Credere è come restare in apnea,
si può fare solo per un tempo limitato
Paolo D'Arpini
Tempo addietro scrissi una
lettera sulla spiritualità laica in cui segnalavo la
condizione degli atei e dei credenti ponendoli in
una sola categoria di pensiero, quella del
"credere". Ora vorrei specificare meglio il perché
colloco questi due apparenti "opposti" sullo stesso
livello. Lo faccio evidenziando come entrambi,
credenti e non credenti, abbiano bisogno di una
ragione giustificativa per la loro convinzione.
Innanzitutto una domanda. Qual'è la differenza
sostanziale fra il restare assorbiti nella quiete
della coscienza indifferenziata, rispondendo agli
stimoli della vita con spontaneità e leggerezza, e
la reazione spasmodica basata sull'assunzione di
concetti ideologici che ci fanno da gabbia
comportamentale?
Un uomo studia libri su libri, ascolta e tiene
grandi discorsi, cerca seguaci e diventa egli stesso
seguace, inizia insomma a "credere" in un sistema,
in un vantaggio, egli imposta ogni sua azione nel
rispetto di uno schema sul quale erige una struttura
idealistica, con essa ritiene di poter "istruire"
gli altri e di poter esprimere "la verità".
Ma come è possibile che la verità sia statica, una
cosa prestampata ed immobile, un rigido ideale? Essa
può esser "vera" solo se è vera nel fluire continuo
della vita, assestandosi ed adeguandosi alle
circostanze correnti, essa non sclerotizza gli
eventi, non impone restrizioni, essa respira con
tutto ciò che esiste.
Basarsi su un credo (in positivo od in negativo) per
raccontare la verità è voler dare alle parole un
valore che non hanno... ed in buona sostanza come
nasce la parola?
Il linguaggio attraverso il quale osiamo affermare
"questa è la verità" è molto lontano dalla pura
coscienza. Infatti all'inizio esiste una
consapevolezza astratta, una coscienza intelligente
e non qualificata, da questa sorge il senso dell'io,
l'ego, il quale a sua volta dà origine ai pensieri,
ai concetti, ed infine questi diventano parole e
scrittura.
Quindi il linguaggio è di molto successivo alla
conoscenza innata.
Come è possibile che attraverso la parola si possa
esprimere la verità, cos'è questo se non cieca
arroganza?
Quando noi dichiariamo "questa è la verità" è come
se dicessimo "io so' della Roma perché è la mejio
squadra" e siamo pure convinti, certo, siamo
convinti anche quando diciamo "il cristianesimo è
mejio, l'islam è mejio, l'ateismo è mejio, il
fascismo è mejio, anzi no, è mejio il comunismo.." e
contrario per contrario tutto ciò in cui crediamo "è
sempre mejio!".
Se usiamo adesso un po' di discernimento, non
possiamo far a meno di osservare che ognuna di
queste verità appartiene all'io, è solo ciò in cui
crediamo, ma può esser definita verità una verità
che è solo individuale? Una verità che può essere
descritta?
C'è un antico detto taoista che dice: "il tao che
può esser detto non è il Tao".
E Ramana Maharshi, un saggio dell'India, disse:
"..la verità è nel profondo silenzio del nostro
cuore...".
Purtroppo alcune persone sbandierano la loro verità
ai quattro venti, pretendono di averla trovata in
fantastiche proiezioni della psiche, nelle curiosità
di varie religioni, negli inferni e paradisi, nella
reincarnazione e nel materialismo ateo, perché essi
amano il mistero e non la verità.... Ed in verità a
che servono queste "verità" fasulle, ignorando la
vita del giorno per giorno, del qui ed ora, se non
per speculare sull'immaginario del credere?
Per sperimentare la verità di vita basta stare nella
spontaneità del respiro... senza decidere in
anticipo quando inspirare e quando espirare....
Nel credere invece ci tratteniamo in perenne
apnea....
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