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Miti mutanti 8
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Malik, ritratto del boss da
giovane
"Il profeta" -
Jacques Audiard
(Nuovo Sacher)
Le note di "Mack the knife" accompagnano gli ultimi
fotogrammi di un film tanto duro quanto bello.
Certo, dire bello quando la stragrande maggioranza
delle scene si svolge in un carcere, può sembrare
incongruo o inadatto. Eppure non ho altra parola per
definirlo.
È la storia di Malik, un diciannovenne maghrebino,
che, ormai maggiorenne, viene spedito non più in un
reclusorio minorile ma nel carcere degli adulti. E
qui fa il suo duro apprendistato, da giovane
senz'arte né parte (ma certo non un assassino) ad
autorevole boss malavitoso, con tanto di uomini al
suo servizio. E proprio qui, in carcere, grazie alla
"protezione" dello scostante e spietato Cesar
Luciani, un capo della mala corsa protezione non
voluta e pagata con il suo primo omicidio Malik
impara tutto; impara tutto non solo come futuro capo
di una sua banda (e tutte le dinamiche, i giochi, i
trucchi e le psicologie criminali), ma anche a
leggere e scrivere in un buon francese, a parlare
un'altra lingua, il corso, (oltre a parlare
naturalmente l'arabo) e a scoprire l'amicizia e
perfino, alla fine, la responsabilità. Insomma siamo
davanti ad un vero e proprio bildungsroman, un
romanzo di formazione, che nulla concede alla
banalità o alla retorica.
Girato in una maniera puntuale, senza sbavature e in
tempo reale (noi spettatori scopriamo, sentiamo,
reagiamo assieme e accanto al protagonista senza
sapere nulla di come andrà finire, proprio come
Malik), il film inchioda fino alla fine nella
scoperta di un personaggio e di un "mondo" che non è
facile da raccontare con autenticità. E quello che
più mi ha colpito, come all'epoca dell'uscita di "Gomorra"
di Garrone, è la tristezza, la tristezza profonda
per questi ragazzi che, pur intelligenti e "sani"
affettivamente (almeno all'inizio), sembrano non
avere scampo nell'imboccare una via e una vita da
criminali; per sopravvivenza, come recita il
sottotitolo "uccidi o sarai ucciso". E fa venire i
brividi quel suo iniziale:"Io non uccido nessuno",
terrorizzato alla sola idea di uccidere. Davvero uno
spreco di energie, vitalità, intraprendenza, a cui
una società che ha a cuore i propri giovani, e
quindi il proprio stesso futuro e la propria stessa
sopravvivenza, non può non riflettere e, in quelli
che ne hanno la responsabilità politica e sociale,
trovare dei rimedi.
Il regista, Jacques Audiard, ha inserito anche
l'elemento del sogno, con qualche riscontro
profetico, anticipatorio, diciamo, e l'ha fatto con
tocco poetico eppur asciutto. Per non parlare del
senso di colpa che si materializza con il dialogo
allucinatorio tra Malik e l'uomo che ha ucciso.
Brucia e segna profondamente l'assenza dell'elemento
femminile, di un femminile senza il quale la
personalità di un uomo non si struttura in maniera
completa e armoniosa. Il corpo, il sangue, i colpi
subiti e dati, la reclusione, le pulsioni sessuali
represse o svilite, la corsa nella cella
d'isolamento ecc. ecc. rivelano la "barbarie" di
imprigionare in scatole di cemento e sbarre di ferro
dei corpi (e delle menti) di giovani uomini. E
questo giovane uomo (un ragazzo che diventa uomo in
carcere), che subisce anche una forma di razzismo
becera e primitiva, non è affatto "un arabo che
ragiona con l'uccello", come sostiene il capomafia
corso, ma un arabo che supererà il suo (cattivo)
maestro.
Ripeto, è un film magnifico, che si avvale di
interpreti bravissimi: tutti davvero bravissimi, in
ruolo e con volti che non si scordano. Eccellono il
padrino corso impersonato da un coriaceo, rugoso e
gelido Niels Arestrup e il giovane Malik,
l'apprendista criminale, incarnato da un
indimenticabile Tahar Rahim, che col suo volto
rigato da tanti tagli e cicatrici e quel suo corpo,
giovane eppur profondamente inciso da numerosi
segni, mi ha toccato profondamente con questa sua
parabola di intelligente boss in irresistibile
ascesa. Una figura indimenticabile. E la canzone di
"Mack the knife" l'originale tedesco di Brecht e
Weill è "Mackie Messner" accompagna la sua uscita
dal carcere. Ora è pronto. Laureato con tanto di
master a condurre nella vita dei "liberi" quanto ha
appreso nella vita dei reclusi.
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