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Libri a fumetti

IL CAMPIONE DEL VERDE
Il ciclico ritorno di Swamp Thing

Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

"Preghiera - un atto osceno". Intervista a Margherita Ortolani, autrice e attrice
a cura di Alessandro Rizzo
Blue Jasmine
di Mario Gardini
I segreti di Osage County
di Mario Gardini
Tutto sua madre
di Mario Gardini
Still life
di Mario Gardini

Fotografia

Mostra di Fotografia e Poesia - Roberto Mosi "Firenze, dalle vetrine alle periferie"
di Roberto Mosi

Teatro

Giovane e bella
di Maria Antonietta Nardone

Miti mutanti 21

Strisce di Andrea Cantucci

Un artista a Coverciano 7

Strisce di Luca Mori

BLUE JASMINE

 

Mario Gardini
 


Regia di Woody Allen
Con Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin, Louis C.K.
USA 2013


Sono passati 25 anni da quando Woody Allen ci regalò uno dei suoi personaggi femminili più affascinanti ed intensi.
Mi riferisco a Marion, magistralmente interpretata da Gena Rowlands in "Un'altra donna", a mio avviso film capolavoro del regista newyorkese, passato ingiustamente inosservato sia in America che in Europa.
Con "Blue Jasmine" le cose sono andate un po' meglio, almeno sotto il profilo del botteghino. Il film in America ha guadagnato più di 30 milioni di dollari e l'Oscar per la miglior protagonista femminile che tutti ci auspichiamo per Cate Blanchett potrebbe dare un'ulteriore spinta al boxoffice.

La trama, non comica e priva delle gag abituali di Allen (tranne che in un paio di occasioni) è liberamente ispirata alle vicende di Bernard Madoff, uno dei più grandi frodatori finanziari di tutti i tempi che, tra le sue vittime, annovera molti personaggi dello spettacolo, tra cui lo stesso Woody.
Jeanette (Cate Blanchett) è una ragazza orfana adottata, insieme ad una sorella non di sangue Ginger (Sally Hawkins), la quale trova il proprio riscatto sociale attraverso il matrimonio con un ricco investitore filantropo (Alec Baldwin).
Si cambia il nome, si reinventa il passato, diventa la regina di Manhattan.
Ma quando il marito viene arrestato per frode e si suicida in carcere, per Jeanette (ora Jasmine) non rimane che l'umiliazione del crollo sociale.
Tra un elettrochoc e uno Xanax, cerca aiuto a San Francisco da Ginger, divorziata e con due figli, mettendo a repentaglio lo squallido tran tran quotidiano della sorella.
A un tratto sembra quasi che un buon fato rovesci al situazione per entrambe.
Ma la realtà è più forte del sogno e il peso degli antichi errori torneranno a presentare il conto alla povera Jasmine, relegandola su una panchina ben più tragica di quella del suo predecessore Forrest Gump.

Ritrovando la mano felice dei vecchi tempi, Woody Allen scrive, sceneggia e dirige un piccolo grande capolavoro che non lascia né sorrisi né speranza, coadiuvato da un cast di altissimo livello.
Su tutti svetta lei, Blue "Cate" Jasmine, bellissima e bravissima, la quale è capace di passare dal sogno al rimpianto e dalla follia alla seduzione in un solo battito di ciglia.
Con la sua giacca di Chanel e la sua borsa di Hermes, la Blanchett diventa l'emblema di questi tempi maledetti, in cui si passa dalle stelle alle stelle in un nanosecondo.
La sua incapacità di voltare pagina e di adattarsi ai rovesci della vita le fa attraversare, in 90 minuti, tutti i gironi di un inferno fatto di umiliazioni, tradimenti, tentativi di ricominciare e fallimenti.
Solo che, alla fine, lei non uscirà a riveder le stelle.

 

I segreti di Osage County

 

Mario Gardini
 


I segreti di Osage County
Regia di John Wells
Con Meryl Streep, Julia Roberts, Ewan McGregor, Julianne Nicholson
USA 2013

Questo film sembrerebbe una piece teatrale di Tennessee Williams.
Invece è tratto da un'opera del drammaturgo ed attore statunitense Tracy Letts che, nel 2007, gli valse il Premio Pulitzer.
Si tratta di un film claustrofobico, magistralmente interpretato e diretto, che come un bisturi affonda all'interno del tessuto dei rapporti familiari, vivisezionando segreti e silenzi fino a non lasciare più integro nessuno.

Il poeta Beverly (Sam Shepard), marito alcolizzato ed offeso da Violet (Meryl Streep) moglie drogata e malata di cancro, un giorno decide di farla finita.
Nella casa paterna, in un torrido agosto dell'Oklahoma, si ritrova tutta la famiglia: Barbara (Julia Roberts), figlia colpevole di aver abbandonato la famiglia per seguire il marito con cui è in crisi per colpa di una lolita; il marito e la figlia di lei; Ivy (Julianne Nicholson), figlia rimasta in seno alla famiglia e castrata in tutti i sensi, soprattutto nella sua emotività; Karen (Juliette Lewis), terza figlia che vive in Florida che arriva con improbabile futuro marito che tenta di farsi la "nipotina" a colpi di canne: la sorella di Violet, suo marito e il loro figlio "Little" Charles, trentenne imbranato e continuamente umiliato dalla madre.
Una cena darà il via ad una lunga serie di rivelazione e recriminazioni che non lasciano spazio a nessun perdono finale.
Testimone muta di questa tragedia americana è la cameriera indiana (pardon, nativa americana) che difende quel poco che c'è da salvare a colpi di vanga e che, alla fine, rimarrà la sola ad accompagnare la "mater familias" nel suo triste calvario.
Gli altri, in fuga, andranno ad affrontare le incognite del loro destino perché, come dice giustamente la Roberts "se potessimo prevedere il futuro, non ci alzeremmo dal letto".

Film dark dalla sceneggiatura crudele e sulfurea, ma assolutamente perfetta, "I segreti di Osage County" è da consigliare al signor Barilla per tenere alto il buon nome delle cosiddette famiglie tradizionali alla Mulino Bianco.
Difficile sentire concentrati, in due ore, tante cattiverie e tanti livori familiari. Il tutto, però, condito da un'ironia e da un cinismo che strappano il sorriso, oltre che l'applauso.
A metà strada tra "Interiors" di Woody Allen e "Parenti serpenti" di Mario Monicelli, "I segreti di Osage County" è uno dei migliori film americani mai realizzati sull'argomento famiglia, in grado di toccare a tutti gli spettatori (e chi lo nega è un bugiardo) qualche dolente nota della propria storia personale.
Non ha il gelo di "Festen" o di "Miss Violence", ma in cambio non cede mai, neppure per un milionesimo di secondo, al facile buonismo tanto caro ai nipoti dello zio Sam.
Cast, come ho già detto, straordinario, che ci regala una splendida Julia Roberts, attrice che non ho mai sopportato ma per la quale farò il tifo la notte degli Oscar (è candidata come miglior attrice non protagonista).
Giunta a quota 18 candidature (un record assoluto) Meryl/Violet dà una delle più grandi prove d'attrice viste sugli schermi.
Io spero che assegnino l'Oscar a Cate "Blue Jasmine" Blanchett, ma, credetemi, se lo meriterebbe di più lei. È assolutamente Streep-itosa!


 

Tutto sua madre

 

Mario Gardini
 


Regia di Guillaume Gallienn
Con Guillaume Gallienn, André Marcon, Françoise Fabian
Francia 2013


L'idea iniziale è molto divertente e originale: un coming out al contrario, ribaltando i punti di vista della cosiddetta normalità, come in passato fecero già film tipo "Indovina chi viene a cena" o "Festa per il compleanno del caro amico Harold".

Guillaume non è gay, è solo innamorato pazzo di sua madre.
La imita in tutto, nella voce, nel modo di camminare, di tenere la sigaretta in mano.
Lui si sente donna perché vuole essere come lei e, allo stesso tempo, differenziarsi dalla volgarità dei suoi fratelli.
Il mondo intorno lo vede gay e così, alla fine, finisce per crederci anche lui.
In Spagna gli insegnano a ballare come una ragazza, mentre la principessa Sissi è la sua compagna di giochi immaginaria.
Però non riesce ad avere rapporti intimi con gli uomini.
Ma insomma, Guillaume è gaio o no, al di là dell'etichetta che gli è stata affibiata?
Alla fine sarà un invito a cena a risolvere l'arduo dilemma e la dichiarazione di eterosessualità del ragazzo lascerà sconvolta sua madre che vede così svanire il suo sogno di avere una figlia (in qualche modo) femmina.
In cambio il ragazzo troverà il suo giusto posto sul palcoscenico della vita, oltre che a tavola.

Film carino, piacevole, privo di volgarità ma anche reo di una psicologia da grandi magazzini,
questo "Tutta sua madre" fa trascorrere 90 minuti con un sorriso sulle labbra che, però, svanisce all'istante insieme all'ultimo titolo di coda.
In Francia ha furoreggiato, vincendo due Premi Lumière, ovvero l'equivalente dei Golden Globe nazionali, per il miglior attore e la migliore opera prima.
Guillaume Gallienn, attore, sceneggiatore e regista, è bravissimo ad interpretare se stesso in tutte le sue diverse età, nonostante i suoi quarant'anni suonati.
Ma non solo. Egli recita anche "en travesti" il ruolo della madre che, solo nelle ultime sequenze, avrà finalmente il suo vero volto, quando la confusione dei ruoli avrà smesso di annebbiare la sessualità del protagonista.
Bello ritrovare nel cast anche Françoise Fabian, ancora splendida ad ottant'anni come ai tempi di "Una donna, una canaglia" di Claude Lelouch.
Il titolo originale del film è "Les garçons et Guillaume, a table!, (I ragazzi e Guillaume, a tavola!"), ma i nostri traduttori hanno preferito scimmiottare Almodovar per attirare maggiormente un pubblico da triangolo rosa.
A loro il premio per il titolo più brutto di questo inizio d'anno.

 

STILL LIFE

 

Mario Gardini
 


Regia di Uberto Pasolini
Con Eddie Marsan, Joanne Frogatt, Karen Drury
Gran Bretagna - Italia 2013


Ecco un piccolo grandissimo film, di quelli che fanno ancora ben sperare nella resurrezione del cinema italiano al di là dei facili buonismi o dell'umorismo grossolano.
Per quanto sia stato girato nel Regno Unito con attori tutti britannici, il regista è italiano.
Uberto Pasolini, produttore di "The full monty" e "Bel Ami", non è, come molti potrebbero pensare, parente del grande Pier Paolo, ma in cambio vanta ben altre radici cinematograficamente nobili, essendo nipote di Luchino Visconti.
Accompagnato dalla musica straordinaria di Rachel Portman, sua moglie nella vita nonché prima donna ad aver vinto un Oscar per la colonna sonora di "Emma" nel 1997, Pasolini ci racconta una storia di tutti i giorni, una di quelle che non finiranno mai su Vanity Fair ma che rendono la vita (e soprattutto la morte) più meritevoli di dignità.

"Still life" parla di John May (Eddie Marsan), scialbo funzionario comunale che per lavoro deve trovare i parenti delle persone morte in solitudine. È lui che si occupa di tutto affinché nessuno lasci le sue spoglie mortali in modo squallido e anonimo. Sceglie le musiche, presenzia alla funzione, scrive i discorsi celebrativi e tiene un album con tutte le foto delle persone a cui ha cercato di regalare la migliore uscita di scena possibile.
Non importa se ci sono i budget comunali da tagliare e lui perde il lavoro: c'è un ultimo caso, che lo tocca più da vicino di altri, da dover condurre a termine prima di sgomberare la sua scrivania.
E sarà proprio questo caso a portare uno spiraglio di luce e di amore nella sua vita.
Ma l'amore fa abbassare le difese, e senza difese si è tutti più vulnerabili. E così John pagherà il fio alla sua eleganza di riccio.
Ma gli amici, quelli veri, ridanno sempre ciò che hanno ricevuto. Perciò, non è vero, come cantava De Andrè nel suo Testamento, che quando si muore si muore da soli.
Basta solo saper guardare le cose da un altro punto di vista.

Ci muoviamo all'interno di un mondo alla "Six feet under". Ma la sensazione che questo film ci lascia dentro non è di dolore o di angoscia, ma di una solidarietà universale che non può non toccare le corde interiori anche dei più cinici o razionali.
Eddie Marsan è bravissimo e anche tutti gli altri attori, in ruoli più o meno marginali, gli fanno da ottima spalla.
La sua piccola ribellione contro il boss, che lo spinge a fare il cagnolino di strada, è di una tenerezza davvero rara mentre il suo maglione azzurro, simbolo dell'amore che riporta colore nella vita, ci ricorda molto la metamorfosi di Cher in "Stregata dalla luna".
È forse questo il vero significato del film, oltre che del nostro stesso esistere.
Saper amare, in qualsiasi forma e a qualsiasi rischio. Altrimenti, la vita è solo morte.

 

 

ALLACCIATE LE CINTURE

 

Mario Gardini
 


Regia di Ferzan Ozpetek
Con Katia Smutniak, Francesco Arca, Elena Sofia Ricci, Filippo Scicchitano
Italia 2013


Strano destino quello di Ferzan Ozpetek. Se non racconta storie gay o non inserisce lunghe tavolate di famiglie allargate su terrazze romane, i suoi film non ottengono mai un grande successo.
Non farà eccezione nemmeno questo "Allacciate le cinture" che, pur incassando benino durante i due primi week-end di programmazione, non ha raggiunto i livelli di "La finestra di fronte", "Saturno contro" o "Mine vaganti".
Arrivato a due anni di distanza dal flop di "Magnifica presenza", il nuovo film del regista turco naturalizzato italiano racconta una storia d'amore che nasce, muore e rinasce di fronte a un brutto male che minaccia la protagonista.
Siamo molto nei dintorni dei fotoromanzi Lancio, ma i dialoghi brillanti e la capacità del regista di saper rendere veri sullo schermo i suoi protagonisti non fanno comunque rimpiangere i soldi ed il tempo spesi.

Nella bella cornice del Salento (a cui Ozpetek torna dopo "Mine vaganti"), "Allacciate le cinture" racconta la storia di tre amici che lavorano in un bar.
Elena (Kasia Smutniak), di buona famiglia con zia strampalata e fratello morto alle spalle, ha una storia d'amore un po' stanca che si trascina da due anni e perde la testa per Antonio (Francesco Arca), meccanico ignorante, omofobo e xenofobo che sta con la sua migliore amica nonché collega. Elena divide lavoro, sogni e speranze con Fabio (Filippo Scicchitano), amico tenero e gay nonché ex del fratello deceduto.
L'amore tra Elena e Antonio esplode proprio mentre la ragazza, insieme a Fabio, apre un locale alla moda che ottiene un grande successo.
Salto temporale di 13 anni.
Mentre il lavoro le va alla grande, Elena si trova a dover affrontare una forte crisi matrimoniale. Nonostante due figli in tenera età, la sua ambizione non riesce più a sopportare lo stile da perdente di Antonio.
Ma un pap test al seno fatto per caso obbligherà la ragazza a rivedere la sua scala dei valori.
Una notte d'amore in ospedale, con vicina che finge di dormire (forse la scena più tenera del film) riaccenderà una passione che, a mano a mano (come dice la canzone di Riccardo Cocciante qui riproposta nella versione di Rino Gaetano) la routine della vita ha inevitabilmente spento.

Ozpetek torna a lavorare con Romoli, produttore e co-sceneggiatore dei suoi più grandi successi, e ci regala un film a tratti ingenuo, ma di sicuro sincero.
La Smutniak è inaspettatamente brava, anche se basta che sullo schermo appaiano due signore attrici come Elena Sofia Ricci e Carla Signoris per farsi un po' eclissare.
Francesco Arca di "Uomini e donne" ha più tatuaggi che espressioni però vanta indubbiamente una buona presenza scenica.
Ottimi Filippo Scicchitano e la Crescentina nel ruolo dell'amica tradita e traditrice, mentre sono molto azzeccati i camei della signora Montalbano, Luisa Ranieri, nel ruolo della parrucchiera e di Paola Minaccioni, compagna di stanza e di calvario.
Bei paesaggi, buona musica e un po' di stereotipi gay fanno da cornice a una storia che diverte con le lacrime agli occhi e fa riflettere su parole quali amore, amicizia, abitudine, malattia.
Si chiude ridendo e ripartendo da capo, ma non si sa se il finale sarà davvero happy.
Allacciate pure le cinture, ma il decimo film di Ozpetek decolla a fasi alterne.

Contatore visite dal 6 giugno 2011
 
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