In questo numero recensiamo...
"Non habemus Papam"
di
Maria Antonietta Nardone
"Habemus Papam"
Nanni Moretti
(Eurcine, 1)
Parabola con gustose svisate oniriche, piena di
ironia, autoironia e asciutto umanesimo, che
sorprende per l'accuratezza delle immagini e per un
tono lieve, pacato, seppur capace di caustiche
critiche. Qual è il tema principale di questa
parabola? Il disagio di un uomo, che si sente
inadeguato a ricoprire un incarico di enorme
responsabilità. E l'incarico è nientemeno che quello
di essere il capo dei cattolici; i cardinali riuniti
in Conclave, difatti, dopo diverse votazioni,
eleggono Papa il mite e timido cardinale Melville,
il quale ha una crisi che lo porta ad un rifiuto
nevroticamente insuperabile. Per aiutare il
neoeletto Papa a confrontarsi con le sue paure viene
chiamato un noto psicoanalista, considerato il
migliore nel suo campo.
Trovo molto originale l'aver immaginato questo
disagio, e conseguente rifiuto, all'interno della
dirigenza vaticana; aver immaginato un cardinale,
appena eletto Papa, che si sente inadatto, che
riconosce in sé di non riuscire a ricoprire un
simile incarico e, dopo un inatteso periodo di crisi
e di fuga, comunica questa sua incapacità ed
inadeguatezza coram populo, proprio dalla fatidica
loggia dalla quale tutti i fedeli e tutti i
cardinali attendono invece la sua benedizione papale
e pastorale. Che dire? Ingegnosissima idea.
L'originalità di aver immaginato questa crisi e
questo rifiuto in un uomo come il Papa, appunto,
porta ad una virata umanissima, che induce a
riflessioni assai profonde. Faccio solo qualche
esempio: la relazione tra l'assunzione di una
simile, enorme responsabilità ad un'età avanzata
(Melville ha 85 anni), oppure il non sentirsi
caratterialmente un leader quanto piuttosto uno che
segue una via indicata da altri, il percepire
un'antica passione come la recitazione, più viva che
mai, nonostante si sia scelta una strada diversa, o
certe "assenze" della vecchiaia che folgorano d'un
tratto come acutissime presenze, oppure una
gentilezza di temperamento e una timidezza di fondo
che non si conciliano con un ruolo autorevole e
autoritario. Tutto ciò suscita una riflessione fra
ciò che si è e ciò che si è chiamati a diventare,
anche quando questo "diventare" significa sopprimere
quello che si è autenticamente, nel più profondo
della propria anima (intesa in senso junghiano).
Per non parlare della contraddizione che c'è tra
l'umanità di Gesù, di un Dio che si è fatto uomo con
tutte le sue sofferenze e fallibilità, e
l'infallibilità di chi è stato chiamato a guidare la
barca di Pietro, ossia di un uomo che è stato
nominato Papa; mi riferisco qui al dogma
dell'infallibilità pontificia. Se perfino Gesù,
sulla croce, ha paura di essere stato abbandonato da
Dio (straziante quel suo "Elì, Elì, lemà sabactanì"
"Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?") non può
forse un Papa, che è il Vicario di Cristo, avere
paura del compito gravoso che è chiamato a svolgere,
mostrando in questa sua paura tutta la sua fallibile
umanità, piuttosto che un'infallibilità che non è di
questo mondo? Domande che richiedono un
approfondimento che però mi porterebbe troppo
lontano, per lo spazio di queste righe, ma il cui
stimolo è da ascrivere alla visione di questo film.
Un film che si è tenuto fermamente saldo ad un
umanesimo schietto e mai fideistico. Moretti,
giustamente, non si addentra in diatribe spirituali,
teologiche o pastorali. Immagina il neoeletto Papa
come un uomo messo davanti ad una responsabilità per
lui schiacciante, soverchiante e insuperabile. E
questa mi sembra una scelta di un'onestà
intellettuale indubbia, lampante. L'immaginazione di
un regista, non toccato dalla grazia della fede, che
indaga, a suo modo, ossia con il suo sguardo, ripeto
umanissimo, il disagio, la crisi, il rifiuto di un
uomo, che pur toccato dalla fede, non se la sente di
guidare milioni e milioni di credenti sparsi per il
vasto mondo. Un'immaginazione audace, ma sempre
rispettosa, e comunque plausibilissima. Perché, ci
si domanda, un cardinale non può non sentirsi
inadatto a diventare Papa?
Non manca qualche frecciata all'insipienza cialtrona
di certi giornalisti televisivi che riducono riti
antichissimi ad uno spettacolo di bassa fiera
mediatica, ma il tono resta lieve, anche nelle sue
autoironie, in cui il regista accoglie i suoi stessi
vezzi con sorridente benevolenza. Mentre
affettuosissimo mi è parso l'atteggiamento verso i
cardinali riuniti in Conclave, coinvolti peraltro in
spassosissime partite di pallavolo "con girone
all'italiana" (ma perché per l'elezione di un Papa
si muovono i bookmakers e i media di tutto il mondo,
con quotazioni e puntate, e un regista
cinematografico non può immaginare la competitività
tra i cardinali in un'esilarante partita di
pallavolo?). E pieno di comprensione è anche lo
sguardo sulla solitudine dei vecchi cardinali,
abituati appunto ad una lunga vita di solitudine
anche affettiva (quando il cardinal Gregori dà la
buonanotte ai suoi colleghi, aprendo e chiudendo la
porta delle loro camere, vediamo squarci di una
solitudine enorme, una solitudine che fa male; una
solitudine che può portare all'isolamento o al
distacco dalla realtà del mondo, sintetizzato più
tardi in una sola battuta dello psicoanalista
"cardinale, sono cinquant'anni che non si gioca a
palla prigioniera!"). E, nel discorso finale in cui
Melville rifiuta di diventare Papa ed auspica in una
guida capace di portare cambiamenti c'è uno dei
nuclei profondi di questo film di rara sottigliezza:
la necessità del cambiamento. La vita è cambiamento
e per essere vivi bisogna essere aperti al
cambiamento. Diversamente la vita (come la Chiesa)
diventa un arido e vuoto e morto rito. E qui la
psicoanalisi ha ancora molto da far capire,
insegnare e, deo concedente, come direbbe Jung,
curare. Un cambiamento sottolineato anche dalla
canzone "Todo cambia", cantata dalla maestosa
Mercedes Sosa, l'indomita cantora popular argentina
morta un anno e mezzo fa (ascoltare le sue parole
aiuta ad entrare nell'humus di questa parabola);
canzone che tradotta fa così:
"Cambia ciò che è superficiale
e anche ciò che è profondo
cambia il modo di pensare
cambia tutto in questo mondo.
Cambia il clima con gli anni
cambia il pastore il suo pascolo
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Cambia il più prezioso brillante
di mano in mano il suo splendore,
cambia nido l'uccellino
cambia il sentimento degli amanti.
Cambia direzione il viandante
sebbene questo lo danneggi
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia
Cambia, tutto cambia.
Cambia il sole nella sua corsa
quando la notte persiste,
cambia la pianta e si veste
di verde in primavera.
Cambia il manto della fiera
cambiano i capelli dell'anziano
e così come tutto cambia
che io cambi non è strano.
Ma non cambia il mio amore
per quanto lontano mi trovi,
né il ricordo né il dolore
della mia terra e della mia gente.
E ciò che è cambiato ieri
di nuovo cambierà domani
così come cambio io
in questa terra lontana.
Cambia, tutto cambia…"
A me pare che Moretti molto semplicemente abbia
esercitato la sua libertà, senza peraltro
revanscismi di alcun tipo, attenendosi ad un sentire
pieno di pietas ma non credente, eppure rispettoso
di chi crede. Una libertà in cui, modernamente, la
ragione non è subordinata alla fede.
Un film in cui c'è sia il sorriso sia il morso
dell'infelicità e della solitudine, il tutto
raccontato con leggera ed asciutta, virile
pacatezza. Starei quasi per parlare di un tono
riconciliato, se non con il mondo quantomeno con se
stesso. Molto belli ed eleganti i movimenti
d'insieme dei cardinali.
Bravi tutti gli interpreti (indimenticabile il volto
smarrito di Michel Piccoli); grande Jerzy Stuhr, il
portavoce, tanto devoto quanto ambiguo, disposto
anche a mentire per giorni e giorni; grandissimi
Franco Graziosi e Renato Scarpa, i quali essendo
attori teatrali di lunghissimo corso hanno uno
spessore recitativo ed una raffinatezza di tocco
immensi.
* * *
RED
di Robert Schwentke
con Bruce Willis, John Malkovich, Morgan Freeman,
Helen Mirren
USA - 2011
Più che l'ennesimo cinefumetto tratto da una
miniserie di comics di Warren Ellis e Cully Hamner,
questo RED potrebbe essere la prossima campagna
elettorale per il Partito Pensionati.
RED, che sta per Retired Extremely Dangerous (ovvero
"pensionato estremamente pericoloso"), è un film
divertente e fracassone, oltre che un inno di gioia
per tutti gli over 50 i quali, all'urlo di "vecchio
un cazzo!", possono godersi un nutrito stuolo di
attori un po' agè che sparano, incendiano,
distruggono e fanno debita giustizia del solito
sistema politico corrotto americano (magari lo
facessero anche da noi!).
Frank Moses (Bruce Willis) è un annoiato pensionato
che strappa gli assegni della pensione pur di avere
l'occasione di flirtare telefonicamente con
Mary-Louise Parker.
Ma il loro incontro è destinato ad avvenire
nell'arco di pochi fotogrammi. Braccati entrambi da
un gruppo di agenti della CIA che li vuole fare
fuori, i due iniziano a fuggire per tutti gli Stati
d'America.
Moses, ai tempi, aveva lavorato per la CIA, facendo
una serie di sporchi lavoretti che ora gravano sulla
coscienza di un vice Presidente in corsa per le
elezioni.
Quindi urge fare fuori sia lui che tutti i vecchi
compagni di squadra (John Malkovich, Morgan Freeman
e Helen Mirren) per evitare che venga a galla un
increscioso fatto accaduto trent'anni prima in
Guatemala.
Grazie all'aiuto di un ex rivale russo, ora
dolcemente innamorato, e di un giovane agente CIA
ligio al dovere ma non così ottuso da credere solo a
ciò che gli viene detto dall'alto, il team dei
nostri "Oldies but goldies" alla fine avrà la meglio
sui cattivi, rinunciando definitivamente al
pensionamento e ributtandosi a capofitto in una
nuova avventura in Moldavia.
Nonostante tutto il cast sia perfetto ed affiatato,
la parte dei leoni spetta a John Malkovich, per la
prima volta veramente a suo agio in un ruolo comico,
e a Helen Mirren la quale, con estrema classe e
disinvoltura, abbandona i panni della Regina
Elisabetta per indossare quelli della nonna di Lara
Croft.
Ma è una bella emozione ritrovare, seppure in una
piccola e non edificante parte, anche lo
straordinario Richard Dreyfuss, che nel 1988 il
vostro recensore amò follemente nei panni di Aaron
Levinsky, avvocato difensore di una "Pazza" Barbra
Streisand.
Mario Gardini
* * *
THOR
di Kenneth Branagh
con Chris Hemsworth, Natalie Portman, Anthony
Hopkins
USA - 2011
Ora manca solo Capitan America (in uscita alla fine
di luglio) e poi tutti i più importanti super-eroi
della Marvel Comics avranno avuto il loro momento di
gloria sul grande schermo.
Alcuni in maniera ottimale (Iron Man, Spiderman,
X-Men), altri con un profilo decisamente più basso
(I Fantastici 4, Daredevil, Hulk).
A quale di queste due categorie appartiene il THOR
diretto nientepopodimeno che dal genio
shakespeariano di Kenneth Branagh?
Direi decisamente alla seconda.
Nato dalla penna di Stan Lee nel 1962, Thor racconta
le gesta del dio del tuono e del lampo della
mitologia norrena il quale, insieme al suo magico
martello, viene bandito dal padre Odino sulla Terra
e diventa amico e protettore della razza umana.
Perseguitato dalle autorità e salvato da un gruppo
di studiosi di astrofisica, Thor combatte per
ritornare nel regno di Asgdar, salvare la vita al
padre in coma ed impedire che il fratellastro Loki
faccia comunella con il cattivo Laufey, re dei
giganti di ghiaccio.
Supportato da uno stuolo di amici fedeli giunti
sulla Terra per riportarlo a casa, Thor mostra i
bicipiti, combatte contro il Distruttore e sacrifica
la propria vita alla causa, dimostrando così a Odino
di non essere più il ragazzo impulsivo e poco
assennato che si era meritato l'esilio.
Ora potrà tornare nel suo regno, anche se la
battaglia finale gli precluderà la possibilità di
ricongiungersi alla bella scienziata con la quale,
nel frattempo, ha intrecciato una liaison.
Nonostante la presenza di due premi Oscar quali
Anthony Hopkins e Natalie Portman, THOR è un
fumettone con molto fumo e poco arrosto che induce
più allo sbadiglio che all'applauso.
Privo dell'ironia di un Iron Man (ma lì c'è un
Robert Downey Jr e non un culturista totalmente
inespressivo come Chris Hemsworth) o della
malinconia esistenziale del Tobey Maguire di
Spiderman (anche se l'anno prossimo si prospettano
guai con il quarto capitolo della serie dal cast
totalmente rinnovato) , THOR è una girandola visiva
che dà il meglio di sé, in versione 3D, nelle scene
intergalattiche prive di presenze umane.
Visto il successo internazionale del film (345
milioni di dollari in due settimane), c'è da
aspettarsi a breve un sequel.
Datemi un martello… che cosa ne vuoi fare?
Darlo in testa a Kenneth Branagh, per fargli capire
che un film di puro intrattenimento americano non va
trattato come la versione a fumetti dell'Amleto.
Mario Gardini
* * *
Cappuccetto rosso sangue (2011)
Regia di: Catherine Hardwicke
Paese: Usa
La famosa fiaba di Cappuccetto Rosso scritta dai
fratelli Grimm e conosciuta da tutti attraverso la
realizzazione della fiaba in cartone animato verrà
proposta in un film diretto dalla regista Catherine
Hardwicke. Il film dal titolo Red Riding Hood è
uscito nelle sale americane l'11 marzo 2011 e in
Regno Unito è uscito oggi, 15 aprile 2011. Nelle
sale italiane l'uscita del film è prevista per il 22
aprile 2011 col titolo Cappuccetto Rosso Sangue.
In realtà la fiaba di Cappuccetto Rosso non venne
scritta dai fratelli Grimm ma dal favolista francese
Charles Perrault dal quale venne ripresa e
riadattata, così come molte altre celebri fiabe.
Il film può essere catalogato come un dark fantasy.
La componente fantastica della fiaba è ben nota a
tutti: il lupo parlante incontrato nel bosco, il
lupo che mangia Cappuccetto Rosso e la nonna ma è
riadattata non in una semplice storiella edificante
per bambini ma in una dark story nella quale si
sottolineano gli aspetti più gotici, inquietanti e
paurosi della vicenda stessa. Nel compaiono nuovi
personaggi e nuove vicende che li legano ma alcuni
elementi fondanti della fiaba rimangono: Cappuccetto
Rosso, la presenza minacciosa del lupo, il
cacciatore, la nonna e il bosco.
Il film non è adatto a bambini o a giovanissimi che
non conoscono l'antica fiaba e pensano di trovarla
narrata nel film. Non troveranno niente di ciò che
scrisse Perrault o i fratelli Grimm. La storia è
stravolta al punto tale che Cappuccetto Rosso è
stata trasformata da una fiaba a un horror in piena
regola. Il rosso che domina non è quello del
mantello e del cappuccio della protagonista ma
quello del sangue che viene versato.
La protagonista è Valerie, una bellissima ragazza
contesa da due uomini. Lei ama Peter ma la sua
famiglia ha stabilito che sposerà il ricco Henry.
Per fuggire dalle decisioni dei suoi genitori
Valerie progetta assieme al suo amato di fuggire ma
viene a sapere che sua sorella è stata uccisa dal
lupo mannaro che spadroneggia nella foresta che
limita con il piccolo villaggio. Per vari anni le
genti del villaggio hanno conservato una sorta di
tregua con il lupo maligno offrendogli un animale
come preda ogni mese. Ma il lupo, immagine della
forza bestiale e dell'istinto animale, in
concomitanza all'arrivo della Luna Rossa, rompe la
tregua uccidendo una vita umana.
Addolorato e in cerca di vendetta il popolo chiama
un famoso cacciatore di lupi, Father Solomon, per
chiedere lui aiuto nel disfarsi del lupo. Tuttavia
l'arrivo del cacciatore al villaggio avrà
conseguenze negative in quanto si scoprirà che il
lupo durante il giorno assume sembianze umane, che è
dunque un licantropo e che quindi può essere
ciascuna persona del villaggio. Molte cose nel film
fanno pensare a The Village (regia di M. Night
Shyamalan, 2006): la presenza del bosco visto come
luogo dell'ignoto, del male, come rifugio della
bestia; la pericolosità di inoltrarsi nel bosco; il
villaggio tenuto sotto scacco dalla violenza
animale; il dolore e il massacro; il mantello
indossato per inoltrarsi nel bosco e se vogliamo l'isotopia
del colore rosso: in Cappuccetto il suo mantello, il
sangue che viene versato (la versione italiana del
film porta il titolo Cappuccetto Rosso Sangue), in
The Village è il colore innominabile. Il mostro sia
in Cappuccetto che in The Village ha qualcosa di
animale e di umano allo stesso tempo: in Cappuccetto
è un uomo-lupo, è un licantropo, in The Village è la
maschera dell'animale (di un orso, forse) che viene
indossata. In entrambi i casi dunque si ripete la
compresenza di bestiale nell'umano e di umano nel
bestiale. La figura del licantropo mostra meglio di
qualsiasi altra il grande grado di mutevolezza
dell'animo umano che va dall'aspetto istintuale
(animale) a quello razionale (umano), dalla forza
bruta al potere.
Intanto il lupo continua a mietere vittime e Valerie
comincia a pensare che possa trattarsi di una
persona che conosce molto bene. Altri personaggi
intervengono nella storia e ci sono dei veri e
propri scontri con il lupo. Nel film non manca
neppure la figura della nonna di Cappuccetto Rosso e
alla casa della nonna, in mezzo al bosco, si
consumerà la fine della storia.
Cappuccetto Rosso Sangue è un film che va visto
soprattutto per rendersi conto quanto la regista
abbia lavorato creando una storia maledetta e gotica
attorno ad una semplice fiaba infantile. Un
rewriting notevole ma degno di nota e che non può
far a meno di farci tracciare parallelismi,
antinomie o analogie tra il film e la fiaba. Gli
elementi caratterizzanti della fiaba (il
protagonista, il nemico, l'aiutante) sono qui
presenti e riadattati alle nuove esigenze della
storia. Il licantropismo e la Luna Rossa sono
elementi dichiaratamente gotici e che ci rimandano a
scenari ricchi di fascino ma capaci di creare
tormento e paura, in cui dominano il misterioso e il
mostruoso.
Dunque un film ricco di suspense e di momenti di
dubbio, espressione della grande tradizione horror e
del thriller psicologico. Il vero dramma si diffonde
nel momento in cui il villaggio scopre che il mostro
è uno di loro e che quindi non è più possibile
fidarsi di nessuno. La compattezza e la solidità di
un piccolo villaggio viene rotta da questa grave
minaccia che solo alla fine potrà essere svelata. Un
film dalle tonalità piuttosto fosche e torve, a
dispetto del grande utilizzo che vien fatto del
colore rosso.
Lorenzo Spurio
(Questo articolo è stato precedentemente
pubblicato sul mio blog,
http://www.blogletteratura.wordpress.com/ )
* * *
The next three days
di Paul Higgins
con Russel Crowe, Elizabeth Banks, Olivia Wilde
2010 - USA
È il remake di un film francese del 2007 di Fred
Cavayé che si intitolava "Pour Elle".
Paul Higgins, che nel 2005 stupì Hollywood dirigendo
una pellicola low budget intitolata "Crash -
Contatto fisico" che, a sorpresa, vinse l'Oscar come
miglior film e miglior sceneggiatura originale,
battendo al fotofinish i cowboys gay di Ang Lee,
dirige la versione americana di questo thriller
tutto sommato avvincente anche se, a tratti, un po'
troppo improbabile.
Lara, donna in carriera con tanto di marito e figlio
adorati, viene accusata di avere ucciso la sua boss
con la quale aveva avuto un aspro diverbio. Il
marito John (Russel Crowe) non dubita nemmeno per un
millesimo di secondo dell'innocenza della donna,
neppure quando le prove la condannano alla prigione
a vita. Lara tenta il suicidio (e come darle torto?)
e John si trasforma in un borghese nemmeno troppo
piccolo piccolo (vista la stazza dell'ex gladiatore)
e comincia la sua discesa nei bassifondi di
Pittsburgh pur di trovare il modo di far evadere la
sua dolce metà.
Ce la farà? Per vostra fortuna il sottoscritto non è
colui che ha montato il trailer in cui,
praticamente, si vedeva già tutto l'andazzo del
film, per cui non svelo nulla e vi invito ad andare
a vederlo.
Non è un sommo capolavoro ma fa passare
piacevolmente due ore, nonostante qualche sbadiglio
sparso qua e là.
Russel Crowe è imbolsito ma in parte, la moglie
Elizabeth Banks è brava ed anche molto bella, la
suspence regge bene e la morale che invita a credere
nel proprio amore e a contare sempre e solo su se
stessi è un buon monito per continuare a diffidare
della giustizia degli uomini.
Anche le figure di contorno aiutano a dare al film
più consistenza e sapore, a cominciare dal padre del
protagonista Brian Dehenney, che tutto intuisce ma
nulla dice, al cameo dell'ex galeotto Liam Neeson
che dà le dritte al protagonista per far fuggire la
sua bella.
Certo che l'investigatore zelante che, dopo tre
anni, torna sul luogo del delitto (un parcheggio
pubblico) a cercare le prove del reato sfiora
allegramente il ridicolo.
Ma né più né meno di una qualsiasi puntata del
nostro RIS.
Mario Gardini
* * *
UNA NOTTE DA LEONI 2
di Todd Phillips
con Bradley Cooper, Ed Helms, Zach Galifianakis,
Justin Bartha
USA - 2011
Il primo "Una notte da leoni" (titolo originale "The
hangover", ovvero "Il dopo-sbronza) fu un successo
completamente inaspettato, che nel 2009 incassò
globalmente quasi 460 milioni di dollari e vinse un
Golden Globe come miglior commedia dell'anno.
Normale quindi che, a breve giro di posta, Hollywood
ne facesse un sequel.
Che poi, più che un numero due, questa seconda
puntata sembra l'esatta copia carbone della
precedente.
Se nel primo capitolo si narravano le gesta di un
gruppo di amici i quali, festeggiando a Las Vegas
l'addio al celibato di uno di loro, si ritrovavano
nel bel mezzo di un happening a base di alcol e
Rohypnol, smarrendo così lungo il cammino il
promesso sposo oltre che la totale cognizione di
quanto accaduto durante la festa, in questo seguito
i soliti amici, sempre il giorno prima del
matrimonio di uno di loro, mangiano marshmallows
drogati, finiscono a fare follie a Bangkok e, una
volta rinsaviti, devono fare luce sulla scomparsa
del sedicenne futuro cognato dello sposo di cui
rimane solo un dito.
Sempre diretto da Todd Phillips con il solito gruppo
di attori alla "American pie" (tutti perfettamente
in ruolo anche se l'unico che si fa notare è Zach
Galifianakis nei panni dell'amico un po' idiota
dispensatore di psicofarmaci), il film è godibile e
divertente anche se, una volta terminati i 100
minuti di proiezione, si fa quasi fatica a ricordare
di che cosa parlasse.
Nemmeno i cameo di Paul Giamatti e di Mike Tyson che
canta "One night in Bangkok" di Murray Head rendono
un po' più gustosa la solita minestra, mentre le
splendide immagini dei mari di Thailandia fanno
venire una gran voglia di ferie anticipate.
Un monaco votato al silenzio ma non alla santità e
una scimmietta spacciatrice chiudono il cerchio,
mentre ai titoli di coda viene affidato il compito
di raccontarci nei dettagli cosa è accaduto durante
la notte brava.
Tra cui anche l'avventura in un bordello con un
avvenente transessuale. La cosa più inquietante del
film non è scoprire che il futuro sposo ha il
vizietto, ma che l'organo genitale del transex sullo
schermo viene pixelato per questioni di censura.
Colpa del perbenismo americano o effetto Giovanardi?
Mario Gardini
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