BLUE JASMINE
Mario Gardini
Regia di Woody Allen
Con Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin,
Louis C.K.
USA 2013
Sono passati 25 anni da quando Woody Allen ci regalò
uno dei suoi personaggi femminili più affascinanti
ed intensi.
Mi riferisco a Marion, magistralmente interpretata
da Gena Rowlands in "Un'altra donna", a mio avviso
film capolavoro del regista newyorkese, passato
ingiustamente inosservato sia in America che in
Europa.
Con "Blue Jasmine" le cose sono andate un po'
meglio, almeno sotto il profilo del botteghino. Il
film in America ha guadagnato più di 30 milioni di
dollari e l'Oscar per la miglior protagonista
femminile che tutti ci auspichiamo per Cate
Blanchett potrebbe dare un'ulteriore spinta al
boxoffice.
La trama, non comica e priva delle gag abituali di
Allen (tranne che in un paio di occasioni) è
liberamente ispirata alle vicende di Bernard Madoff,
uno dei più grandi frodatori finanziari di tutti i
tempi che, tra le sue vittime, annovera molti
personaggi dello spettacolo, tra cui lo stesso Woody.
Jeanette (Cate Blanchett) è una ragazza orfana
adottata, insieme ad una sorella non di sangue
Ginger (Sally Hawkins), la quale trova il proprio
riscatto sociale attraverso il matrimonio con un
ricco investitore filantropo (Alec Baldwin).
Si cambia il nome, si reinventa il passato, diventa
la regina di Manhattan.
Ma quando il marito viene arrestato per frode e si
suicida in carcere, per Jeanette (ora Jasmine) non
rimane che l'umiliazione del crollo sociale.
Tra un elettrochoc e uno Xanax, cerca aiuto a San
Francisco da Ginger, divorziata e con due figli,
mettendo a repentaglio lo squallido tran tran
quotidiano della sorella.
A un tratto sembra quasi che un buon fato rovesci al
situazione per entrambe.
Ma la realtà è più forte del sogno e il peso degli
antichi errori torneranno a presentare il conto alla
povera Jasmine, relegandola su una panchina ben più
tragica di quella del suo predecessore Forrest Gump.
Ritrovando la mano felice dei vecchi tempi, Woody
Allen scrive, sceneggia e dirige un piccolo grande
capolavoro che non lascia né sorrisi né speranza,
coadiuvato da un cast di altissimo livello.
Su tutti svetta lei, Blue "Cate" Jasmine, bellissima
e bravissima, la quale è capace di passare dal sogno
al rimpianto e dalla follia alla seduzione in un
solo battito di ciglia.
Con la sua giacca di Chanel e la sua borsa di
Hermes, la Blanchett diventa l'emblema di questi
tempi maledetti, in cui si passa dalle stelle alle
stelle in un nanosecondo.
La sua incapacità di voltare pagina e di adattarsi
ai rovesci della vita le fa attraversare, in 90
minuti, tutti i gironi di un inferno fatto di
umiliazioni, tradimenti, tentativi di ricominciare e
fallimenti.
Solo che, alla fine, lei non uscirà a riveder le
stelle.
I segreti di Osage County
Mario Gardini
I segreti di Osage County
Regia di John Wells
Con Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor,
Julianne Nicholson
USA 2013
Questo film sembrerebbe una piece teatrale di
Tennessee Williams.
Invece è tratto da un'opera del drammaturgo ed
attore statunitense Tracy Letts che, nel 2007, gli
valse il Premio Pulitzer.
Si tratta di un film claustrofobico, magistralmente
interpretato e diretto, che come un bisturi affonda
all'interno del tessuto dei rapporti familiari,
vivisezionando segreti e silenzi fino a non lasciare
più integro nessuno.
Il poeta Beverly (Sam Shepard), marito alcolizzato
ed offeso da Violet (Meryl Streep) moglie drogata e
malata di cancro, un giorno decide di farla finita.
Nella casa paterna, in un torrido agosto
dell'Oklahoma, si ritrova tutta la famiglia: Barbara
(Julia Roberts), figlia colpevole di aver
abbandonato la famiglia per seguire il marito con
cui è in crisi per colpa di una lolita; il marito e
la figlia di lei; Ivy (Julianne Nicholson), figlia
rimasta in seno alla famiglia e castrata in tutti i
sensi, soprattutto nella sua emotività; Karen (Juliette
Lewis), terza figlia che vive in Florida che arriva
con improbabile futuro marito che tenta di farsi la
"nipotina" a colpi di canne: la sorella di Violet,
suo marito e il loro figlio "Little" Charles,
trentenne imbranato e continuamente umiliato dalla
madre.
Una cena darà il via ad una lunga serie di
rivelazione e recriminazioni che non lasciano spazio
a nessun perdono finale.
Testimone muta di questa tragedia americana è la
cameriera indiana (pardon, nativa americana) che
difende quel poco che c'è da salvare a colpi di
vanga e che, alla fine, rimarrà la sola ad
accompagnare la "mater familias" nel suo triste
calvario.
Gli altri, in fuga, andranno ad affrontare le
incognite del loro destino perché, come dice
giustamente la Roberts "se potessimo prevedere il
futuro, non ci alzeremmo dal letto".
Film dark dalla sceneggiatura crudele e sulfurea, ma
assolutamente perfetta, "I segreti di Osage County"
è da consigliare al signor Barilla per tenere alto
il buon nome delle cosiddette famiglie tradizionali
alla Mulino Bianco.
Difficile sentire concentrati, in due ore, tante
cattiverie e tanti livori familiari. Il tutto, però,
condito da un'ironia e da un cinismo che strappano
il sorriso, oltre che l'applauso.
A metà strada tra "Interiors" di Woody Allen e
"Parenti serpenti" di Mario Monicelli, "I segreti di
Osage County" è uno dei migliori film americani mai
realizzati sull'argomento famiglia, in grado di
toccare a tutti gli spettatori (e chi lo nega è un
bugiardo) qualche dolente nota della propria storia
personale.
Non ha il gelo di "Festen" o di "Miss Violence", ma
in cambio non cede mai, neppure per un milionesimo
di secondo, al facile buonismo tanto caro ai nipoti
dello zio Sam.
Cast, come ho già detto, straordinario, che ci
regala una splendida Julia Roberts, attrice che non
ho mai sopportato ma per la quale farò il tifo la
notte degli Oscar (è candidata come miglior attrice
non protagonista).
Giunta a quota 18 candidature (un record assoluto)
Meryl/Violet dà una delle più grandi prove d'attrice
viste sugli schermi.
Io spero che assegnino l'Oscar a Cate "Blue Jasmine"
Blanchett, ma, credetemi, se lo meriterebbe di più
lei. È assolutamente Streep-itosa!
Tutto sua madre
Mario Gardini
Regia di Guillaume Gallienn
Con Guillaume Gallienn, André Marcon, Françoise
Fabian
Francia 2013
L'idea iniziale è molto divertente e originale: un
coming out al contrario, ribaltando i punti di vista
della cosiddetta normalità, come in passato fecero
già film tipo "Indovina chi viene a cena" o "Festa
per il compleanno del caro amico Harold".
Guillaume non è gay, è solo innamorato pazzo di sua
madre.
La imita in tutto, nella voce, nel modo di
camminare, di tenere la sigaretta in mano.
Lui si sente donna perché vuole essere come lei e,
allo stesso tempo, differenziarsi dalla volgarità
dei suoi fratelli.
Il mondo intorno lo vede gay e così, alla fine,
finisce per crederci anche lui.
In Spagna gli insegnano a ballare come una ragazza,
mentre la principessa Sissi è la sua compagna di
giochi immaginaria.
Però non riesce ad avere rapporti intimi con gli
uomini.
Ma insomma, Guillaume è gaio o no, al di là
dell'etichetta che gli è stata affibiata?
Alla fine sarà un invito a cena a risolvere l'arduo
dilemma e la dichiarazione di eterosessualità del
ragazzo lascerà sconvolta sua madre che vede così
svanire il suo sogno di avere una figlia (in qualche
modo) femmina.
In cambio il ragazzo troverà il suo giusto posto sul
palcoscenico della vita, oltre che a tavola.
Film carino, piacevole, privo di volgarità ma anche
reo di una psicologia da grandi magazzini,
questo "Tutta sua madre" fa trascorrere 90 minuti
con un sorriso sulle labbra che, però, svanisce
all'istante insieme all'ultimo titolo di coda.
In Francia ha furoreggiato, vincendo due Premi
Lumière, ovvero l'equivalente dei Golden Globe
nazionali, per il miglior attore e la migliore opera
prima.
Guillaume Gallienn, attore, sceneggiatore e regista,
è bravissimo ad interpretare se stesso in tutte le
sue diverse età, nonostante i suoi quarant'anni
suonati.
Ma non solo. Egli recita anche "en travesti" il
ruolo della madre che, solo nelle ultime sequenze,
avrà finalmente il suo vero volto, quando la
confusione dei ruoli avrà smesso di annebbiare la
sessualità del protagonista.
Bello ritrovare nel cast anche Françoise Fabian,
ancora splendida ad ottant'anni come ai tempi di
"Una donna, una canaglia" di Claude Lelouch.
Il titolo originale del film è "Les garçons et
Guillaume, a table!, (I ragazzi e Guillaume, a
tavola!"), ma i nostri traduttori hanno preferito
scimmiottare Almodovar per attirare maggiormente un
pubblico da triangolo rosa.
A loro il premio per il titolo più brutto di questo
inizio d'anno.
STILL LIFE
Mario Gardini
Regia di Uberto Pasolini
Con Eddie Marsan, Joanne Frogatt, Karen Drury
Gran Bretagna - Italia 2013
Ecco un piccolo grandissimo film, di quelli che
fanno ancora ben sperare nella resurrezione del
cinema italiano al di là dei facili buonismi o
dell'umorismo grossolano.
Per quanto sia stato girato nel Regno Unito con
attori tutti britannici, il regista è italiano.
Uberto Pasolini, produttore di "The full monty" e
"Bel Ami", non è, come molti potrebbero pensare,
parente del grande Pier Paolo, ma in cambio vanta
ben altre radici cinematograficamente nobili,
essendo nipote di Luchino Visconti.
Accompagnato dalla musica straordinaria di Rachel
Portman, sua moglie nella vita nonché prima donna ad
aver vinto un Oscar per la colonna sonora di "Emma"
nel 1997, Pasolini ci racconta una storia di tutti i
giorni, una di quelle che non finiranno mai su
Vanity Fair ma che rendono la vita (e soprattutto la
morte) più meritevoli di dignità.
"Still life" parla di John May (Eddie Marsan),
scialbo funzionario comunale che per lavoro deve
trovare i parenti delle persone morte in solitudine.
È lui che si occupa di tutto affinché nessuno lasci
le sue spoglie mortali in modo squallido e anonimo.
Sceglie le musiche, presenzia alla funzione, scrive
i discorsi celebrativi e tiene un album con tutte le
foto delle persone a cui ha cercato di regalare la
migliore uscita di scena possibile.
Non importa se ci sono i budget comunali da tagliare
e lui perde il lavoro: c'è un ultimo caso, che lo
tocca più da vicino di altri, da dover condurre a
termine prima di sgomberare la sua scrivania.
E sarà proprio questo caso a portare uno spiraglio
di luce e di amore nella sua vita.
Ma l'amore fa abbassare le difese, e senza difese si
è tutti più vulnerabili. E così John pagherà il fio
alla sua eleganza di riccio.
Ma gli amici, quelli veri, ridanno sempre ciò che
hanno ricevuto. Perciò, non è vero, come cantava De
Andrè nel suo Testamento, che quando si muore si
muore da soli.
Basta solo saper guardare le cose da un altro punto
di vista.
Ci muoviamo all'interno di un mondo alla "Six feet
under". Ma la sensazione che questo film ci lascia
dentro non è di dolore o di angoscia, ma di una
solidarietà universale che non può non toccare le
corde interiori anche dei più cinici o razionali.
Eddie Marsan è bravissimo e anche tutti gli altri
attori, in ruoli più o meno marginali, gli fanno da
ottima spalla.
La sua piccola ribellione contro il boss, che lo
spinge a fare il cagnolino di strada, è di una
tenerezza davvero rara mentre il suo maglione
azzurro, simbolo dell'amore che riporta colore nella
vita, ci ricorda molto la metamorfosi di Cher in
"Stregata dalla luna".
È forse questo il vero significato del film, oltre
che del nostro stesso esistere.
Saper amare, in qualsiasi forma e a qualsiasi
rischio. Altrimenti, la vita è solo morte.
ALLACCIATE LE CINTURE
Mario Gardini
Regia di Ferzan Ozpetek
Con Katia Smutniak, Francesco Arca, Elena Sofia
Ricci, Filippo Scicchitano
Italia 2013
Strano destino quello di Ferzan Ozpetek. Se non
racconta storie gay o non inserisce lunghe tavolate
di famiglie allargate su terrazze romane, i suoi
film non ottengono mai un grande successo.
Non farà eccezione nemmeno questo "Allacciate le
cinture" che, pur incassando benino durante i due
primi week-end di programmazione, non ha raggiunto i
livelli di "La finestra di fronte", "Saturno contro"
o "Mine vaganti".
Arrivato a due anni di distanza dal flop di
"Magnifica presenza", il nuovo film del regista
turco naturalizzato italiano racconta una storia
d'amore che nasce, muore e rinasce di fronte a un
brutto male che minaccia la protagonista.
Siamo molto nei dintorni dei fotoromanzi Lancio, ma
i dialoghi brillanti e la capacità del regista di
saper rendere veri sullo schermo i suoi protagonisti
non fanno comunque rimpiangere i soldi ed il tempo
spesi.
Nella bella cornice del Salento (a cui Ozpetek torna
dopo "Mine vaganti"), "Allacciate le cinture"
racconta la storia di tre amici che lavorano in un
bar.
Elena (Kasia Smutniak), di buona famiglia con zia
strampalata e fratello morto alle spalle, ha una
storia d'amore un po' stanca che si trascina da due
anni e perde la testa per Antonio (Francesco Arca),
meccanico ignorante, omofobo e xenofobo che sta con
la sua migliore amica nonché collega. Elena divide
lavoro, sogni e speranze con Fabio (Filippo
Scicchitano), amico tenero e gay nonché ex del
fratello deceduto.
L'amore tra Elena e Antonio esplode proprio mentre
la ragazza, insieme a Fabio, apre un locale alla
moda che ottiene un grande successo.
Salto temporale di 13 anni.
Mentre il lavoro le va alla grande, Elena si trova a
dover affrontare una forte crisi matrimoniale.
Nonostante due figli in tenera età, la sua ambizione
non riesce più a sopportare lo stile da perdente di
Antonio.
Ma un pap test al seno fatto per caso obbligherà la
ragazza a rivedere la sua scala dei valori.
Una notte d'amore in ospedale, con vicina che finge
di dormire (forse la scena più tenera del film)
riaccenderà una passione che, a mano a mano (come
dice la canzone di Riccardo Cocciante qui riproposta
nella versione di Rino Gaetano) la routine della
vita ha inevitabilmente spento.
Ozpetek torna a lavorare con Romoli, produttore e
co-sceneggiatore dei suoi più grandi successi, e ci
regala un film a tratti ingenuo, ma di sicuro
sincero.
La Smutniak è inaspettatamente brava, anche se basta
che sullo schermo appaiano due signore attrici come
Elena Sofia Ricci e Carla Signoris per farsi un po'
eclissare.
Francesco Arca di "Uomini e donne" ha più tatuaggi
che espressioni però vanta indubbiamente una buona
presenza scenica.
Ottimi Filippo Scicchitano e la Crescentina nel
ruolo dell'amica tradita e traditrice, mentre sono
molto azzeccati i camei della signora Montalbano,
Luisa Ranieri, nel ruolo della parrucchiera e di
Paola Minaccioni, compagna di stanza e di calvario.
Bei paesaggi, buona musica e un po' di stereotipi
gay fanno da cornice a una storia che diverte con le
lacrime agli occhi e fa riflettere su parole quali
amore, amicizia, abitudine, malattia.
Si chiude ridendo e ripartendo da capo, ma non si sa
se il finale sarà davvero happy.
Allacciate pure le cinture, ma il decimo film di
Ozpetek decolla a fasi alterne.
|