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In questo numero segnaliamo...
Jane Eyre (2011)
Regia di Cary Fukunaga
Paese: Regno Unito / Usa
Recensione di
Lorenzo Spurio
Da grande estimatore e studioso di Jane Eyre,
romanzo vittoriano pubblicato nel lontano 1847 da
Charlotte Brontë, non mi sono perso il nuovo
adattamento cinematografico che ne è stato tratto.
Il film porta l'omonimo titolo del romanzo ed è
firmato dalla regia di Cary Fukunaga; tra gli attori
principali figurano MiaWasikowska (Jane Eyre),
Michael Fassbender (Mr. Rochester), Jamie Bell (St.
John Rivers) e Judi Dench (Mrs. Fairfax).
La sala di proiezione era quasi totalmente desolata,
al massimo dieci persone e l'età media di certo non
era inferiore ai 60-65 anni. Non c'è da
meravigliarsi. Quasi nessuno legge più il romanzo,
figurarsi la gente che va a vedere un film tratto da
una storia che non conosce. Inutile dire che vedendo
il film il mio metro di giudizio, inconsciamente o
forse no, è stato portato a raffrontare il film con
l'altro adattamento cinematografico che ne venne
tratto nel 1996 per la regia di Franco Zeffirelli.
Dirò da subito che, tra i due, ho preferito la
versione di Zeffirelli per vari motivi che cercherò
di spiegare ma un giudizio di questo tipo è
semplicistico. Si deve, infatti, considerare il
nuovo film per quello che è e, magari, rapportarlo
al romanzo e non a un film precedente.
Entrambi i film sono molto fedeli al romanzo della
Brontë e quindi possono eventualmente essere
impiegati come materiale didattico accessorio nel
caso di una divulgazione o di uno studio attento sul
romanzo. La novità del film di Fukunaga rispetto a
quello di Zeffirelli è che non rispetta il normale
svolgimento della storia e quindi il canonico
susseguirsi degli spazi (Gateshead Hall, Lowood,
Thornefield Hall, Moor House, Ferndean Manor). Il
film si apre, infatti, con Jane, ormai grande, che
scappa da Thornefield e corre, sola e sofferente,
per la brughiera per arrivare poi, sfinita e
piangente, a Moor House. Lì viene accudita e
lentamente si riprende dal suo stato; St. John
Rivers le offre di lavorare in una piccola scuola di
villaggio per bambine. Tramite un sistema di
retrospezioni, flashback e ricordi, veniamo a
conoscenza del passato di Jane: prima la sua
infanzia difficile a Gateshead con l'importane
episodio della red room, poi Lowood (e l'amicizia
con Helen Burns) e, infine, tutta la parte
concernete gli episodi di Thornefield sino alla sua
fuga nella brughiera che poi si ricollega alla
storia ufficiale, con il rifiuto di Jane di seguire
St. John Rivers in missione in India e il richiamo
di Rochester. Fukunaga stravolge il canonico
susseguirsi delle fasi di crescita interiore ed
esteriore di Jane per creare una trama più
avvolgente e intricata, in cui forse la comprensione
può essere un pizzico più difficoltosa di quella del
film di Zeffirelli dove lo spettatore segue, invece,
progressivamente e secondo un principio fondato
sulla cronologia, i vari episodi della vita della
protagonista.
Alcune mie personali considerazioni:
- Di Jane Eyre nel romanzo si sottolinea spesso il
fatto che non rappresenti una bellezza femminile
particolarmente attraente, che è magra, mingherlina,
dal viso pallido e dai capelli scuri, descrizione
perfettamente in linea con l'immagine dell'allora
giovanissima attrice francese Charlotte Gainsbourg
che nel film di Zeffirelli interpretava Jane Eyre.
Nel film di Fukunaga, invece, Jane, a mio modo di
vedere, è una bellissima ragazza interpretata
dall'attrice Mia Wasikowska (celebre anche per il
personaggio di Alice in Alice nel paese nelle
meraviglie per la regia di Tim Burton). L'attrice è
bionda o, almeno, castano chiaro e ha gli occhi
celesti, aspetto completamente diverso da quello di
Jane nella Brontë. Di contro, Blanche Ingram che nel
romanzo viene detto esser bionda (com'è anche nel
film di Zeffirelli dove si sottolinea la frivolezza
e l'ignoranza del personaggio) nel film di Fukunaga
ha i capelli neri.
- Gli interni di Thornefield Hall nel film di
Zeffirelli sembrano molto più sfarzosi e degni
dell'aristocrazia inglese mentre Thornefield Hall
nel film di Fukunaga sembra un po' meno lussuoso
tanto che la stessa Jane riconosce che la residenza
della zia a Gateshead era di gran lunga più bella.
- Mancano nel film di Fukunaga i personaggi di
Bessie, la governante di Jane (che viene solo
nominata una volta) e della caritatevole Miss Temple,
istitutrice a Lowood.
- Nel film di Fukunaga Mrs. Fairfax rivela a Jane
che non sapeva niente dell'esistenza della prima
moglie del signor Rochester, mentre nel romanzo la
governante era a conoscenza di tutto.
- Nel finale del film di Fukunaga non è un anziano
della zona, come nel romanzo, a rivelare a Jane che
Thornefield Hall è andato a fuoco e che il padrone è
rimasto ferito ma è lei stessa che entra nel
castello ormai annerito e in macerie e trova Mrs.
Fairfax forse lì giunta per recuperare qualcosa del
vecchio castello.
- Nel film di Fukunaga, Mr. Rochester perde la vista
ma non soffre l'amputazione di un arto a seguito del
crollo del castello. Il film si chiude con la coppia
che si scambia il proprio amore. Ferndean Manor, la
nuova residenza, non viene mai nominata. Non vediamo
la coppia avere dei figli, né tantomeno Rochester
riacquistare la vista.
- I personaggi meglio costruiti e più fedeli alle
descrizioni della Brontë sono Mrs. Fairfax, Helen
Burns e Brocklehurst (al quale tuttavia viene dato
più spazio nel film di Zeffirelli). Pochissima
attenzione viene riservata invece a Grace Poole
(personaggio molto importante) e a Bertha Mason.
Quest'ultima viene mostrata solo una volta, nella
scena in cui Rochester, dopo il matrimonio negato,
fa vedere a Jane, al legale e al fratello di Bertha,
chi è sua moglie. Bertha non ha sembianze
animalesche (non fa dei versi) né tantomeno selvagge
ed è, invece, raffigurata come una donna addirittura
attraente. Poco spazio viene riservato però a questo
personaggio, ad esempio l'episodio del velo nunziale
rotto da parte di Bertha è completamente assente.
- Una signora seduta a vedere il film qualche fila
dietro della mia quando ha visto Bertha ha detto ad
alta voce "la matta" con un fare offensivo e
denigratorio, per marchiarla o etichettarla come
degenerata, perversa. Le avrei detto con molto
piacere che l'origine della sua pazzia era proprio
il signor Rochester e che lei era stata sradicata
dalla sua terra, mercificata e tenuta in schiavitù.
Avrei, insomma, cercato di farle capire che, forse,
era errato e fuorviante vedere Bertha come il
marchio del Male, come una sorta di Satana, solo
perché il motivo dell'inghippo del matrimonio tra
Rochester e Jane. Avrei voluto dirle di leggersi Il
gran mare dei Sargassi della Rhys, tanto per farsene
un'idea. In questo, nella creazione del personaggio
di Bertha, in effetti, la Brontë è stata
marcatamente etnocentrica, istituendo una
significativa discriminazione razziale, come ho
anche avuto modo di sottolineare nella mia raccolta
di saggi: Jane Eyre, una rilettura contemporanea,
Lulu Edizioni, 2011, pp. 101, ISBN: 9781447794325).
- Richard Mason, fratello di Bertha, che viene dalla
Jamaica, contrariamente a quanto narra la Brontë (e
contrariamente all'adattamento di Zeffirelli), non
ha una carnagione scura in quanto esponente della
componente creola dell'isola ma ha una carnagione
molto chiara.
- St. John Rivers e le sue sorelle, che nel romanzo
poi scoprono di essere cugini di Jane, nel film di
Fukunaga rimangono suoi amici, senza vincoli di
parentela, con i quali decide però di dividere
equamente la sua eredità ottenuta con la morte dello
zio John Eyre di Madeira.
Un buon film che consiglio a tutti coloro che
conoscono il romanzo e ne apprezzano le qualità. La
realizzazione di Zeffirelli resta, secondo me, la
migliore in assoluto per una serie di elementi che
ho cercato di tratteggiare e anche per la
prestigiosa e azzeccatissima presenza di William
Hurt nelle vesti di Rochester, che appare più
interessante, più aristocratico, più austero e
romantico, più inglese, più brontiano.
LORENZO SPURIO
10-09-2011
* * *
IL RE LEONE 3D
di Roger Allers, Rob Minkoff
USA - 1994
Quando uscì, nel lontano 1994, "Il re leone"
rappresentò un'autentica scommessa per la Disney.
Reduce da un glorioso ritorno agli antichi fasti
grazie a film come "La sirenetta", "La bella e la
bestia" e "Alladin", la casa madre di Topolino si
trovò di fronte ad un film molto più complesso che
abbinava le atmosfere da musical all'antica tragedia
in stile Shakespeare.
Jeffrey Katzenzberg, che ai tempi supervisionava
tutti i cartoni animati della Disney, pare che disse
"Se con questo film portiamo a casa 50 milioni di
dollari, possiamo considerarci fortunati". A tutt'oggi,
"Il re leone" ha guadagnato nel mondo più di 930
milioni di dollari, diventando il cartone animato in
2D più visto della storia.
Purtroppo questo film rappresentò anche l'inizio
della discesa dell'impero Disney. Katzenberg, non
sentendosi sufficientemente apprezzato in casa
Disney, mollò tutto e fondò la Dreamworks con Steven
Spielberg e David Geffen.
I cartoni animati Disney degli anni successivi non
sfiorarono minimamente il successo de "Il re leone",
almeno fino all'avvento dell'epoca Pixar, grazie a
successi planetari come "Alla ricerca di Nemo" e "Toy
story 3".
La trama de "Il re leone" è ormai celeberrima.
Simba è figlio di Mufasa, il re della foresta. La
sua nascita soffia il trono al perfido Scar,
fratello di Mufasa, il quale decide di commettere
fratricidio con l'aiuto di tre iene (i personaggi
più simpatici del film).
Raggiunto lo scopo, Scar riempie il piccolo Simba di
sensi di colpa e lo spinge a fuggire via dal regno.
Simba sopravvive grazie all'aiuto di due amici, un
suricato e un facocero, fino a quando tutta una
serie di eventi lo spingono a tornare a casa,
affrontare lo zio, sposare l'amica d'infanzia e
riprendere il suo posto all'interno del cerchio
della vita.
I riferimenti all'Amleto sono forti, ma il film è
anche un bellissimo invito a combattere per se
stessi e per superare i traumi che bloccano la
nostra naturale evoluzione.
Uno dei maggiori punti di forza del film fu la
colonna sonora, ad opera di Elton John e Tim Rice,
la quale vendette solo negli Stati Uniti più di
dieci milioni di copie e vinse due premi Oscar.
In Italia Mufasa fu doppiato da Vittorio Gassman
mentre in America la iena Shenzi era
un'irresistibile Whoopi Goldberg.
Ora il film è stato rifatto in 3D.
L'idea in America era quello di rimetterlo nelle
sale solo per due settimane, più per promuovere il
lancio del DVD che per altri scopi di marketing.
Ma, visto il successo, le due settimane iniziali
sono aumentate e "Il re leone" si è portato a casa
altri 90 milioni di dollari.
L'effetto 3D non è eccezionale, proprio per il fatto
che ai tempi il film non era stato realizzato con le
apposite tecniche, ma alcune inquadrature, come
quelle del volo degli aironi all'inizio, sono
davvero emozionanti.
Comunque sia, è sempre un piacere rivedere questo
film. Fa ridere, piangere, coinvolge con i suoi
simpaticissimi personaggi e con alcune tra le
migliori canzoni mai sentite in un musical Disney.
Inoltre potrebbe essere il capostipite di tutta una
serie di classici rivisitati in 3D.
Sarebbe bello poter ammirare sul grande schermo, con
tanto di occhialini, film come "La carica dei 101",
"Gli aristogatti" o "Lilli e il vagabondo".
Ma anche gioielli più recenti, tipo "Mulan" o "Lilo
e Stitch".
Ad ogni modo, quando tutto va male, ripetete a mo'
di mantra "Hakuna matata".
Magari funziona!
Mario Gardini
* * *
MELANCHOLIA
di Lars von Trier
con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer
Sutherland
2011 - Danimarca Svezia Francia, Germania
Che Lars von Trier sia un regista polemico,
eccessivo e a tratti anche scomodo, è fuori
discussione. Che però non sempre la sua fama sia
all'altezza del suo talento, anche questo è, a mio
modesto avviso, un altro dato di fatto.
Del regista ho amato, otto anni fa, il
particolarissimo "Dogville", ma dopo di allora non
sono più riuscito a trovare quel lampo di geniale
follia che aveva contraddistinto il film senza
scenografia con Nicole Kidman.
Il regista non nutre alcuna speranza nei confronti
del genere umano e del futuro del nostro pianeta.
Però questo non lo autorizza di certo a rilasciare
interviste come quella fatta all'ultimo Festival di
Cannes in cui simpatizzava con Hitler, guadagnandosi
l'espulsione dalla Croisette in qualità di "persona
non gradita".
"Melancholia" prosegue il cammino iniziato nel 2009
con "Antichrist", di cui si porta dietro la
protagonista Charlotte Gainsbourg.
Dialoghi, situazioni, personaggi sono tutti al di
sopra delle righe. Anche il modo di girare è
particolare, fatto apposta per generare nello
spettatore un senso di fastidio visivo.
Io, per esempio, ho dovuto guardare mezzo film ad
occhi chiusi per sopportare il senso di nausea che
mi generavano sia i colori che i movimenti della
macchina da presa.
La storia è semplice e si divide in due parti.
La prima si intitola "Justine" e racconta del
matrimonio di questa ragazza (Kirsten Dunst) nella
suntuosa villa del cognato (Kiefer Sutherland).
Nonostante i tentativi della sorella (Charlotte
Gainsbourg) di rendere tutto perfetto, Justine è
apatica e infelice. Che sia di colpa di Melancholia,
pianeta azzurro che si sta avvicinando alla Terra in
maniera preoccupante?
La famiglia intorno di certo non aiuta, a cominciare
da una madre egoista (Charlotte Rampling) fino a un
padre puttaniere (John Hurt).
Justine, nella sua infelicità, tradisce subito la
prima notte di nozze il bel marito premuroso il
quale, alla fine della cerimonia, deciderà di
andarsene, lasciando la ragazza in uno stato di
atarassia.
La seconda parte del film si intitola "Claire" e dà
più rilievo alla figura della sorella.
Prigioniera in una gabbia dorata fatta di agi e
poche certezze, ha un figlio piccolo e continua ad
informarsi su internet riguardo a Melancholia.
Terrorizzata dall'imminente fine del mondo, fa
scorta di medicinali per un eventuale suicidio in
caso di disastro planetario.
A nulla servono le rassicurazioni del marito: mentre
Justine, ormai ospite fissa nella villa, affronta
l'ineluttabile destino con distaccato cinismo,
Claire trepida, piange, s'illude.
Finché alla fine, davanti al cadavere del marito che
ha usato i suoi tranquillanti per uccidersi, decide
di reagire. Insieme alla sorella e la figlio,
costruisce un piccolo rifugio con i rami degli
alberi e lì, uniti in cerchio, i tre attendono
l'impatto finale.
Lars von Trier dà la sua personale visione del 2012.
A noi poveri spettatori, provati dalla durata del
film e dalle inquadrature mosse, non resta che
toccarci e cantare come Caparezza "Goodbye
Malinconia".
Kirsten Dunst, premio come miglior attrice al
Festival di Cannes, si dà un gran da fare per
passare dalla depressione alla catatonia, accettando
pure di sdraiarsi tutta nuda in un bosco di notte,
mentre Kiefer Sutherland cerca di rifarsi una
verginità cinematografica dopo essere stato Jack
Bauer per le otto stagioni televisive di "24".
Ma la più brava di tutti è Charlotte Gainsbourg,
sempre più simile a sua madre Jane Birkin, attrice e
cantante che, nel lontano 1969, fece scandalo
interpretando il brano "Je t'aime… moi non plus"
insieme a Serge Gainsbourg (suo compagno di allora e
futuro padre di Charlotte).
Papa Paolo VI giunse addirittura a scomunicarne
autori, interpreti e produttori.
Ma era più facile prendersela con una canzone che
affrontare i preti pedofili americani.
Mario Gardini
* * *
ONE DAY
di Lone Scherfig
con Anne hathaway, Jim Sturgess, Patricia Clarkson,
Rafe Spall
Gran Bretagna - 2011
Il libro di David Nicholls è stato un buon successo
anche in Italia edito da Neri Pozza grazie al
passaparola che l'ha fatto diventare, in breve
tempo, un buon argomento da salotto per signore.
Infatti il romanticismo della trama attrae
maggiormente un target femminile anche se,
personalmente, ne ho apprezzato il sense of humor e
la capacità di saper tenere un perfetto equilibrio
tra dramma e commedia.
Logicamente non poteva mancare la trasposizione
cinematografica ad opera di Lone Scherfig, una
regista danese che si fece notare un paio di anni fa
per l'interessante "An education" sceneggiato dallo
scrittore Nick Hornby (Alta fedeltà, About a boy).
La trama richiama un po' "Lo stesso giorno, il
prossimo anno", una piece teatrale di Bernard Slade
che fu già portata sullo schermo nel 1978 da Robert
Mulligan e che in Italia è stata a più riprese
portata in teatro da attori come Enrico Maria
Salerno, Giovanna Ralli, Marco Columbro e Maria
Amelia Monti.
Rispetto al libro, mancano certe profondità
caratteriali.
Però chi non lo ha letto non potrà fare a meno di
parteggiare per i due giovani protagonisti che, dopo
essersi incontrati una singola notte festeggiando
così la loro laurea, si inseguono per vent'anni di
vita, incontrandosi sempre il 15 luglio, dal 1988 in
poi.
Emma (Anne Hathaway) è bella, ribelle, arriva da
Edimburgo e vuole conquistare Londra con i suoi
libri, anche se poi finirà per trovarsi a lungo
incastrata in un ristorante messicano con un
fidanzato aspirante comico; Dexter (Jim Sturgess) è
ricco, affascinante, viziato e disattende le attese
della famiglia diventando il conduttore televisivo
di una trasmissione trash.
Alcol e droghe bloccheranno la sua ascesa e faranno
franare il suo matrimonio mentre Emma, finalmente
libera dai vicoli di una relazione che non aveva
alcun senso di esistere, riuscirà a coronare il suo
sogno di diventare una scrittrice per bambini.
Ciò la porterà a Parigi dove Dexter la raggiungerà
e, finalmente, dopo anni di incontri, scontri,
inseguimenti e notti "one shot", i due capiranno ciò
che noi spettatori abbiamo già capito dalla prima
inquadratura del film: che i due sono innamorati
pazzi l'uno dell'altra.
Niente "happy end" per questa storia d'amore poco
convenzionale. Ciò che il destino regala, se lo
riprende con gli interessi. Rimane solo il conforto
della memoria, perché non tutti a questo mondo hanno
il privilegio di avere un grande amore da ricordare.
Anne Hathaway è, come sempre, bella e brava. Jim
Sturgess, che già ci era piaciuto in "Across the
universe" e "21", è perfetto per la parte e diventa
sempre più sexy man mano che il trucco
cinematografico lascia i segni del tempo sul suo
viso.
Ma le figure più belle del film sono due: la mamma
di Dexter (Patricia Clarkson), capace di amare e non
giudicare il figlio anche nei suoi fallimenti, e Ian
(Rafe Spall), perdutamente innamorato di Emma e
infelicemente consapevole di essere condannato al
ruolo di eterno secondo.
La colonna sonora spazia da Tracy Chapman agli Snap!
e Robbie Williams mentre sullo schermo vediamo
trascorrere i migliori anni della nostra vita con un
misto di tenerezza e di rimpianto.
Il monito del film è sempre quello del "Carpe diem"
di Orazio: godiamoci ogni singolo giorno che la vita
ci regala, senza accontentarci di essere felici solo
una volta ogni tanto.
Beato chi ci riesce!
Mario Gardini
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SISTER ACT IL MUSICAL
con Loretta Grace, Dora Romano, Laura Galigani
Teatro Nazionale - Milano
Quando uscì nel 1992, il film "Sister act" (in
Italia stupidamente accompagnato dal sottotitolo
"Una svitata in abito da suora") guadagnò in tutto
il mondo circa 230 milioni di dollari.
Un risultato davvero straordinario se si pensa che
era un film dal budget limitato che la Disney aveva
pensato per Bette Midler la quale, invece, diede
forfait a favore di "For the boys" che affossò la
sua carriera di attrice.
Così il suo posto fu preso da Woophi Goldberg, che
divenne nell'arco di un film la star di colore più
pagata di Hollywood.
La trama è molto esile.
Deloris Van Cartier (la Goldberg) è una cantante di
terz'ordine che si esibisce a Reno scimmiottando
Diana Ross in un casinò di proprietà del suo amante
mafioso.
Il giorno in cui vede il suo amante uccidere uno
scagnozzo, Deloris diventa una testimone oculare che
va protetta e tenuta nascosta fino all'inizio del
processo.
Così la polizia la relega in un convento di monache
prossimo alla chiusura per mancanza di fondi.
L'iniziale disperazione della cantante viene man
mano placata dal calore delle consorelle, ignare
della sua reale natura, alle quali Deloris insegna a
cantare, trasformando il loro coro sgangherato in
un'attrazione a livello nazionale. Peccato che, con
la fama ed i soldi, arrivino anche i media e così la
copertura di Deloris va (è proprio il caso di dirlo)
a farsi benedire.
Boss e scagnozzi sbarcano al convento per farla
fuori, ma dovranno vedersela con tutte le suore ben
decise a salvare la nuova amica.
Gran finale con coro gospel scatenato alla presenza,
nientepopodimeno, che del Santo Padre.
Il punto di forza del film erano le canzoni, tutte
già famose negli anni 60 e 70, con i testi
riadattati per diventare perfetti canti di chiesa.
Purtroppo, nel musical, tutte queste canzoni sono
sparite e, al loro posto, è stata introdotta una
colonna sonora di tutto rispetto firmata da Alan
Menken (La sirenetta, La bella e la bestia, La
piccola bottega degli orrori).
Però un pizzico di delusione rimane perché almeno "I
will follow him" poteva essere salvata, magari come
chiusura dello show.
Detto questo, il musical è divertente, con un ritmo
incalzante e tante canzoni capaci di entrare
nell'orecchio già al primo ascolto, tradotte in modo
impeccabile da Franco Travaglio.
Gli attori sono tutti bravi e non fanno rimpiangere
il cast del film.
Loretta Grace nei panni di Deloris sfodera una voce
blues da fare paura mentre la Madre Superiore, che
sullo schermo era l'eccezionale Maggie Smith, trova
in Dora Romano il suo perfetto alter ego.
Anche Laura Galigani, nei panni si Suor Maria
Roberta, non fa assolutamente rimpiangere
l'originale Wendy Makkena.
Un applauso anche ai tre scagnozzi: il loro numero,
in perfetto stile Bee Gees, è tra i più riusciti del
musical.
Whoopi Goldberg è tra le produttrici di questo
musical divino che mette le paillettes perfino sulla
statua della Vergine Maria e che solo a Londra ha
richiamato più di un milione di spettatori.
Nel finale anche un piccolo tributo alla mia amata
Donna Summer. Chi non sa a memoria la sua "MacArthur
Park", merita un anno di convento!
Mario Gardini
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