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"Jung animista?"
Omaggio a C.G.Jung in occasione del 50°
anniversario della morte
Il 2011 è il 50' anniversario
della scomparsa di C.G.Jung e oggi abbiamo voluto
rendere omaggio a quel che viene considerato uno dei
più grandi pensatori di tutti i tempi. Sarà una
occasione per tornare su alcuni punti
particolarmente importanti del suo pensiero e
tentare di attualizzarli, magari alla luce di
considerazioni tratte dalla moderna antropologia.
Figura poliedrica, al contempo medico, psichiatra,
psicoanalista, mistico, scienziato, scrittore e
filosofo, Jung è stato l'autore di un significativo
ampliamento dei confini della concezione
dell'inconscio. A lui si deve la formulazione di
teorie e concetti entrati di diritto nella cultura
moderna. Oggi tutti utilizziamo termini inizialmente
tecnici coniati da Jung, quali: inconscio collettivo
(contrapposto all'inconscio personale studiato da
Freud), archetipo, introversione/estroversione,
sincronicità… In questa sede non potremo di certo
considerare tutta la ricchezza del pensiero
junghiano, e quindi ci concentreremo su di un
aspetto in particolare. Personalmente, almeno fino a
pochi anni fa, ho sempre privilegiato l'aspetto
scientifico dell'opera di Jung, rispetto magari a
quello "mistico" per lo più considerato nel filmato
che vedrete (o ri-vedrete) dopo la mia introduzione.
Questa mia preferenza si spiega facilmente: mentre
l'autore del filmato è un noto studioso di
esoterismo, la mia attività di psicoanalista mi ha
spinto a ricercare strumenti efficaci per la
comprensione delle dinamiche inconsce.
Esiste poi una attualità e validità di Jung dal
punto di vista scientifico che va riaffermata: per
esempio, egli fonda la sua concezione dell'inconscio
collettivo sulla legge della cosiddetta
"ricapitolazione" del biologo tedesco Ernst Haeckel.
Ai tempi di Jung questa legge era solo una ipotesi,
ma oggi la scienza che studia i rapporti tra
l'evoluzione e sviluppo degli organismi, ha
dimostrato che effettivamente "lo sviluppo degli
organismi documenta l'evoluzione della loro specie"
. Affermando che l'inconscio collettivo è ereditato
filogeneticamente, Jung poggia la sua teoria su una
base epistemologica tuttora impeccabile. Altrettanto
impeccabile è la sua definizione di archetipo. La
parola archetipo ha un significato preciso.
Etimologicamente significa "impronta originaria".
Ereditarie non sono le rappresentazioni universali
(le immagini e i motivi che formano i sogni, i
deliri, le fantasie e i prodotti creativi), ma le
tendenze a produrle. Infatti, già nella sua prima
grande opera Simboli della trasformazione (1912),
Jung parla di archetipi nel senso di "disposizioni
innate a produrre idee e motivi di fantasia affini"
(universali). Così, tanto più una problematica
psicologica è inconscia e scollegata dalla
coscienza, quanto più le sue modalità espressive
saranno arcaiche, universali, mitiche. In questo
senso, il mito, con le sue trame e le sue figure
simboliche, può essere infatti considerato da sempre
il ponte che permette alla coscienza dei popoli di
avvicinarsi alla comprensione dell'inconscio.
Un altro concetto innovativo e importante è quello
di "unilateralità" psicologica. Esso ha permesso di
ampliare l'eziologia delle nevrosi. Il disagio
psicologico non deriva più soltanto dalla sessualità
rimossa (Freud), ma anche da potenzialità inespresse
o/e represse che soffrono e chiedono, bussando alla
porta dell'Io (a volte anche pesantemente!) di
essere riconosciute ed integrate nella personalità.
Quante volte capita di sentire persone pronunciare
frasi del tipo: "io sono fatto così e basta" e
portare agli estremi alcuni tratti del loro
carattere. Ebbene, Jung ha avuto l'acutezza di
mettere in relazione questo tipo di atteggiamento
unilaterale con la comparsa di sintomi. Come potete
capire, queste formulazioni rendono ancora meglio
tutta la complessità della psiche umana e
dell'inconscio. Modificano anche la pratica e
l'impostazione analitica, nel senso che l'analisi
per un junghiano non saprebbe limitarsi alla presa
di coscienza del rimosso. L'attenzione in una
analisi junghiana non va rivolta al passato
soltanto, ma anche agli scogli del presente e a
quelle spinte verso il futuro alle quali le
manifestazioni inconsce alludono.
Volendo, si potrebbero cogliere alcuni lievi punti
di contatto anche con il comportamentismo. Potrei
ricordare per esempio l'affermazione di Jung seconda
la quale "il simbolo è sia immagine che
comportamento", sia rappresentazione che spinta
dinamica, e che quindi i due aspetti si influenzano
reciprocamente nella immaginazione. Jung inventò
addirittura una tecnica, quella dell'immaginazione
attiva (di cui riparleremo più avanti), che può
ricordare in un certo senso il ricorso della terapia
cognitivo-comportamentale alla immaginazione per
favorire il superamento di sintomi, per esempio di
fobie. Certo, le finalità differiscono: la prima
lascia il commando all'inconscio e consiste in una
esplorazione dello stesso; la seconda è guidata
consapevolmente e ha uno scopo strettamente
terapeutico.
La recentissima pubblicazione in Italia del Libro
Rosso è un avvenimento importante dal punto di vista
librario e culturale. L'opera illustra molto bene
quella prima esplorazione dell'inconscio, quella
vera e propria discesa ad inferos compiuta da Jung
negli anni immediatamente successivi alla
separazione da Freud e dal Movimento Psicoanalitico
Internazionale, all'incirca dal 1914 al 1930. A
quell'epoca Jung aveva già scritto e affrontato
molti temi, come quello della energia psichica non
sessuale, dei tipi psicologici
(introverso/estroverso) e quindi dei vari
orientamenti della stessa energia psichica,
dell'inconscio collettivo, degli archetipi… Ma fu da
questa lunga, intensa e anche sofferta esperienza
interiore che scaturì quel che per molti autori è
considerata la sua scoperta maggiore: il processo di
individuazione. Molto sinteticamente, "individuarsi"
significa, in senso junghiano, diventare sé stessi
veramente e completamente. Si tratta quindi di un
progressivo approfondimento e completamento della
personalità che approda a quella unione dinamica tra
conscio e inconscio che Jung chiama "Sé" e che
descrive anche, da un punto di vista strutturale,
come "uni-totalità psichica". I mandala, come quelli
riportati da Jung nel Libro Rosso, in quanto
immagini di un centro armonicamente strutturato,
sono delle raffigurazioni simboliche del Sé. E
disegnare o dipingere mandala per lungo tempo
favorisce la realizzazione del Sé.
Mandala eseguiti da Jung e inseriti nel Libro Rosso
Il processo di individuazione tuttavia,
contrariamente a quanto molti hanno affermato, non
inizia dal confronto con l'Ombra (la parte negativa
di sé, costituita dalle debolezze, le mancanze, i
difetti, i ricordi penosi, i pensieri immorali, i
lati meno differenziati e le tendenze generiche al
Male'pulsioni di morte - Freud), ma dalla
disidentificazione dai modelli esteriori, quanto mai
forti e diffusi nella moderna "società
dell'informazione". Molte persone oggi rimangono
impigliate fino a tarda età a questi modelli
esteriori. Il che preclude loro l'individuazione.
Nella prima opera in cui Jung tratta in modo
sistematico (con uno stile lineare, contrariamente
al suo solito) dell'individuazione, L'Io e
l'inconscio, troviamo tutto un capitolo dedicato al
tema della disidentificazione dalla Maschera. Noi
tutti abbiamo bisogno di maschere per inserirci
nella società, e difatti ne usiamo molte, a volte
senza rendercene conto; ci identifichiamo a ruoli e
a modelli, seguiamo le mode… Per dirla con Heidegger,
inseguiamo il principio del "si pensa, si dice, si
fa, si deve…" lasciandoci surdeterminare dal sistema
e affogando così la nostra individualità in una
dimensione collettiva, la quale a prima vista
parrebbe più simile ad un conscio che ad un
inconscio collettivo. Ma per Jung quell'adeguamento
ai modelli esteriori è reso pur sempre possibile da
un archetipo: quello della Persona . In pratica,
possiamo usare maschere diverse, più o meno
appropriate, elaborate, ma l'atteggiamento
psicologico fondamentale che sottende tutte le
maschere è La Persona. Da lì si capisce meglio la
contrapposizione junghiana tra persona e individuo e
l'individuazione concepita come un percorso che
porta necessariamente ad un allontanamento dai
sentieri battuti.
Il punto di partenza per capire sia l'elaborazione
teorica che la ricerca interiore di Jung è lo
stesso: il divario da Freud. Come è poi capitato a
numerosi analisti, studiosi e semplici lettori, Jung
non si riconosceva totalmente nella psicoanalisi
classica. In poche parole, la concezione freudiana
dell'inconscio gli risultava stretta. Di fronte alla
posizione rigida di Freud che affermava la necessità
di salvaguardare il "dogma" della teoria sessuale
delle nevrosi, Jung tentò inizialmente di trovare
delle mediazioni. La sua concezione
dell'indipendenza funzionale, che afferma che
sebbene in origine l'energia che ci muove è
sessuale, una volta strutturatasi in funzione di uno
scopo diverso (per esempio sociale o culturale),
essa non può più essere considerata sessuale .
Diversamente, aggiunge Jung, sarebbe come
considerare la cattedrale di Colonia come un testo
di mineralogia con il pretesto che è costituita in
massima parte di pietre. Ciononostante, e
probabilmente a causa anche di problematiche
transferali non adeguatamente analizzate, Jung fu
alla fine obbligato a rompere con il suo maestro.
Jung iniziò quindi a compiere delle ricerche, per
prima cosa su sé stesso. Queste ricerche
costituirono l'avvio del suo personale processo di
individuazione, ovvero della ricerca di ciò che egli
era veramente e completamente, al di là delle
maschere e delle proiezioni (dell'Ombra), ma anche
delle proprie identificazioni ai modelli archetipici
attivati nell'inconscio (l'Eroe, la Donna ideale, il
Saggio…). Tutte quelle figure dell'inconscio sono
indubbiamente istruttive e arricchenti, ma anche
particolarmente possessive.
Si tratta della (ri) scoperta e della (ri)
formulazione di un processo psicologico (narrato da
molte tradizioni esoteriche e non (si pensi per
esempio alla struttura e alle trame di tanti film e
romanzi fantaisy) che tende ad avvenire
nell'inconscio di tutte le persone nell'arco di una
intera esistenza, un confronto con le varie parti di
sé stessi, una integrazione degli opposti che tende
alla pace interiore e all'armonizzazione della
personalità. L'inconscio acquisisce così in Jung una
visione sistemica e dinamica più marcata che in
Freud, visto che è presente sin dalla nascita e che
proprio in quanto sistema funge da equilibratore
della personalità, compensando o rafforzando (a
secondo dei casi) l'atteggiamento conscio e
indirizzando lo sviluppo della personalità.
Tuttavia, la visione di una individuazione come
integrazione totale della personalità è stato anche
criticata e rimessa in questione da alcuni brillanti
seguaci di Jung, in particolare da J. Hillman.
Quest'ultimo ha preso molto sul serio l'affermazione
di Jung secondo la quale gli archetipi non sono del
tutto integrabili nella coscienza. Essi sono
piuttosto da concepire come presenze spirituali
autonome (Hillman parla addirittura di "psicologia
politeistica") con cui confrontarsi costantemente.
Si tratta allora di riconoscere le trame mitiche
inconsce che si giocano nella vita di ciascuno, di
lasciarsene ispirare senza tuttavia venirne
posseduti.
Vorrei ora concentrare l'attenzione su di un altro
aspetto del pensiero di Jung, finora tralasciato dai
commentatori, ma che pure esiste. Mi riferisco al
legame tra Jung e l'animismo. Nell'animismo
l'inconscio risiede (per così dire) nella Natura,
nei suoi luoghi e nei suoi rappresentanti animali,
vegetali e minerali più suggestivi. Questi, infatti,
da millenni fungono adeguatamente da contenitore
dell'inconscio e dei suoi archetipi. Per questo
l'Associazione Psiche e Natura propone dei percorsi
formativi che si avvalgono di un certo tipo di
rapporto con le entità e i luoghi naturali delle
nostre zone appenniniche. Studiando i popoli
tribali, si capisce che l'integrazione
dell'inconscio non può essere concepita come un
processo tutto interiore, come una semplice
"interiorizzazione", ma piuttosto come un rapporto
costante con l'inconscio i cui archetipi sono
simbolicamente legati al mondo naturale. Tutti i
simboli maggiori dell'inconscio hanno infatti forme
naturali. Si pensi per esempio al Serpente, alla
Montagna o al Fiume sacri, alla Foresta, alla
Caverna, agli animali mitici, alla Pietra,
all'Albero filosofico, all'Uroboros… I membri
tribali di tutto il mondo hanno totem e animali di
potere ricevuti durante la loro iniziazione, la
quale segna il passaggio alla condizione di membro
maturo. Queste entità legate alla Natura visitano i
loro sogni fornendo insegnamenti, ma si manifestano
anche attraverso la presenza fisica dei loro
rappresentanti, i quali sono normalmente convocati e
interrogati con preghiere e pratiche rituali. Si
pensi agli insegnamenti che Jung riceveva dal
vecchio saggio Filemone le cui ali erano simili a
quelle di un martin pescatore.
Nel periodo in cui era impegnato a dipingere la
figura di Filemone, Jung trovò un martin pescatore
morto sulle rive del lago nei pressi della propria
abitazione. Per farla breve, esiste un legame
proiettivo e simbolico atavico tra l'inconscio e la
Natura che può (e a mio parere deve) essere
recuperato. Non si tratta ben inteso di operare un
ritorno puro e semplice all'animismo tribale, ma di
lasciarsi ispirare da queste culture,
tecnologicamente più indietro, ma psicologicamente e
spiritualmente più evolute della nostra.
L'interesse di Jung per l'animismo era talmente
forte da portarlo più volte ad improvvisarsi
antropologo e ad organizzare spedizioni in Africa e
in Messico per intrattenersi di persona con i membri
tribali. Una volta rischiò addirittura di perdersi
seriamente nella jungla africana, ma a discapito del
parere dei suoi accompagnatori e del pericolo, volle
proseguire a tutti i costi l'itinerario intrapreso.
Tornò da queste esperienze con la convinzione che la
psicologia di questi popoli era profondamente
diversa da quella occidentale moderna. Essa poggia
in primis sul registro della percezione, sui sensi e
sull'intuizione. I tribali "vedono", "percepiscono",
"sentono" là dove noi pensiamo, ragioniamo,
calcoliamo. L'animismo, quindi, non è propriamente
una "concezione del mondo" basata su credenze
ingenue (Tylor), ma piuttosto una "percezione del
mondo" che poi si cristallizza in una cultura
specifica, la quale di ritorno influenza la stessa
percezione (questo costituisce appunto un aspetto
della "partecipazione mistica" descritta da Levy
Brulh).
Nell'animismo esiste un legame intenso e vitale con
la Natura, e Jung confessa nella propria
autobiografia di avere intrattenuto fin da piccolo
una "sorta di comunione segreta" con il mondo della
Natura. Egli era solito compiere delle passeggiate
solitarie lungo sentieri di montagna, amava
immergersi nella Natura. Probabilmente questo lo
aiutava a percepire il suo Sé (la sua "personalità
numero 2", come la chiamava allora). Questo tipo di
passatempo è abbastanza insolito nei bambini che
sono generalmente più inclini a giocare in
compagnia, e presso i popoli tribali viene
facilmente considerato un segno elettivo di una
vocazione sciamanica. Lo sciamano è infatti colui
che sin dall'origine frequenta la Natura e
intrattiene rapporti con le sue entità spirituali.
Anche da noi, nelle nostre zone montane, esisteva
fino a pochissimo tempo fa la credenza, o dovremmo
piuttosto dire la "percezione", di esseri
sovrannaturali, streghe, folletti, gnomi… Di questi
retaggi di percezione animistica tratta per esempio
il bellissimo documentario di Mario Ferraguti .
Interessante è anche il paragone tra trance e
immaginazione attiva. Presso i popoli tribali le
pratiche rituali possono mirare l'armonia con il
cosmo oppure avere finalità più circoscritte legate
per esempio al ritrovamento dell'anima smarrita o
rapita di una persona o alla caccia di spiriti
negativi cause di malattie. Tuttavia, tutti i riti
trovano un denominatore comune nel fatto che lo
sciamano accede alla dimensione spirituale allo
scopo di ripristinare un equilibrio andato perso. E'
in quella dimensione che tutto si gioca. Sappiamo
che in questi popoli la spiritualità è fortemente
caratterizzata da uno stato di trance immaginativa.
Questa ultima non è però assimilabile
all'immaginazione dei moderni determinata dall'ego e
dal dio Economia, ma bensì a quella esperienza che
Jung chiamò prima immaginazione mitopoietica e poi,
quando ne fece una tecnica esplorativa
dell'inconscio, immaginazione attiva. Quest'ultima
si distingue dal semplice fantasticare
essenzialmente per il livello di profondità psichica
al quale si giunge e in cui le figure dell'inconscio
si comportano autonomamente dando l'impressione al
soggetto di avere a che fare con delle vere e
proprie presenze, ovvero con quel che i membri
tribali chiamano spiriti (o anime). A tale proposito
bisogna supporre che l'accesso a queste frequenze
dell'immaginazione sia più agevole per i popoli
tribali di quanto non lo sia per i moderni, vista e
considerata l'assoluta diffusione di quelle
pratiche. Anche se questa facoltà potrebbe essere in
parte innata, pare evidente il ruolo determinante
della cultura e della educazione. Da noi, per
esempio, è quasi proibito "andare in oca",
soprattutto per i bambini in quanto si ritiene che
disturbi la concentrazione negli studi e nella vita.
Per cui non siamo culturalmente predisposti alla
trance e alla immaginazione profonda. A partire
dalla propria esperienza clinica Jung giunse alla
stessa considerazione. Egli denunciò la forte
difficoltà nel fare capire l'autonomia delle
immagini interiori ai suoi pazienti. Ma rilevò anche
che, una volta le difficoltà superate, questi
pazienti riuscivano ad impadronirsi della tecnica e
a vivere queste esperienze immaginative a volontà.
Il che costituiva per loro un notevole arricchimento
interiore. Una cosa del genere capita ai membri
tribali che ricevono una iniziazione che non
soltanto li rende maturi come persone, ma instaura
anche in loro un asse sempre ripercorribile tra la
realtà terrena e il mondo degli spiriti, tra stati
ordinari e alterati di coscienza o, in termini
junghiani, tra Io e Sé. Specialista di questo tipo
di viaggi è, come afferma Eliade, lo sciamano.
Questi è generalmente dotato di particolare
inclinazione alla trance, abbinata però ad una
preparazione tecnica specifica (la quale mancò a
Jung all'inizio delle sue ricerche). E' fondamentale
capire a tale riguardo che, a differenza
dell'immaginazione più superficiale imperniata su di
una logica di desiderio e di rafforzamento della
posizione cosciente, nell'immaginazione attiva l'Io
si trova a confrontarsi attivamente con figure e
situazioni che non ha scelto né creato, all'incirca
come farebbe se si trovasse a vivere situazioni
fortuite nella vita reale (nella vita reale quando
si incontra una persona, anche di sfuggita, non ci
verrebbe in mente di dire "non ho incontrato
nessuno"; stessa cosa si deve fare con le figure
della fantasia. Trattasi quindi di un significativo
ampliamento del concetto freudiano di realismo
psichico). Jung parla di una presa di posizione
necessaria del soggetto coinvolto in quella
esperienza. Senza questa presa di posizione, quindi
limitandosi ad un ruolo più passivo di spettatore,
non succede nulla di particolarmente rilevante da
questo punto di vista. Nuovamente, possiamo cogliere
la similitudine con l'atteggiamento notoriamente
attivo, energico, dello sciamano in stato di trance
immaginativa; atteggiamento altamente significativo
dell'impegno (e della fatica) con cui queste
pratiche vengono compiute. Lo stesso impegno veniva
chiesto da Jung ai suoi pazienti di fronte alle
fantasie e ai sogni. Ora, nel commento al Libro
Rosso Sonu Shamdasani elenca alcune particolarità
caratteriali di Jung particolarmente significative
dal punto di vista animistico. In particolare si
dice che sin da piccolo Jung avesse preso
l'abitudine di fissare la figura di suo nonno
ritratta in un quadro finché non vedeva quest'ultimo
scendere le scale. Si tratta di una esperienza "numinosa"
precoce che prefigura in qualche modo la tecnica
della immaginazione attiva. Ma quella esperienza
precoce indica anche che Jung doveva avere una
particolare inclinazione alla trance simile a quella
che caratterizza la vocazione sciamanica.
Sui temi della "perdita dell'anima" e del "doppio
animale" Jung si esprime in questi termini:
"Come hanno osservato gli antropologi una delle più
comuni forme di alienazione mentale che si manifesta
tra i popoli primitivi è quella che essi chiamano la
perdita dell'anima. Fra questi popoli in cui la
coscienza ha un livello di sviluppo diverso dal
nostro , l'anima non è concepita come unità. Molti
primitivi, infatti, sostengono che l'uomo possiede
un'anima della foresta oltre alla propria e che
quest'anima è incarnata in un animale selvaggio o in
un albero, con i quali l'essere umano ha una sorte
d'identità psichica. Questo è un fenomeno realmente
accertato che il celebre etnologo francese Lucien
Lévy-Bruhl ha definito partecipazione mistica. E'
risaputo, infatti, che dal punto di vista
strettamente psicologico, l'individuo può possedere
un'identità inconscia di questo stesso tipo con
un'altra persona, un animale e persino un oggetto."
Quella condizione alla quale si riferisce Jung, che
sarebbe meglio chiamare "partecipazione animistica",
è per noi moderni un vero mistero. In realtà non si
tratta di una identità, nel senso che l'Io non si
confonde con l'Altro, ma di un legame molto profondo
e vitale. Il concetto di "doppio animale" è
estremamente importante nell'animismo. L'antropologo
P. Vitebsky cita l'esempio della sciamana mazateca
che afferma, dopo essere entrata in trance tramite
assunzione di psilocibe, che per la sua paziente
purtroppo non potrà fare nulla in quanto il suo
"doppio puma" è stato divorato . L'autore precisa
che quel doppio consiste sia in uno spirito che in
un animale vero. Esso rappresenta probabilmente
l'impressione che lo stato psicofisico globale della
paziente ha suscitato prima nell'inconscio e poi
nella coscienza della sciamana. E' appunto grazie
alla trance che gli sciamani acquisiscono i loro
poteri, compreso quel che potremmo chiamare il loro
"occhio clinico". Incontrare una persona in totale
deprivazione della propria energia vitale è come
vedere un albero mezzo rinsecchito ormai lasciato al
proprio destino. Qui l'interpertazione
psicoanimistica si discosta diametralmente dall'idea
che aveva il primo Jung sui simboli animali ch'egli
collegava alla Grande Madre terribile dalla quale
l'Io doveva emanciparsi . Questi "doppi animali" in
qualche modo rappresentano l'energia vitale delle
persone e per questo vanno costantemente considerati
e "curati". Per esempio attraverso oblazioni o
preghiere rivolte all'animale vero o nel mantenere
vivo il rapporto dialettico con il suo spirito nei
sogni. A questo punto sorge una domanda: potrebbe la
partecipazione animistica rappresentare una antica
modalità di realizzazione del Sé?
A proposito del bellissimo film L'orso del regista
J.J. Anaud, mi sono spesso chiesto cosa sarà passato
per la mente, quali emozioni avrà provato il
cacciatore che si è improvvisamente ritrovato a tu
per tu con il gigantesco animale con cui aveva
ingaggiato una caccia spietata? Trovatosi del tutto
privo di difesa, il cacciatore avrebbe potuto
facilmente lasciarci le penne, ma l'orso si
accontentò di spaventarlo. Una volta l'animale
allontanato, il cacciatore riprese il fucile con il
chiaro intento di ammazzare l'animale, ma ne fu
impedito da un tipo di emozione nuova per lui, per
cui sparò in alto e rinunciò definitivamente a
proseguire la partita di caccia. Ritengo che
l'autore della storia abbia percepito inconsciamente
che quell'orso era inestricabilmente legato, per via
animistica, al cacciatore, proprio come un indigeno
è legato ai propri animali di potere. La cultura
animista insegna che le parti psichiche più profonde
non si presentano solo sotto forma di immagini, ma
anche nelle veste di entità naturali vere e quindi
che per il nostro inconscio Anima e Natura sono
indissociabili. Nelle cerimonie rituali, chi si
addobba di pelle di animale selvatico o di altri
elementi simbolici naturali ricompone per un attimo
la propria totalità psichica, si riconnette con la
propria essenza più profonda che è spirituale (qui
l'apporto di Eliade è essenziale). Infine, vi sono
notevoli rassomiglianze tra i dipinti del Libro
Rosso e quelli di sciamani in trance che descrivono
la dimensione animistica: colori vividissimi,
geometrie mandaliche, forme mostruose (gli spiriti
maligni da affrontare), motivi archetipici come
quello a p. 55 della barca che simboleggia il
veicolo dell'immaginazione che traghetta l'Io sui
flutti dell'inconscio.
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