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Intervista di Ilaria Mainardi a Daniele Segre
 

di Ilaria Mainardi


Trovo difficile scrivere della vita e dell'opera di un artista, corro il rischio di banalizzare e non potrei perdonarmelo.
Bertolt Brecht sosteneva che per essere creativi fosse necessario partire dalle "cattive cose nuove" e mi sembra, parere del tutto personale e parziale, che Daniele Segre abbia cominciato proprio da lì.
Non so quanto faccia piacere sentirselo dire, ma il suo Cinema, perché di questo si tratta, è impastato di sudore e di coraggio. Il coraggio umano e civile di chi sente la necessità di parlare nonostante il "silenzio assordante" (come lo stesso Segre lo definisce più avanti e come lo avrebbe definito Pier Paolo Pasolini) che, talvolta, sembra circondarlo, o accerchiarlo.
Daniele Segre (Alessandria, 1952) è fotografo, regista, docente ed autore tout court. Fra i suoi lavori più recenti : "Vecchie" (2002), divenuto in seguito pièce teatrale, "Mitraglia e il verme" (2004) e "Morire di lavoro" (2008) sul quale il regista annota che si è trattato di "un viaggio difficile e doloroso, ma necessario per testimoniare e stimolare ancora di più l'attenzione sul mondo del lavoro italiano dove ogni giorno muoiono 4 lavoratori, oltre alle centinaia e migliaia che rimangono lesi da incidenti sui luoghi di lavoro, per non parlare delle vedove e degli orfani da lavoro...".
L'ho incontrato, virtualmente, per "Segreti di Pulcinella".

Mi sembra che il suo cinema, sia che tratti di sieropositività o di disagio psichico, sia che affronti il dramma delle morti sul lavoro, si ancori alla realtà e da questa tragga spunto ed ispirazione (anche tragica ispirazione, se vuole). Lo faceva anche Shakespeare e nessuno si è mai sognato di affermare che il suo fosse un teatro "minore" o addirittura che si trattasse di un "non teatro". L'impressione che ho è che nel nostro Paese si tenda a definire cinema soltanto ciò che non racconta ciò che è (senza voler dare, con questa affermazione, un giudizio artistico), relegando al ruolo defilato di documentario qualunque altra forma di espressione cinematografica. Ammesso che la mia impressione sia corretta, lei come si colloca in un panorama che sembra aver paura del suo lavoro e con il quale tuttavia non può non avere a che fare (per ragioni produttive, distributive ecc.)?

Il mio lavoro si è sempre ispirato alla realtà e il mio linguaggio della rappresentazione, in tutte le varie forme che ho sperimentato nel cinema e nel teatro, è nato, si è nutrito e vive di realtà.
Concordo con la sua impressione di definire cinema, almeno nel nostro paese, ciò che non racconta ma che fa finta di raccontare, all'interno di una convenzione oramai consolidata
per la quale la verità deve essere farcita di consolazione, negazione della realtà che è comunque l'ispiratrice ma che deve essere attutita se non fatta scomparire per evitare di conoscerla. Sembra un paradosso ma è così.
Però è anche vero che da sempre si può raccontare la realtà attraverso una fiaba o una poesia, e quasi sempre è preferibile questa forma di racconto rispetto alla rappresentazione docu-fictionata, melodrammatica e consolatoria o scandalistica.
Non ho mai considerato un mio lavoro filmico come documentario, ma sempre come film; non credo per presunzione, ma perché il termine documentario mi sta stretto, mi fa sentire in un ghetto, discriminato. Per me esiste solo il cinema e la necessità di raccontare storie in cui credo, che possano in un certo senso placare la mia inquietudine ed offrire allo spettatore la complessità della condizione umana con l'intensità che l'umanità ha; senza maschere, senza mistificazioni o opportunismi e compromissioni politiche e culturali.
Mi sono reso conto che proprio dove opero e mi esprimo, cioè in Italia, il sistema sembra aver paura sempre più del mio lavoro; lo testimonia l'indifferenza e il rifiuto che ha avuto il mio ultimo film Morire di lavoro da parte della RAI, dell'Istituto Luce e di altri distributori e dalle case editrici, da Einaudi a Feltrinelli. Al contrario di questo silenzio che poeticamente potrei definire "assordante" sono arrivate e stanno arrivando numerosissime richieste di presentazioni del film in tutta Italia dalla società civile; dalle Associazioni, ai Sindacati, alla Confindustria, all'Inail, alle scuole edili e professionali in genere e altri ancora; un'esperienza veramente straordinaria che in questi 6 mesi, da quando il film è stato presentato in anteprima alla Camera dei deputati a Roma e al Parlamento europeo a Strasburgo, mi ha consentito di fare un lungo e importante viaggio di formazione nel mio paese, l'Italia.
Una distribuzione fatta dalla mia società I Cammelli, come con la mia società ho prodotto il film con il sostegno del Piemonte Film Doc Fund e l'indispensabile collaborazione del Sindacato delle Costruzioni della CGIL.
Come mi colloco in questo panorama? Cerco di collocarmi nel limite delle mie possibilità,
e la mia unica possibilità è la qualità nel risultato del mio lavoro, condizionato e stimolato dalle ridottissime risorse produttive, alla ricerca di una unicità che mi aiuti a trovare la mia identità, non solo artistica ma anche civile.
Per il resto è solo resistenza nel continuare a voler portare avanti un progetto che dura da trentatre anni come regista e da ventisette anche come produttore indipendente.

Recentemente mi è capitato di leggere alcune dichiarazioni di Sean Penn, notoriamente oppositore fermo della politica di George Bush, e ho ravvisato in lui e nelle sue parole un'onestà intellettuale ed una caparbietà che, mi sembra, dovrebbero essere requisiti fondamentali di chi, per una ragione o per l'altra, ha la possibilità di essere ascoltato: un connubio "pedagogico" tra mezzo e messaggio grazie al quale chi ha voce tenta di incidere sulla società affermando con forza il proprio pensiero. Cosa può fare secondo lei un intellettuale, un cineasta, nel nostro Paese, per far sì che le voci "contro" (ma, ça va sans dire, "pro" qualcos'altro) possano davvero ritenersi Libere?

Come regista mi sono sempre impegnato e mi sto impegnando a portare un contributo artistico e intellettuale che io definisco di "utilità pubblica", ne fa fede il mio curriculum e i titoli dei film che ho realizzato a partire dal 1975.
Non credo di essere e non mi considero una voce contro, il mio cinema vuol parlare a tutti e mette al centro la persona, l'umanità, la vita; credo di rappresentare una risorsa per il mio paese, con i miei film sono riuscito a incontrare e a parlare con migliaia di persone su temi forse tra i più impegnativi, che spaziano dalla vita alla morte, dall'amore all'odio, dal differenza alla malattia, dalla gioventù alla vecchiaia, fino ai temi del lavoro e non solo.
Film che entrano nelle scuole e vengono utilizzati come strumenti di formazione; settore nel quale opero dal 1989, prima con la scuola che ho creato Torino, la Scuola Video di Documentazione Sociale I Cammelli, poi al Centro Sperimentale di Cinematografia con il quale collaboro come docente con il corso "Cinema e Realtà", e con l'Università di Pisa come docente di regia cinematografica , alla scuola per attori della Fondazione Teatro Stabile di Torino, e poi i tanti laboratori video che ho fatto in varie regioni italiane coinvolgendo studenti di ogni ordine e grado, dalle scuole superiori, all'Accademia, all'Università fino al lavoro con utenti e operatori di centri diurni psichiatrici. Ecco, questo impegno lo ritengo un tipo di contributo che una persona come me può dare al proprio paese e non solo.
La libertà purtroppo non è un diritto, lo dovrebbe essere, ma in realtà è una conquista che devi fare giorno per giorno, avanzando e arretrando, è un approdo difficile da raggiungere
e sempre di più viene considerata una condizione solo individuale e non anche collettiva.

Leggendo i giornali e seguendo le ricostruzioni fatte dai vari programmi televisivi di approfondimento, si ha la nettissima impressione che la strage dell'acciaieria ThyssenKrupp fosse, diciamo così, prevedibile. Un ordigno ad orologeria di cui tutti erano a conoscenza senza poter, nel caso degli operai, o voler, nel caso dei dirigenti, agire per disinnescarlo. Quanto è importante per lei incidere sulla società? Cosa può fare, se può fare qualcosa, il cinema per evitare che una tragedia come quella si ripeta in futuro? Il cinema, in una parola, può educare?

Innanzitutto tutte le morti sono prevedibili, comprese quelle che succederanno mentre si leggerà questa intervista; e questo è insopportabile ed è questa indignazione che mi ha fatto decidere nell'autunno 2006, più di un anno prima degli eventi della Thyssen Krupp, che dovevo intraprendere questo viaggio difficile e doloroso.
Che Morire di lavoro venga proiettato in moltissimi luoghi d'Italia è il mio modo di contribuire per incidere nella società, così vale per tutti i film che ho fatto in tutti questi anni di lavoro. Io lavoro per un "cinema utile" che possa contribuire a formare le prossime generazioni in uno spirito di libertà e di presa di coscienza più che di "educazione".

Senza entrare in un ambito direttamente politico, anzi sì, entrandoci a gamba tesa, cosa ne pensa delle prime azioni di questo governo: tagli alla ricerca, alla cultura, alla scuola, giustizia ad personam, legittimazione giuridica del precariato ecc.? Non le viene, qualche volta, la tentazione di scappare? O lo considera forse, drammaticamente, uno sprone a fare di più e a farlo meglio?

E' una domanda che sembra voglia avere una risposta scontata, il 2008 è stato un anno molto difficile, la sconfitta drammatica della sinistra italiana, estromessa dal parlamento ha creato una situazione nuova e molto complessa che oltretutto coincide con una grave crisi economica mondiale; è chiaro che la situazione italiana non è favorevole e le prospettive sono molto nuvolose e gli atti che sono stati citati nella domanda forse rappresentano solo l'antipasto;
c'è chi in queste settimane agostane dalle pagine di Famiglia Cristiana intravede derive
non democratiche, cioè fasciste, suscitando forti polemiche per lo più con il mondo cattolico di cui è anche espressione. La tentazione di scappare no, e poi perché lo dovrei fare, l'Italia è il mio paese e se non rimette le leggi razziali non scappo; certo la vita che faccio per poter continuare a fare il mio lavoro, esprimermi, intervenire, mi sembra sempre più difficile, ma di questo ne abbiamo già parlato.

Un'ultima domanda (giuro…). Che cinema piace a Daniele Segre? Voglio i nomi, eh!

E' sempre difficile rispondere a questo tipo di domande, e poco mi interessa fare classifiche o nomi; certo il suo "voglio i nomi" mi stimola anche per le interessanti domande che mi ha rivolto in questa intervista per lasciarmi andare citando, Rossellini, Zavattini, Jean Rouch, Joris Ivens, Wiseman e Lanzmann, Pasolini, Fassbinder, Anghelopoulos, Sergio Leone, Scorsese, Mario Monicelli, Ettore Scola, Ermanno Olmi de L'albero degli zoccoli, i fratelli Taviani di Padre Padrone, alcuni film di Bernardo Bertolucci e di Gianni Amelio e Michelangelo Antonioni, Philippe Garrel di J'entends plus la guitare, alcuni film di Ken Loach, Billy Wilder, Frank Capra, Charlie Chaplin, le interpretazioni di Marcello Mastroianni..., ma sicuramente fra poco mi verranno in mente tanti altri nomi e film per me altrettanto importanti.

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