|
|
Religione
Ecologia
Attualità
|
|
Le religioni di origine semitica
e la fine della civiltà europea antica
Paolo D'Arpini
"Madre, cosa posseggo io
Che possa chiamare mio?
Il mio corpo sei tu.
La mia mente sei tu.
La mia anima sei tu.
Perché dunque ti prendi gioco di me
Illudendomi che siamo separati?"
(Saul Arpino)
La frattura fra pensiero occidentale ed orientale,
in merito al concetto di Dio, è avvenuta
sostanzialmente con l'accettazione da parte
dell'occidente della concezione giudaica di un dio
creatore, fatta propria dalla religione cristiana e
successivamente dal quella islamica. Fino a quel
momento, diciamo fino al famoso editto di
Costantino, la realtà degli dei era quella di "forze
naturali" che fungevano da compensatori. Mentre per
la cosiddetta "creazione" si sottintendeva la
presenza di una matrice unica che veniva indicata
come "natura" ("natura naturans" e "natura naturata")
e corrispondeva alla figura di "Grande Madre" della
civiltà neolitica.
Il giudaismo in verità non soltanto identificava in
un dio padre il creatore ma sovvertiva anche
totalmente gli antichi valori "naturalistici", ed il
cristianesimo come pure l'islamismo proseguirono
caparbiamente in quel filone. A dire il vero la
prima spallata alla concezione "naturalistica" della
divinità fu data dalle prime popolazioni ariane che
invasero buona parte del mondo antico e ciò avvenne
circa diecimila anni fa, alla fine del neolitico, in
tempi di molto anteriori alla nascita del credo
monoteista come oggi noi lo conosciamo.
Tuttavia ancora cinquemila anni fa nella cultura
vedica, come in quella sumerica, iraniana, greca,
romana, celtica, ecc., insomma in tutte le culture
di origine indo-europea, pur avendo assunto forme
miste (maschili e femminili) gli dei erano
considerati espressioni della natura e potevano
essere ingraziati attraverso sacrifici, al fine di
ottenerne favori. Vigeva insomma una sorta di
interscambio "do ut des" fra gli dei e l'uomo
(inteso come essere umano nella sua totalità).
Nell'ebraismo invece il rapporto era preferenziale
fra un ipotetico dio creatore e signore ed il suo
popolo prescelto. Ed in verità non si comprende come
le menti raffinate dell'Europa antica e del vicino
oriente siano state soggiogate da un pensiero
esclusivo e misogino che definirei persino razzista.
E' vero che la figura del Cristo si pone come
salvatore di tutte le genti ma ciò avviene senza
negare il bagaglio religioso giudaico, quindi i
cristiani ed i musulmani in un certo senso si son
tutti convertiti all'ebraismo, pur non potendo in
realtà esserlo (poiché ebrei si nasce e non si
diventa).
A mano a mano che le popolazioni europee accettavano
il concetto di un dio padre creatore si
allontanavano sempre più dal pensiero olistico,
tutt'ora vigente in gran parte dell'Oriente, che
continuava a considerare la divinità come una
energia compensativa. Il nome Ishwara, che sta per
Signore in sanscrito, rappresenta la "forza del
destino" ovvero la capacità di amministrare la legge
di causa ed effetto, con relativa retribuzione
karmica. Ma anche questa descrizione di dio era (ed
è) in realtà una "favola" per accontentare il popolo
che sentiva il bisogno di sentirsi riconosciuto nei
suoi sforzi di compiere un cosiddetto "bene"
sociale. Prova ne sia che in India come in Cina, ed
in altri luoghi dell'oriente, perdurarono per
millenni ed ancora perdurano pensieri laici come il
Taoismo, il Buddismo, l'Advaita, etc.
Pensatori come Shankaracharya, Lao Tze e Buddha sono
tutt'oggi considerati all'apice della spiritualità e
dell'intelligenza umana. Ed il loro pensiero, antico
di millenni, è ancora fresco e giovane ed oggi è
corroborato dalla moderna fisica quantistica.
L'Assoluto esiste di per se stesso senza inizio né
fine, in un unicum inscindibile, che tutto
compenetra ed allo stesso tempo trascende. Se un dio
appare è solo una immagine in questo "pieno/vuoto"
del senza forma.
Il tentativo di far rivivere in occidente questa
"conoscenza" ancestrale e preesistente a qualsiasi
religione viene assunto nel tempo presente dalla
cosiddetta "spiritualità laica". Una spiritualità
che si libera dalla gabbia religiosa per riscoprire
la sua vera sostanza: coscienza ed intelligenza
all'interno e materia e vita all'esterno. Due
aspetti inscindibili della stessa manifestazione. Ma
-come è chiaramente detto nelle tradizioni
non-duali, taoiste e buddiste- questa conoscenza non
può essere appresa attraverso lo studio, attraverso
libri sacri.
Non esistono vangeli. Esiste solo la consapevolezza
e questa stessa consapevolezza è il proprio
laboratorio di ricerca e di realizzazione.
In un'antica Upanishad è detto: "Dal Tutto sorge il
Tutto. Se dal Tutto evinci il Tutto, sempre il Tutto
rimane". E consideriamo attentamente dove noi siamo,
in qualsiasi luogo o forma, in qualsiasi tempo, non
possiamo fare a meno di essere il "centro" poiché
nell'infinito e nell'eterno non esiste "periferia" e
separazione. Il sentimento di costante presenza
indivisa, la coscienza dell'inscindibilità della
vita, riconoscibile in ogni suo aspetto e
componente, partendo dal "soggetto" percepente,
insomma la conoscenza "suprema", significa essere
consapevoli che tutto quel che "è" lo è in quanto
tale. Perché l'esistente è uno, non può esserci
"altro"…
Questo sentire non implica un abbandono dell'agire e
del retto comportamento nelle condizioni in cui ci
si trova nell'esistenza, al contrario implica una
assoluta accuratezza e capacità operativa, non
macchiata dal senso di ricompensa.... (come avviene
nelle cosiddette religioni monoteiste). Insomma per
essere veramente liberi dai preconcetti e vivere in
unità con l'esistente dobbiamo compiere il primo
passo verso noi stessi, aldilà del contesto sociale
e della ideologia, concentrando la nostra attenzione
sulle cose che possono essere fatte, per noi stessi
e da noi stessi, nell'immediato presente.
Per cominciare riponiamo fiducia nelle nostre
personali capacità innate di riconoscerci nella
grande espressione dell'esistenza. Questo non
significa abbandono della comunità, anzi una tale
consapevolezza corrisponde alla riscoperta dei
valori della comunità, valori basati sulla propria
autoresponsabilizzazione nei confronti di noi stessi
-in primis- e successivamente verso i nostri
consimili (i viventi nel loro insieme). Questo non
può essere un atteggiamento sentimentale, bensì
operativo, organico, definitivo e totale.
Comprendente i vari piani dell'andamento vitale
senza esclusione di modi e senza eccessi.
Qui parlo anche di "generosità umana" come la
definiscono in Cina i taoisti, una generosità che
non è semplice "benevolenza" (o nonviolenza) bensì
la confacente espressione della propria natura
umana, ivi compresa la capacità (o coraggio) di
manifestare opposizione alla prevaricazione ed alla
strumentalizzazione religiosa o politica. In quanto
la "sostanza" non può essere "descrizione" e la
summa teoretica non può superare la pratica.
|
|
|