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Libri a fumetti

ARRIVANO I NOSTRI
Storia delle storie d'Italia a fumetti

Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

Cappuccetto Rosso Sangue
di Lorenzo Spurio
Non habemus Papam
di Maria Antonietta Nardone
Thor
di Mario Gardini
Red
di Mario Gardini
The next three days
di Mario Gardini
Una notte da leoni 2
di Mario Gardini

Disegno

Quando il disegno parla: intervista a Tommaso Di Spigna
Intervista a cura di Alessandro Rizzo

Danza

Ogni volta che salgo sul palco mi sento rinascere: intervista a Estrella / Cada vez que subo al escenario vuelvo a nacer

Moda

Il tricolore che fa moda!!!!
di Katia Rosanna Rossi

Fotografia

Alessio Naldi: quando autore e soggetto coincidono in fotografia
Intervista a cura di Alessandro Rizzo

Miti mutanti 11

Strisce di Andrea Cantucci

In questo numero recensiamo...


 


"Non habemus Papam"


di Maria Antonietta Nardone

"Habemus Papam"
Nanni Moretti
(Eurcine, 1)

Parabola con gustose svisate oniriche, piena di ironia, autoironia e asciutto umanesimo, che sorprende per l'accuratezza delle immagini e per un tono lieve, pacato, seppur capace di caustiche critiche. Qual è il tema principale di questa parabola? Il disagio di un uomo, che si sente inadeguato a ricoprire un incarico di enorme responsabilità. E l'incarico è nientemeno che quello di essere il capo dei cattolici; i cardinali riuniti in Conclave, difatti, dopo diverse votazioni, eleggono Papa il mite e timido cardinale Melville, il quale ha una crisi che lo porta ad un rifiuto nevroticamente insuperabile. Per aiutare il neoeletto Papa a confrontarsi con le sue paure viene chiamato un noto psicoanalista, considerato il migliore nel suo campo.
Trovo molto originale l'aver immaginato questo disagio, e conseguente rifiuto, all'interno della dirigenza vaticana; aver immaginato un cardinale, appena eletto Papa, che si sente inadatto, che riconosce in sé di non riuscire a ricoprire un simile incarico e, dopo un inatteso periodo di crisi e di fuga, comunica questa sua incapacità ed inadeguatezza coram populo, proprio dalla fatidica loggia dalla quale tutti i fedeli e tutti i cardinali attendono invece la sua benedizione papale e pastorale. Che dire? Ingegnosissima idea.
L'originalità di aver immaginato questa crisi e questo rifiuto in un uomo come il Papa, appunto, porta ad una virata umanissima, che induce a riflessioni assai profonde. Faccio solo qualche esempio: la relazione tra l'assunzione di una simile, enorme responsabilità ad un'età avanzata (Melville ha 85 anni), oppure il non sentirsi caratterialmente un leader quanto piuttosto uno che segue una via indicata da altri, il percepire un'antica passione come la recitazione, più viva che mai, nonostante si sia scelta una strada diversa, o certe "assenze" della vecchiaia che folgorano d'un tratto come acutissime presenze, oppure una gentilezza di temperamento e una timidezza di fondo che non si conciliano con un ruolo autorevole e autoritario. Tutto ciò suscita una riflessione fra ciò che si è e ciò che si è chiamati a diventare, anche quando questo "diventare" significa sopprimere quello che si è autenticamente, nel più profondo della propria anima (intesa in senso junghiano).
Per non parlare della contraddizione che c'è tra l'umanità di Gesù, di un Dio che si è fatto uomo con tutte le sue sofferenze e fallibilità, e l'infallibilità di chi è stato chiamato a guidare la barca di Pietro, ossia di un uomo che è stato nominato Papa; mi riferisco qui al dogma dell'infallibilità pontificia. Se perfino Gesù, sulla croce, ha paura di essere stato abbandonato da Dio (straziante quel suo "Elì, Elì, lemà sabactanì" "Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?") non può forse un Papa, che è il Vicario di Cristo, avere paura del compito gravoso che è chiamato a svolgere, mostrando in questa sua paura tutta la sua fallibile umanità, piuttosto che un'infallibilità che non è di questo mondo? Domande che richiedono un approfondimento che però mi porterebbe troppo lontano, per lo spazio di queste righe, ma il cui stimolo è da ascrivere alla visione di questo film.
Un film che si è tenuto fermamente saldo ad un umanesimo schietto e mai fideistico. Moretti, giustamente, non si addentra in diatribe spirituali, teologiche o pastorali. Immagina il neoeletto Papa come un uomo messo davanti ad una responsabilità per lui schiacciante, soverchiante e insuperabile. E questa mi sembra una scelta di un'onestà intellettuale indubbia, lampante. L'immaginazione di un regista, non toccato dalla grazia della fede, che indaga, a suo modo, ossia con il suo sguardo, ripeto umanissimo, il disagio, la crisi, il rifiuto di un uomo, che pur toccato dalla fede, non se la sente di guidare milioni e milioni di credenti sparsi per il vasto mondo. Un'immaginazione audace, ma sempre rispettosa, e comunque plausibilissima. Perché, ci si domanda, un cardinale non può non sentirsi inadatto a diventare Papa?
Non manca qualche frecciata all'insipienza cialtrona di certi giornalisti televisivi che riducono riti antichissimi ad uno spettacolo di bassa fiera mediatica, ma il tono resta lieve, anche nelle sue autoironie, in cui il regista accoglie i suoi stessi vezzi con sorridente benevolenza. Mentre affettuosissimo mi è parso l'atteggiamento verso i cardinali riuniti in Conclave, coinvolti peraltro in spassosissime partite di pallavolo "con girone all'italiana" (ma perché per l'elezione di un Papa si muovono i bookmakers e i media di tutto il mondo, con quotazioni e puntate, e un regista cinematografico non può immaginare la competitività tra i cardinali in un'esilarante partita di pallavolo?). E pieno di comprensione è anche lo sguardo sulla solitudine dei vecchi cardinali, abituati appunto ad una lunga vita di solitudine anche affettiva (quando il cardinal Gregori dà la buonanotte ai suoi colleghi, aprendo e chiudendo la porta delle loro camere, vediamo squarci di una solitudine enorme, una solitudine che fa male; una solitudine che può portare all'isolamento o al distacco dalla realtà del mondo, sintetizzato più tardi in una sola battuta dello psicoanalista "cardinale, sono cinquant'anni che non si gioca a palla prigioniera!"). E, nel discorso finale in cui Melville rifiuta di diventare Papa ed auspica in una guida capace di portare cambiamenti c'è uno dei nuclei profondi di questo film di rara sottigliezza: la necessità del cambiamento. La vita è cambiamento e per essere vivi bisogna essere aperti al cambiamento. Diversamente la vita (come la Chiesa) diventa un arido e vuoto e morto rito. E qui la psicoanalisi ha ancora molto da far capire, insegnare e, deo concedente, come direbbe Jung, curare. Un cambiamento sottolineato anche dalla canzone "Todo cambia", cantata dalla maestosa Mercedes Sosa, l'indomita cantora popular argentina morta un anno e mezzo fa (ascoltare le sue parole aiuta ad entrare nell'humus di questa parabola); canzone che tradotta fa così:

"Cambia ciò che è superficiale
e anche ciò che è profondo
cambia il modo di pensare
cambia tutto in questo mondo.
Cambia il clima con gli anni
cambia il pastore il suo pascolo
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Cambia il più prezioso brillante
di mano in mano il suo splendore,
cambia nido l'uccellino
cambia il sentimento degli amanti.
Cambia direzione il viandante
sebbene questo lo danneggi
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia.
Cambia il sole nella sua corsa
quando la notte persiste,
cambia la pianta e si veste
di verde in primavera.
Cambia il manto della fiera
cambiano i capelli dell'anziano
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Ma non cambia il mio amore
per quanto lontano mi trovi,
né il ricordo né il dolore
della mia terra e della mia gente.
E ciò che è cambiato ieri
di nuovo cambierà domani
così come cambio io
in questa terra lontana.
Cambia, tutto cambia…"

A me pare che Moretti molto semplicemente abbia esercitato la sua libertà, senza peraltro revanscismi di alcun tipo, attenendosi ad un sentire pieno di pietas ma non credente, eppure rispettoso di chi crede. Una libertà in cui, modernamente, la ragione non è subordinata alla fede.
Un film in cui c'è sia il sorriso sia il morso dell'infelicità e della solitudine, il tutto raccontato con leggera ed asciutta, virile pacatezza. Starei quasi per parlare di un tono riconciliato, se non con il mondo quantomeno con se stesso. Molto belli ed eleganti i movimenti d'insieme dei cardinali.
Bravi tutti gli interpreti (indimenticabile il volto smarrito di Michel Piccoli); grande Jerzy Stuhr, il portavoce, tanto devoto quanto ambiguo, disposto anche a mentire per giorni e giorni; grandissimi Franco Graziosi e Renato Scarpa, i quali essendo attori teatrali di lunghissimo corso hanno uno spessore recitativo ed una raffinatezza di tocco immensi.

* * *

RED
di Robert Schwentke
con Bruce Willis, John Malkovich, Morgan Freeman, Helen Mirren
USA - 2011


Più che l'ennesimo cinefumetto tratto da una miniserie di comics di Warren Ellis e Cully Hamner, questo RED potrebbe essere la prossima campagna elettorale per il Partito Pensionati.
RED, che sta per Retired Extremely Dangerous (ovvero "pensionato estremamente pericoloso"), è un film divertente e fracassone, oltre che un inno di gioia per tutti gli over 50 i quali, all'urlo di "vecchio un cazzo!", possono godersi un nutrito stuolo di attori un po' agè che sparano, incendiano, distruggono e fanno debita giustizia del solito sistema politico corrotto americano (magari lo facessero anche da noi!).
Frank Moses (Bruce Willis) è un annoiato pensionato che strappa gli assegni della pensione pur di avere l'occasione di flirtare telefonicamente con Mary-Louise Parker.
Ma il loro incontro è destinato ad avvenire nell'arco di pochi fotogrammi. Braccati entrambi da un gruppo di agenti della CIA che li vuole fare fuori, i due iniziano a fuggire per tutti gli Stati d'America.
Moses, ai tempi, aveva lavorato per la CIA, facendo una serie di sporchi lavoretti che ora gravano sulla coscienza di un vice Presidente in corsa per le elezioni.
Quindi urge fare fuori sia lui che tutti i vecchi compagni di squadra (John Malkovich, Morgan Freeman e Helen Mirren) per evitare che venga a galla un increscioso fatto accaduto trent'anni prima in Guatemala.
Grazie all'aiuto di un ex rivale russo, ora dolcemente innamorato, e di un giovane agente CIA ligio al dovere ma non così ottuso da credere solo a ciò che gli viene detto dall'alto, il team dei nostri "Oldies but goldies" alla fine avrà la meglio sui cattivi, rinunciando definitivamente al pensionamento e ributtandosi a capofitto in una nuova avventura in Moldavia.
Nonostante tutto il cast sia perfetto ed affiatato, la parte dei leoni spetta a John Malkovich, per la prima volta veramente a suo agio in un ruolo comico, e a Helen Mirren la quale, con estrema classe e disinvoltura, abbandona i panni della Regina Elisabetta per indossare quelli della nonna di Lara Croft.
Ma è una bella emozione ritrovare, seppure in una piccola e non edificante parte, anche lo straordinario Richard Dreyfuss, che nel 1988 il vostro recensore amò follemente nei panni di Aaron Levinsky, avvocato difensore di una "Pazza" Barbra Streisand.


Mario Gardini

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THOR
di Kenneth Branagh
con Chris Hemsworth, Natalie Portman, Anthony Hopkins
USA - 2011

Ora manca solo Capitan America (in uscita alla fine di luglio) e poi tutti i più importanti super-eroi della Marvel Comics avranno avuto il loro momento di gloria sul grande schermo.
Alcuni in maniera ottimale (Iron Man, Spiderman, X-Men), altri con un profilo decisamente più basso (I Fantastici 4, Daredevil, Hulk).
A quale di queste due categorie appartiene il THOR diretto nientepopodimeno che dal genio shakespeariano di Kenneth Branagh?
Direi decisamente alla seconda.
Nato dalla penna di Stan Lee nel 1962, Thor racconta le gesta del dio del tuono e del lampo della mitologia norrena il quale, insieme al suo magico martello, viene bandito dal padre Odino sulla Terra e diventa amico e protettore della razza umana.
Perseguitato dalle autorità e salvato da un gruppo di studiosi di astrofisica, Thor combatte per ritornare nel regno di Asgdar, salvare la vita al padre in coma ed impedire che il fratellastro Loki faccia comunella con il cattivo Laufey, re dei giganti di ghiaccio.
Supportato da uno stuolo di amici fedeli giunti sulla Terra per riportarlo a casa, Thor mostra i bicipiti, combatte contro il Distruttore e sacrifica la propria vita alla causa, dimostrando così a Odino di non essere più il ragazzo impulsivo e poco assennato che si era meritato l'esilio.
Ora potrà tornare nel suo regno, anche se la battaglia finale gli precluderà la possibilità di ricongiungersi alla bella scienziata con la quale, nel frattempo, ha intrecciato una liaison.
Nonostante la presenza di due premi Oscar quali Anthony Hopkins e Natalie Portman, THOR è un fumettone con molto fumo e poco arrosto che induce più allo sbadiglio che all'applauso.
Privo dell'ironia di un Iron Man (ma lì c'è un Robert Downey Jr e non un culturista totalmente inespressivo come Chris Hemsworth) o della malinconia esistenziale del Tobey Maguire di Spiderman (anche se l'anno prossimo si prospettano guai con il quarto capitolo della serie dal cast totalmente rinnovato) , THOR è una girandola visiva che dà il meglio di sé, in versione 3D, nelle scene intergalattiche prive di presenze umane.
Visto il successo internazionale del film (345 milioni di dollari in due settimane), c'è da aspettarsi a breve un sequel.
Datemi un martello… che cosa ne vuoi fare?
Darlo in testa a Kenneth Branagh, per fargli capire che un film di puro intrattenimento americano non va trattato come la versione a fumetti dell'Amleto.


Mario Gardini

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Cappuccetto rosso sangue (2011)
Regia di: Catherine Hardwicke
Paese: Usa


La famosa fiaba di Cappuccetto Rosso scritta dai fratelli Grimm e conosciuta da tutti attraverso la realizzazione della fiaba in cartone animato verrà proposta in un film diretto dalla regista Catherine Hardwicke. Il film dal titolo Red Riding Hood è uscito nelle sale americane l'11 marzo 2011 e in Regno Unito è uscito oggi, 15 aprile 2011. Nelle sale italiane l'uscita del film è prevista per il 22 aprile 2011 col titolo Cappuccetto Rosso Sangue.
In realtà la fiaba di Cappuccetto Rosso non venne scritta dai fratelli Grimm ma dal favolista francese Charles Perrault dal quale venne ripresa e riadattata, così come molte altre celebri fiabe.
Il film può essere catalogato come un dark fantasy. La componente fantastica della fiaba è ben nota a tutti: il lupo parlante incontrato nel bosco, il lupo che mangia Cappuccetto Rosso e la nonna ma è riadattata non in una semplice storiella edificante per bambini ma in una dark story nella quale si sottolineano gli aspetti più gotici, inquietanti e paurosi della vicenda stessa. Nel compaiono nuovi personaggi e nuove vicende che li legano ma alcuni elementi fondanti della fiaba rimangono: Cappuccetto Rosso, la presenza minacciosa del lupo, il cacciatore, la nonna e il bosco.
Il film non è adatto a bambini o a giovanissimi che non conoscono l'antica fiaba e pensano di trovarla narrata nel film. Non troveranno niente di ciò che scrisse Perrault o i fratelli Grimm. La storia è stravolta al punto tale che Cappuccetto Rosso è stata trasformata da una fiaba a un horror in piena regola. Il rosso che domina non è quello del mantello e del cappuccio della protagonista ma quello del sangue che viene versato.
La protagonista è Valerie, una bellissima ragazza contesa da due uomini. Lei ama Peter ma la sua famiglia ha stabilito che sposerà il ricco Henry. Per fuggire dalle decisioni dei suoi genitori Valerie progetta assieme al suo amato di fuggire ma viene a sapere che sua sorella è stata uccisa dal lupo mannaro che spadroneggia nella foresta che limita con il piccolo villaggio. Per vari anni le genti del villaggio hanno conservato una sorta di tregua con il lupo maligno offrendogli un animale come preda ogni mese. Ma il lupo, immagine della forza bestiale e dell'istinto animale, in concomitanza all'arrivo della Luna Rossa, rompe la tregua uccidendo una vita umana.
Addolorato e in cerca di vendetta il popolo chiama un famoso cacciatore di lupi, Father Solomon, per chiedere lui aiuto nel disfarsi del lupo. Tuttavia l'arrivo del cacciatore al villaggio avrà conseguenze negative in quanto si scoprirà che il lupo durante il giorno assume sembianze umane, che è dunque un licantropo e che quindi può essere ciascuna persona del villaggio. Molte cose nel film fanno pensare a The Village (regia di M. Night Shyamalan, 2006): la presenza del bosco visto come luogo dell'ignoto, del male, come rifugio della bestia; la pericolosità di inoltrarsi nel bosco; il villaggio tenuto sotto scacco dalla violenza animale; il dolore e il massacro; il mantello indossato per inoltrarsi nel bosco e se vogliamo l'isotopia del colore rosso: in Cappuccetto il suo mantello, il sangue che viene versato (la versione italiana del film porta il titolo Cappuccetto Rosso Sangue), in The Village è il colore innominabile. Il mostro sia in Cappuccetto che in The Village ha qualcosa di animale e di umano allo stesso tempo: in Cappuccetto è un uomo-lupo, è un licantropo, in The Village è la maschera dell'animale (di un orso, forse) che viene indossata. In entrambi i casi dunque si ripete la compresenza di bestiale nell'umano e di umano nel bestiale. La figura del licantropo mostra meglio di qualsiasi altra il grande grado di mutevolezza dell'animo umano che va dall'aspetto istintuale (animale) a quello razionale (umano), dalla forza bruta al potere.
Intanto il lupo continua a mietere vittime e Valerie comincia a pensare che possa trattarsi di una persona che conosce molto bene. Altri personaggi intervengono nella storia e ci sono dei veri e propri scontri con il lupo. Nel film non manca neppure la figura della nonna di Cappuccetto Rosso e alla casa della nonna, in mezzo al bosco, si consumerà la fine della storia.
Cappuccetto Rosso Sangue è un film che va visto soprattutto per rendersi conto quanto la regista abbia lavorato creando una storia maledetta e gotica attorno ad una semplice fiaba infantile. Un rewriting notevole ma degno di nota e che non può far a meno di farci tracciare parallelismi, antinomie o analogie tra il film e la fiaba. Gli elementi caratterizzanti della fiaba (il protagonista, il nemico, l'aiutante) sono qui presenti e riadattati alle nuove esigenze della storia. Il licantropismo e la Luna Rossa sono elementi dichiaratamente gotici e che ci rimandano a scenari ricchi di fascino ma capaci di creare tormento e paura, in cui dominano il misterioso e il mostruoso.
Dunque un film ricco di suspense e di momenti di dubbio, espressione della grande tradizione horror e del thriller psicologico. Il vero dramma si diffonde nel momento in cui il villaggio scopre che il mostro è uno di loro e che quindi non è più possibile fidarsi di nessuno. La compattezza e la solidità di un piccolo villaggio viene rotta da questa grave minaccia che solo alla fine potrà essere svelata. Un film dalle tonalità piuttosto fosche e torve, a dispetto del grande utilizzo che vien fatto del colore rosso.


Lorenzo Spurio

(Questo articolo è stato precedentemente pubblicato sul mio blog, http://www.blogletteratura.wordpress.com/ )

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The next three days
di Paul Higgins
con Russel Crowe, Elizabeth Banks, Olivia Wilde
2010 - USA


È il remake di un film francese del 2007 di Fred Cavayé che si intitolava "Pour Elle".
Paul Higgins, che nel 2005 stupì Hollywood dirigendo una pellicola low budget intitolata "Crash - Contatto fisico" che, a sorpresa, vinse l'Oscar come miglior film e miglior sceneggiatura originale, battendo al fotofinish i cowboys gay di Ang Lee, dirige la versione americana di questo thriller tutto sommato avvincente anche se, a tratti, un po' troppo improbabile.
Lara, donna in carriera con tanto di marito e figlio adorati, viene accusata di avere ucciso la sua boss con la quale aveva avuto un aspro diverbio. Il marito John (Russel Crowe) non dubita nemmeno per un millesimo di secondo dell'innocenza della donna, neppure quando le prove la condannano alla prigione a vita. Lara tenta il suicidio (e come darle torto?) e John si trasforma in un borghese nemmeno troppo piccolo piccolo (vista la stazza dell'ex gladiatore) e comincia la sua discesa nei bassifondi di Pittsburgh pur di trovare il modo di far evadere la sua dolce metà.
Ce la farà? Per vostra fortuna il sottoscritto non è colui che ha montato il trailer in cui, praticamente, si vedeva già tutto l'andazzo del film, per cui non svelo nulla e vi invito ad andare a vederlo.
Non è un sommo capolavoro ma fa passare piacevolmente due ore, nonostante qualche sbadiglio sparso qua e là.
Russel Crowe è imbolsito ma in parte, la moglie Elizabeth Banks è brava ed anche molto bella, la suspence regge bene e la morale che invita a credere nel proprio amore e a contare sempre e solo su se stessi è un buon monito per continuare a diffidare della giustizia degli uomini.
Anche le figure di contorno aiutano a dare al film più consistenza e sapore, a cominciare dal padre del protagonista Brian Dehenney, che tutto intuisce ma nulla dice, al cameo dell'ex galeotto Liam Neeson che dà le dritte al protagonista per far fuggire la sua bella.
Certo che l'investigatore zelante che, dopo tre anni, torna sul luogo del delitto (un parcheggio pubblico) a cercare le prove del reato sfiora allegramente il ridicolo.
Ma né più né meno di una qualsiasi puntata del nostro RIS.


Mario Gardini

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UNA NOTTE DA LEONI 2
di Todd Phillips
con Bradley Cooper, Ed Helms, Zach Galifianakis, Justin Bartha
USA - 2011


Il primo "Una notte da leoni" (titolo originale "The hangover", ovvero "Il dopo-sbronza) fu un successo completamente inaspettato, che nel 2009 incassò globalmente quasi 460 milioni di dollari e vinse un Golden Globe come miglior commedia dell'anno.
Normale quindi che, a breve giro di posta, Hollywood ne facesse un sequel.
Che poi, più che un numero due, questa seconda puntata sembra l'esatta copia carbone della precedente.
Se nel primo capitolo si narravano le gesta di un gruppo di amici i quali, festeggiando a Las Vegas l'addio al celibato di uno di loro, si ritrovavano nel bel mezzo di un happening a base di alcol e Rohypnol, smarrendo così lungo il cammino il promesso sposo oltre che la totale cognizione di quanto accaduto durante la festa, in questo seguito i soliti amici, sempre il giorno prima del matrimonio di uno di loro, mangiano marshmallows drogati, finiscono a fare follie a Bangkok e, una volta rinsaviti, devono fare luce sulla scomparsa del sedicenne futuro cognato dello sposo di cui rimane solo un dito.
Sempre diretto da Todd Phillips con il solito gruppo di attori alla "American pie" (tutti perfettamente in ruolo anche se l'unico che si fa notare è Zach Galifianakis nei panni dell'amico un po' idiota dispensatore di psicofarmaci), il film è godibile e divertente anche se, una volta terminati i 100 minuti di proiezione, si fa quasi fatica a ricordare di che cosa parlasse.
Nemmeno i cameo di Paul Giamatti e di Mike Tyson che canta "One night in Bangkok" di Murray Head rendono un po' più gustosa la solita minestra, mentre le splendide immagini dei mari di Thailandia fanno venire una gran voglia di ferie anticipate.
Un monaco votato al silenzio ma non alla santità e una scimmietta spacciatrice chiudono il cerchio, mentre ai titoli di coda viene affidato il compito di raccontarci nei dettagli cosa è accaduto durante la notte brava.
Tra cui anche l'avventura in un bordello con un avvenente transessuale. La cosa più inquietante del film non è scoprire che il futuro sposo ha il vizietto, ma che l'organo genitale del transex sullo schermo viene pixelato per questioni di censura.
Colpa del perbenismo americano o effetto Giovanardi?


Mario Gardini

Contatore visite dal 6 giugno 2011
 
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