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Libri a fumetti

LA SINDROME DEL CRONONAUTA
Cronistoria dei viaggi nel tempo a fumetti - seconda parte

Articolo di Andrea Cantucci

Cinema

The helper
di Mario Gardini
The artist
di Mario Gardini
Priscilla, la regina del deserto - il musical
di Mario Gardini
J. Edgar
di Mario Gardini
Hugo Cabret
di Mario Gardini
Paradiso amaro
di Mario Gardini
Quasi amici
di Mario Gardini
Le nevi del Kilimangiaro
di Maria Antonietta Nardone

Teatro

Intervista a Francesco Panizzo: il teatro radice di un impegno artistico
A cura di Alessandro Rizzo
Intervista al regista di Erodias di Testori: Raul Iaiza
A cura di Alessandro Rizzo

Interviste

Filippo Riniolo: l'arte della forma e della semiotica
A cura di Alessandro Rizzo

Fotografia

"Road to the North": la Lapponia attraverso lo sguardo dell'obiettivo: Intervista ad Adriano e Federico, autori della rassegna fotografica
Intervista a cura di Alessandro Rizzo

Miti mutanti 15

Strisce di Andrea Cantucci

Un artista a Coverciano 1

Strisce di Luca Mori

In questo numero segnaliamo...

 


HUGO CABRET
Di Martin Scorsese
Con Asa Butterfield, Ben Kingsley, Chloe Moretz
2011 - USA

11 candidature all'Oscar, un Golden Globe per la migliore regia, più di 60 milioni di dollari incassati nel solo Nord America.
Martin Scorsese per una volta tanto abbandona mafiosi e tassisti paranoici per buttarsi in una storia per ragazzi in pieno stile Oliver Twist tratta da "La straordinaria invenzione di Hugo Cabret" di Brian Selznick. E lo fa con successo.
Si tratta anche del primo film diretto dal regista in 3D e si svolge negli anni '20, a Parigi.

La storia è quella di Hugo Cabret (Asa Butterfield), un ragazzo orfano di madre che da poco ha perso anche il padre in un incendio.
Portato dallo zio ubriacone nella stazione ferroviaria di Montparnasse, Hugo vive nascosto nelle stanze dimenticate spiando la realtà da dietro gli orologi che deve quotidianamente caricare.
Lo zio è sparito e Hugo passa le sue giornate da solo, in compagnia di un automa rotto ereditato dal padre. È convinto che, se mai riuscirà ad aggiustarlo, il robot gli consegnerà un messaggio di suo padre.
L'umanità che gravita intorno ad Hugo è varia e divertente.
C'è il gendarme ferito di guerra segretamente innamorato della bella fioraia, c'è una coppia attempata che si corteggia a colpi di cani, c'è un burbero commerciante (Ben Kingsley) che sottrae a Hugo il taccuino con gli appunti di suo padre e lo obbliga a lavorare per lui.
Hugo ha la passione per il cinema e l'ossessione di voler aggiustare le cose.
Supportato dalla figlioccia del commerciante, Hugo scopre i segreti dell'uomo, un grande regista del passato che si era rifugiato nel suo livore convinto che tutto il mondo si fosse dimenticato del suo genio.
Lungo il suo percorso, Hugo riesce veramente ad aggiustare tutto, anche le vite degli altri. Così riesce a ristabilire l'equilibrio del mondo che lo circonda ed aiutare chiunque entri in contatto con lui a trovare la felicità che gli mancava.
Ma forse è solo la magia del cinema che aiuta ciascuno di noi a vivere i suoi sogni, anche se solo per un paio di ore.

Proprio come "The artist", anche "Hugo Cabret" è una dichiarazione d'amore al grande schermo, che sin dalla locandina rievoca i fasti di Buster Keaton e Charlie Chaplin.
Ma se nel caso del film francese l'entusiasmo può anche essere giustificato, nel film di Scorsese, invece, no.
Hugo Cabret è un colosso d'argilla lungo, manierato, narcisista e pure un po' noioso.
Magari colpisce spesso gli occhi dello spettatore, ma non riesce mai a raggiungergli il cuore.
Gli attori sono bravi, ma funzionali alla trama e non lasciano grandi emozioni dietro di loro. Non per niente, infatti, nessuno di loro è candidato all'Oscar ed i premi riguardano quasi tutti le categorie tecniche.
La regia è buona (e come potrebbe essere diversamente), ma siamo ben lontani da certi piccoli prodigi a cui Scorsese ci aveva abituato nei suoi precedenti lavori.
Si vede che il regista italoamericano se la cava meglio con i bravi ragazzi che con i bambini buoni.

Mario Gardini

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J. EDGAR (2011)
di Clint Eastwood
con Leonardo Di Caprio, Naomi Watts, Armie Hammer, Judi Dench


Clint Eastwood, classe di ferro 1930, a 81 anni suonati firma il suo trentaduesimo lungometraggio da regista e ci racconta vita, morte e miracoli di colui che venne prima di CSI, di Key Scarpetta e, perfino, degli X-Men.
Ovvero di John Edgar Hoover, direttore dell'FBI per quasi cinquant'anni che lavorò sotto otto diversi Presidenti, conoscendo gli scheletri negli armadi di ciascuno di essi.
Succube di una madre religiosa e iperprotettiva, che lo castrò sotto un profilo sessuale, Hoover dedicò la sua vita alla sicurezza degli Stati Uniti d'America e per essa giunse a spiare, millantare e ricattare.
Tolse di circolazione gangster come John Dillinger e George R Kelly, scoprì l'autore dell'omicidio del piccolo Lindbergh e si inventò addirittura arresti pirotecnici mai fatti, diventando così un eroe da fumetti (i G-Men, per l'appunto). Del resto l'America, in quel periodo di criminalità così violenta ed estesa, aveva bisogno di eroi positivi, e J. Edgar Hoover fu proprio ciò che ci voleva.
Fu lui ad introdurre un database di impronte digitali su scala nazionale e ad incentrare le indagini non più sulle prove indiziarie ma su quelle trovate sulla scena del crimine.
Un grande, insomma. Anche se, come tutti i grandi, certi deliri di onnipotenza l'hanno condotto anche ad approfittare del suo enorme potere, spingendolo a perseguitare personaggi come Charlie Chaplin e Martin Luther King i quali, a suo avviso, avevano l'imperdonabile colpa di essere in odore di comunismo.

Il film segue la carriera di Hoover (Leonardo Di Caprio) da "ragazzo di bottega" a uomo più importante della più importante nazione del mondo.
La relazione mancata con Helen Gandy, segretaria personale che rimarrà al suo fianco fino alla fine, l'incontro con Clyde Tolson (Armie Hammer), suo braccio destro per anni e grande amore omosessuale mai accettato, il rapporto conflittuale con la madre adorata (Judi Dench) tracciano il ritratto di un uomo che è sempre in bilico tra demonio e acqua santa, tra il patriottismo più encomiabile e il fanatismo più deprecabile.
Ma del resto l'ambiguità è il comune denominatore di tutti i più grandi personaggi della politica mondiale, per cui giustamente Eastwood si limita ad esporre i fatti senza prendere nessuna posizione.
Fosse stato Oliver Stone, il film avrebbe affondato la lama senza paura. Ma il vecchio Clint è troppo signore per cadere nella polemica, lasciando la sua opera un po' incompleta.
Forse il punto meno credibile è il momento d'intimità tra Tolson e Hoover, dato che non sembra essere suffragato da nessuna prova concreta.
Di sicuro il rapporto tra i due fu alquanto particolare, tanto che Tolson ereditò tutti i beni dell'amico morto d'infarto nel 1972.
Pare che di questo le alte sfere americane ne fossero a conoscenza, ma tutti temevano l'archivio segreto di Hoover. Di sicuro fu un grande burattinaio, probabilmente l'idolo incontrastato del nostro Andreotti. Ma, alla fine, anche un poveretto, che cercava nelle debolezze degli altri una magra consolazione a quelle che non riusciva ad accettare in se stesso.

Punto di forza del film è l'interpretazione di Di Caprio, che torna ai livelli eccelsi già toccati con "The aviator" di Scorsese. Giovane o invecchiato, ha negli occhi la lucida follia di un uomo che si sente in diritto di fare tutto ciò che vuole e, nello stesso tempo, avverte l'insostenibile peso della solitudine a cui lo hanno condannato la sua condizione umana e la sua posizione professionale. Peccato che l'Academy lo abbia ingiustamente dimenticato nelle candidature al Premio Oscar.
Bravissima anche Naomi Watts (irriconoscibile con capelli scuri) nella parte della perfetta segretaria che preferisce la carriera alla vita privata. Purtroppo il suo personaggio è un po' sfuocato, ma l'attrice riesce lo stesso a regalare ai panni sporchi della Storia una dolce nota di malinconia.
Come al solito eccellente Judi Dench nel ruolo della madre-castratrice della serie "meglio un figlio morto che frocio".
Ma la figura più bella è quella di Tolson, ben interpretata da Armie Hammer (già visto in "The social network" nel ruolo dei due gemelli). La sua adorazione per Hoover lo spinse a vivere una vita a metà, ma a lui andava bene lo stesso: l'importante era pranzare e cenare sempre insieme.
Come cantava Vecchioni… "forse non lo sai ma pure questo è amore".

Mario Gardini

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PARADISO AMARO
di Alexander Payne
con George Clooney, Shailene Woodley, Beau Bridges
2011 - USA


Il "Paradiso amaro" del titolo (in originale "The descendants", i discendenti) si riferisce alle Hawaii, isole incantate che per molti rappresentano solo vacanza, mare e surf ma che, in realtà, racchiudono metropoli come Honolulu in cui la gente corre, lavora e soffre come in qualsiasi altra città del mondo.
In questo caso a soffrire è Matt King (George Clooney), avvocato di mezza età alle prese con una moglie in coma irreversibile e la vendita di un ingente pezzo di isola derivante da un trust familiare in scadenza.
Matt è stato un marito distratto ed avaro (come continua a rinfacciargli il suocero davanti al letto di morte della moglie) ed un padre assente.
Peccato che ora si ritrovi costretto a dover rivedere la propria posizione, soprattutto nei confronti della figlia di dieci anni.
Quella di diciassette, invece, bella e ribelle, non tarda a rivelargli uno scottante segreto di famiglia: l'adorata moglie moritura aveva una relazione extraconiugale ed era in procinto di chiedere il divorzio.
Con l'insano masochismo che colpisce le persone in alcuni momenti di grande vulnerabilità emotiva, Matt intraprende insieme alle figlie un viaggio alla ricerca dell'amante della moglie.
La curiosità di vedere il proprio rivale, oltre che di cercare spiegazioni logiche che in realtà non esistono, diventa l'occasione giusta per far sì che l'uomo e le sue figlie smettano di essere tre solitudini distinte e comincino a trasformarsi in un nucleo fatto di affetto oltre che di silenzi e risentimento.
E mentre una famiglia si ritrova, forse un'altra si sfalda. C'est la vie!
Un documentario del National Geographic, due ciotole di gelato e un plaid da dividere aiuteranno a solidificare i legami di sangue mentre il terreno non venduto sarà il giusto tributo agli antenati che hanno saputo trasferire ai loro discendenti la sicurezza economica ma non il dono più prezioso del saper vivere bene.

A tutt'oggi, il film ha incassato più di 75 milioni di dollari solo negli Stati Uniti ed ha vinto due Golden Globe (miglior film drammatico e miglior attore protagonista drammatico).
Va bene per George Clooney, bello e bravo nonostante il trucco lo rende più dimesso che mai, però francamente il film in sé ha una trama già vista e rivista infinite volte.
Quello che la rende diversa è di sicura l'azzeccata ambientazione mentre la colonna sonora ci regala canzoni hawaiane malinconiche e prive di hula.
Gli attori sono tutti bravi e va segnalata la giovane Shailene Woodley nel ruolo della figlia maggiore, la regia di Alexander Payne (A proposito di Schmidt, Sideways) è precisa e calibrata e la fotografia di Phedon Papamichael fa venire voglia di fare subito un "last minute" per Maui.
Ma, alla fine, il film si rivela principalmente un ottimo veicolo per l'affascinante ex dottor Ross che, ancora una volta, ci sorprende con la sua dolente e sentita umanità.
Peccato che la notte degli Oscar si ritroverà contro lo straordinario Jean Dujardin di "The artist", per il quale francamente faccio il tifo.
Mi auguro che anche la statuetta per il miglior film dell'anno venga consegnata in altre mani.
Infatti tutto il buonismo ed il perdono che trasudano da "Paradiso amaro" mi sembrano nascere più dall'esigenza di strizzare l'occhio al boxoffice che da un autentico sentimento di caritas cristiana.

Mario Gardini

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"Povera gente a Marsiglia"

di Maria Antonietta Nardone

"Le nevi del Kilimangiaro"

Titolo originale: Les Neiges du Kilimandjaro (Francia 2011)
Regia: Robert Guédiguian
Sceneggiatura: Robert Guédiguian, Jean-Louis Milesi
Interpreti: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan, Maryline Canto, Grégoire Leprince-Ringuet
Distribuzione: Sacher

Servito da una splendida ed affiatata squadra attori, Robert Guédiguian dirige una parabola sulla ferocia asettica del capitalismo compensata, in qualche modo, da una solidarietà e una coscienza (non tanto o non solo di classe, quanto proprio coscienza, consapevolezza) emozionanti nella loro semplice nudità.
Michel, saldatore al porto di Marsiglia e sindacalista di vecchia data, viene mandato in prepensionamento assieme ad una ventina di persone. Compagni di lavoro, amici e parenti, in occasione del festeggiamento dei suoi trenta anni di matrimonio con Marie Claire, gli regalano i biglietti e i soldi per un viaggio in Tanzania. Durante una partita a carte, a casa, con il suo amico d'infanzia Roul e sua moglie Denise, vengono sorpresi da due giovani incappucciati che li malmenano e li derubano dei biglietti, dei soldi e delle carte di credito. Il trauma è forte ma i quattro reagiscono ciascuno in maniera diversa. Michel riesce a scoprire fortunosamente uno dei due rapinatori: è un suo giovanissimo ex compagno di lavoro, Christophe, che essendo così giovane è stato licenziato senza alcuna indennità, senza alcuna copertura sociale. Denunciatolo alla polizia, Christophe viene arrestato. Ed è proprio qui che grazie alla solare e forte Marie Claire, la quale pronuncia la battuta-chiave dell'intero film "non mi interessa che sia punito o meno; ho bisogno di capire", si innesca un percorso di scoperta e di sofferta maturazione che porterà alla fine ad un risvolto, per la cinica, fredda ed egoista Europa, inaspettato e "scandaloso". I due coniugi vengono a sapere, separatamente, che Christoph ha ventidue anni e bada ai suoi fratelli più piccoli mentre, i rispettivi padri latitanti da sempre, c'è una madre quarantenne che si vanta di sembrare una trentenne e dei suoi tre figli non se ne cura affatto. Sempre separatamente cercano di dare un aiuto concreto ai due fratelli rimasti soli finché non giungono alla medesima conclusione di prendersene cura fino a che Christophe sarà in carcere. Più lento il percorso di Michel, che arriva persino a dubitare della bontà di alcune scelte sindacali da lui stesso approvate (oltre che alla paura di aver tradito i propri ideali giovanili e di essere diventato un tranquillo e un po' ottuso uomo della middle class), mentre la moglie, la determinata eppure dolcissima Marie Claire è immediata e diretta nei suoi slanci e nelle sue azioni. Sembra sorretta da una pacata comprensione delle cose che le fa attraversare le avversità con una chiarezza di giudizio e una trasparenza di sentimenti che è davvero invidiabile. Per entrambi, tuttavia, si profila una coerenza del loro percorso, sociale, esistenziale e politico, che li unisce ancora di più. Il conformismo, la grettezza e l'egoismo sono rappresentati, invece, dai figli di Michel e Marie Claire, lontani veramente anni luce dalla capacità di comprensione e di solidarietà dei loro genitori. Comprensione e solidarietà in cui li seguono la coppia di amici di lunga data, Roul e Denise, nonostante la durezza dello shock che ha colpito soprattutto la donna.
Guédiguian gira con mano felice una storia esemplare sull'odierna condizione del lavoro nella classe operaia francese. E lo fa senza sentenziare tesi e/o teorie (qualche piglio didascalico di troppo non inficia la limpidezza di questa parabola) bensì affidandosi ad una storia con dei personaggi che gioiscono, soffrono, si interrogano, litigano, amano, sbagliano; insomma vivono. E il risultato è mirabile grazie, come scrivevo all'inizio, alla bravura ed alla partecipazione degli interpreti, dei "suoi" interpreti che animano i suoi film da "Marius e Jeannette" a "La ville est tranquille" fino a "Mary Jo e i suoi amori": l'asciutto ma espressivissimo Jean- Pierre Darroussin, la luminosa e meravigliosa Ariane Ascaride (guardare lo spettacolo di quello attraversa il suo volto, il suo sensibilissimo sguardo, lo considero un privilegio), il bel tenebroso dal volto simile ad un apache, il finto burbero e vero tenero Gérard Meylan, e poi Maryline Canto e l'arrabbiato Grégoire Leprince-Ringuet e tutti gli altri, compresi gli stupefacenti, naturalissimi bambini. Un film che si segue fino alla fine con partecipazione asciutta e con il pensiero ben sveglio.

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PRISCILLA, LA REGINA DEL DESERTO - IL MUSICAL
con Simone Leonardi, Antonello Angiolini, Mirko Ranù
Teatro Ciak - Milano


Quando uscì il film, nell'ormai lontano 1994, "Priscilla, la regina del deserto" fu un successo del tutto inaspettato.
Non era consuetudine, sul grande schermo, raccontare storie di drag queen in modo così diretto e, a tratti, anche sboccato.
Invece la storia dei tre amici in viaggio attraverso il deserto australiano per andare a fare uno show ad Alice Springs conquistò la platea (non solo gay) di mezzo mondo.
Pezzi forti del film furono l'utilizzo delle musiche quasi tutte anni '70, i magnifici costumi (per i quali il film vinse il premio Oscar) e l'interpretazione di Terence Stamp in un ruolo ironico decisamente fuori dai suoi standard, che gli fu offerto dopo il rifiuto di Tim Curry (il Frank N. Furter del Rocky Horror Picture Show).
Inoltre fu questo film a rinverdire i fasti degli ABBA, dopo che il gruppo era finito in naftalina da parecchi anni. Da lì in poi giunsero il musical di "Mamma mia!", il film con Meryl Streep e tutto ciò che ne conseguì. Per cui si può dire che Priscilla portò decisamente fortuna al quartetto svedese.

Sulla scia di molti film di successo (come "La bella e la bestia", "Il re leone" e "Sister act") ecco che anche "Priscilla, la regina del deserto" lascia il mondo della celluloide e si trasferisce sul palcoscenico.
In America il musical è prodotto da Bette Midler e pare che sia faraonico. Non avendolo visto non posso fare paragoni con la produzione italiana che, comunque, non mi sembra abbia proprio nulla da invidiare a quella d'oltreoceano.
I costumi sono molto belli, la coreografia divertente e scintillante, le canzoni sono ben orchestrate e ben eseguite e il fatto che gli attori italiani le interpretino nella lingua originale non risulta affatto stonato.
La trama è quella del film. Tick è una drag queen che viene invitata dall'ex moglie ad andare a fare un concerto al suo Casinò in mezzo al deserto. Qui si dovrà interfacciare con il figlio di otto anni il quale non sa nulla della doppia vita del padre.
In questo viaggio che mescola lavoro e vita privata, Tick coinvolge Bernardette, altra drag queen di vecchia data dalle paillettes un po' appannate dal tempo e dalla recente perdita del compagno.
Ai due si aggiunge Adam, un transex giovane e dalla testa calda che finirà col pagare in modo pesante le sue eccessive ostentazioni.
A bordo di un torpedone rosa denominato Priscilla, parte questo musical "on the road" che ci delizia riportandoci alla memoria i grandi cult della disco come "Go west", "Don't leave me this way" e "Pop muzik" (oltre alle ormai iper-inflazionate "I will survive" e "Hot stuff") e altri gioielli della musica anni '80 come "It's raining men", "Girls just want to have fun", "What's love got to do with it" e "Like a prayer".

Gli attori sono bravi. Un applauso speciale a Simone Leonardi nel ruolo di Bernardette, che sfodera voce, grinta ed ironia da tenere testa anche a Terence Stamp.
Anche Mirko Ranù nel ruolo di Adam fa la sua bella figura mentre Antonello Angiolillo, nel ruolo di Mitzi, è il meno impattante dei tre. Forse ha puntato un po' troppo sui chiaroscuri del suo personaggio, dimenticandosi di tirare fuori il glitter necessario per brillare come un'autentica primadonna.
Ottima l'orchestra dal vivo ed anche i coristi aiutano non poco a dare al tutto un ritmo davvero travolgente.
Lo spettacolo si chiude con "We belong", un bel pezzo di Pat Benatar del 1984.
Ma, dato che doveva trattarsi di una dichiarazione d'affetto tra i tre amici che si stanno per separare, forse sarebbe stata più adatta "We are family" delle Sister Sledge.
In fondo la vera famiglia non è quella che ci capita in sorte, ma quella che ci scegliamo da soli.

Mario Gardini

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THE ARTIST
di Michel Hazanavicius
con Jean Dujardin, Berenice Bejo, Penelope Ann Miller
2011 - Francia

Se ci sono piccoli grandi film che fanno bene al cuore, "The artist" è uno di questi.
La trama è semplice (ma non banale), gli attori affascinanti, la musica coinvolgente, i tempi semplicemente perfetti. Non per nulla ha vinto il Golden Globe come miglior film nella categoria commedia o musical ed è candidato a ben 10 premi Oscar.
Il film ci riporta nel 1927, ai tempi del muto, dove Geroge Valentin (Jean Dujardin) è un mix tra Tyrone Power e Errol Flynn, con un pizzico di William Powell ne "L'uomo ombra" (soprattutto per via di un adorabile terrier amico e compagno di set).
George è bello, desiderato, all'apice del successo. Ma anche un po' troppo concentrato su se stesso e sicuro del proprio appeal sul grande pubblico.
Un giorno, per caso, incontra Peppy Miller (Berenice Bejo), una bella ragazza destinata a diventare una futura star la quale si innamora di lui al primo sguardo.
L'avvento del sonoro deciderà le sorti di entrambi. George, rifiutandosi di parlare (in primis con sua moglie), si produrrà una sorta di Indiana Jones autocondannandosi all'insuccesso e all'oblio; Peppy, complice un piccolo neo all'angolo della bocca, suggeritole da George, diventerà la nuova fidanzatina d'America.
Gli anni passano, arriva il giovedì nero di Wall Street, George è obbligato a mettere all'asta la sua vita. Ma Peppy continua a sorvegliarlo nell'ombra, proteggendolo da lontano, attendendo che lo stupido orgoglio dell'artista la smetta di tenerlo lontano sia dal set che da lei.
L'oblio, un incendio e un mezzo tentato suicidio sono solo una parte della lunga discesa negli inferi che George dovrà percorrere prima di accettare che i tempi sono cambiati e, insieme alla sua amata, riciclarsi nei nuovi panni di Fred Astaire e Ginger Rogers.

"The Artist", che sconfigge la noia della cinematografia moderna riportando in vita il genere muto, è un film che parla d'amore, quello cieco ed ostinato di un uomo nei confronti del proprio mito e quello di una donna che, pur potendo avere tutti gli uomini che desidera, si ostina a volere l'unico che le sfugge.
Ma è soprattutto un film d'amore nei confronti del cinema, viste le continue citazioni.
Jean Dujardin prosegue la gloriosa tradizione dei nuovi attori non solo belli, è anche molto bravi. Per il ruolo di George Valentin ha già vinto la Palma d'Oro a Cannes e il Golden Globe ed è molto probabile che il suo nome verrà pronunciato da Natalie Portman la prossima notte degli Oscar.
Berenice Bejo è brava, carina e ricorda in alcune espressioni la nostra Maria Grazia Cucinotta (anche se ha una gamma di espressività a cui l'attrice siciliana non potrebbe aspirare ad avere nemmeno in cento vite).
Bello ritrovare, nel ruolo del produttore burbero ma buono, il bravo John Goodman (I Flinstones, Il grande Lebowski) mentre in quello del fido autista c'è il sensibile James Cromwell (Il miglio verde, Six feet under).
La bella colonna sonora di Ludovic Bource, anch'essa vincitrice del Golden Globe, ci fa capire come a volte una buona musica possa essere molto più efficace di mille parole.
And the Oscar goes to… Huggie, star a quattro zampe molto meno cane di tanti suoi colleghi umani che, per questa sua performance, ha vinto il "Palm Dog Award" al Festival di Cannes.

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THE HELP
di Tate Taylor
con Viola Davis, Octavia Spender, Bryce Dallas Howard
2011 - USA

Quando uscì negli Stati Uniti l'estate scorsa, nemmeno la Disney che lo distribuiva avrebbe mai potuto immaginare un successo di tale portata.
Invece "The help", tratto dal romanzo di Kathryn Stockett, non solo ha incassato fino ad oggi in patria quasi 170 milioni di dollari, ma è candidato a 4 premi Oscar ed ha fatto vincere un Golden Globe a Octavia Spencer come miglior attrice non protagonista nel ruolo di Minny.
La storia si svolge a Jackson, Mississipi, agli inizi degli anni 60.
Mentre le signore bianche annoiate giocano a bridge ed organizzano raccolte fondi per i bambini africani, le cameriere di colore allevano i loro figli e vengono trattate come se fossero una razza inferiore.
In un'America ancora ben "lontana dal paradiso", fatta di casettine color lavanda e di ipocrisie dagli abitini a pois, questo film racconta la storia di un'amicizia tra donne diverse, sia per sensibilità individuale che per il colore della pelle.

Skeeter (Emma Stone) torna a casa dopo l'università e vuole diventare giornalista. Nel giornale locale trova un lavoro: deve rispondere a domande di pulizia domestica, argomento di cui non sa nulla dato che non è molto interessata all'argomento casa e matrimonio.
Così chiede aiuto a Aibileen la domestica di colore di un'amica che ha da poco perso il figlio adolescente.
In parallelo, seguiamo le gesta di Minny (Octavia Spencer), cameriera maltrattata dal marito e da una perfida datrice di lavoro, Hilly (Bryce Dallas Howard), che non vuole che la donna utilizzi il bagno di casa per i suoi bisognini e promuove azioni di legge per far separare i wc dei bianchi da quelli dei neri.
Perso il lavoro a causa di una pipì di troppo, Minny finisce a lavorare da Celia (Jessica Chastain), bionda svampita ma di buon cuore messa al bando dalla buona società di Jackson per ragioni di uomini, la quale troverà nella domestica un'ottima cuoca ed un grande supporto morale.
Nel frattempo Skeeter ha un'idea: perché non scrivere un libro in cui si raccontano storie e soprusi delle cameriere di colore in un'epoca ancora impestata dal Ku Klux Klan?
All'inizio Aibileen rifiuta per paura, ma alla fine la rabbia e la frustrazione a lungo covate avranno il sopravvento e, complice una torta dall'ingrediente segreto ed il supporto di Minny, tutte le domestiche di colore di Jackson collaboreranno al progetto di Skeeter.
Il libro avrà un grande successo, però le due donne saranno costrette a pagarne il prezzo: Skeeter perderà l'amore e Aibileen il lavoro. Ma entrambe scopriranno il valore della dignità e della solidarietà umana.

Bel film tutto al femminile, in cui gli uomini fanno solo insignificanti apparizioni, "The help" vanta un cast eccezionale, splendidamente diretto da Tate Taylor.
Molto belle anche la scenografia e la colonna sonora che ci riportano in pieno "Happy days", anche se si trattava di giorni felici solo per chi nasceva dalla parte giusta e con la testa omologata.
Viola Davis ha negli occhi il dolore di chi ne ha subite troppe e la luce di chi non si piega alle logiche della vita, Octavia Spencer sarebbe perfetta per il ruolo di Mamie nel remake di "Via col vento" (che speriamo nessuno abbia mai l'ardire di fare), e Jessica Chastain ricorda molto la Audrey de "La piccola bottega degli orrori".
Fa piacere anche ritrovare in una piccola parte la grande Sissy Spacek, che già aveva pagato il suo tributo al razzismo nel toccante "La lunga strada verso casa", girato nel 1990 con Whoopi Goldberg.
A proposito di "Happy days", do il mio Oscar personale a Bryce Dallas Howard, figlia del regista Ron Howard (il Richie Cunningham amico di Fonzie), già apprezzata in "The village", "Mandalay" e "Lady in the water". La sua Hilly è di una perfidia degna di Joan Crawford.

Mario Gardini

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