi sto
impegnando a portare un contributo artistico e
intellettuale che io definisco di "utilità
pubblica", ne fa fede il mio curriculum e i titoli
dei film che ho realizzato a partire dal 1975.
Non credo di essere e non mi considero una voce
contro, il mio cinema vuol parlare a tutti e mette
al centro la persona, l'umanità, la vita; credo di
rappresentare una risorsa per il mio paese, con i
miei film sono riuscito a incontrare e a parlare con
migliaia di persone su temi forse tra i più
impegnativi, che spaziano dalla vita alla morte,
dall'amore all'odio, dal differenza alla malattia,
dalla gioventù alla vecchiaia, fino ai temi del
lavoro e non solo.
Film che entrano nelle scuole e vengono utilizzati
come strumenti di formazione; settore nel quale
opero dal 1989, prima con la scuola che ho creato
Torino, la Scuola Video di Documentazione Sociale I
Cammelli, poi al Centro Sperimentale di
Cinematografia con il quale collaboro come docente
con il corso "Cinema e Realtà", e con l'Università
di Pisa come docente di regia cinematografica , alla
scuola per attori della Fondazione Teatro Stabile di
Torino, e poi i tanti laboratori video che ho fatto
in varie regioni italiane coinvolgendo studenti di
ogni ordine e grado, dalle scuole superiori,
all'Accademia, all'Università fino al lavoro con
utenti e operatori di centri diurni psichiatrici.
Ecco, questo impegno lo ritengo un tipo di
contributo che una persona come me può dare al
proprio paese e non solo.
La libertà purtroppo non è un diritto, lo dovrebbe
essere, ma in realtà è una conquista che devi fare
giorno per giorno, avanzando e arretrando, è un
approdo difficile da raggiungere
e sempre di più viene considerata una condizione
solo individuale e non anche collettiva.
Leggendo i giornali e seguendo le ricostruzioni
fatte dai vari programmi televisivi di
approfondimento, si ha la nettissima impressione che
la strage dell'acciaieria ThyssenKrupp fosse,
diciamo così, prevedibile. Un ordigno ad orologeria
di cui tutti erano a conoscenza senza poter, nel
caso degli operai, o voler, nel caso dei dirigenti,
agire per disinnescarlo. Quanto è importante per lei
incidere sulla società? Cosa può fare, se può fare
qualcosa, il cinema per evitare che una tragedia
come quella si ripeta in futuro? Il cinema, in una
parola, può educare?
Innanzitutto tutte le morti sono prevedibili,
comprese quelle che succederanno mentre si leggerà
questa intervista; e questo è insopportabile ed è
questa indignazione che mi ha fatto decidere
nell'autunno 2006, più di un anno prima degli eventi
della Thyssen Krupp, che dovevo intraprendere questo
viaggio difficile e doloroso.
Che Morire di lavoro venga proiettato in moltissimi
luoghi d'Italia è il mio modo di contribuire per
incidere nella società, così vale per tutti i film
che ho fatto in tutti questi anni di lavoro. Io
lavoro per un "cinema utile" che possa contribuire a
formare le prossime generazioni in uno spirito di
libertà e di presa di coscienza più che di
"educazione".
Senza entrare in un ambito direttamente politico,
anzi sì, entrandoci a gamba tesa, cosa ne pensa
delle prime azioni di questo governo: tagli alla
ricerca, alla cultura, alla scuola, giustizia ad
personam, legittimazione giuridica del precariato
ecc.? Non le viene, qualche volta, la tentazione di
scappare? O lo considera forse, drammaticamente, uno
sprone a fare di più e a farlo meglio?
E' una domanda che sembra voglia avere una risposta
scontata, il 2008 è stato un anno molto difficile,
la sconfitta drammatica della sinistra italiana,
estromessa dal parlamento ha creato una situazione
nuova e molto complessa che oltretutto coincide con
una grave crisi economica mondiale; è chiaro che la
situazione italiana non è favorevole e le
prospettive sono molto nuvolose e gli atti che sono
stati citati nella domanda forse rappresentano solo
l'antipasto;
c'è chi in queste settimane agostane dalle pagine di
Famiglia Cristiana intravede derive
non democratiche, cioè fasciste, suscitando forti
polemiche per lo più con il mondo cattolico di cui è
anche espressione. La tentazione di scappare no, e
poi perché lo dovrei fare, l'Italia è il mio paese e
se non rimette le leggi razziali non scappo; certo
la vita che faccio per poter continuare a fare il
mio lavoro, esprimermi, intervenire, mi sembra
sempre più difficile, ma di questo ne abbiamo già
parlato.
Un'ultima domanda (giuro…). Che cinema piace a
Daniele Segre? Voglio i nomi, eh!
E' sempre difficile rispondere a questo tipo di
domande, e poco mi interessa fare classifiche o
nomi; certo il suo "voglio i nomi" mi stimola anche
per le interessanti domande che mi ha rivolto in
questa intervista per lasciarmi andare citando,
Rossellini, Zavattini, Jean Rouch, Joris Ivens,
Wiseman e Lanzmann, Pasolini, Fassbinder,
Anghelopoulos, Sergio Leone, Scorsese, Mario
Monicelli, Ettore Scola, Ermanno Olmi de L'albero
degli zoccoli, i fratelli Taviani di Padre Padrone,
alcuni film di Bernardo Bertolucci e di Gianni
Amelio e Michelangelo Antonioni, Philippe Garrel di
J'entends plus la guitare, alcuni film di Ken Loach,
Billy Wilder, Frank Capra, Charlie Chaplin, le
interpretazioni di Marcello Mastroianni..., ma
sicuramente fra poco mi verranno in mente tanti
altri nomi e film per me altrettanto importanti.
|
ì |
|
|