In questo numero segnaliamo...
HUGO CABRET
Di Martin Scorsese
Con Asa Butterfield, Ben Kingsley, Chloe Moretz
2011 - USA
11 candidature all'Oscar, un Golden Globe per la
migliore regia, più di 60 milioni di dollari
incassati nel solo Nord America.
Martin Scorsese per una volta tanto abbandona
mafiosi e tassisti paranoici per buttarsi in una
storia per ragazzi in pieno stile Oliver Twist
tratta da "La straordinaria invenzione di Hugo
Cabret" di Brian Selznick. E lo fa con successo.
Si tratta anche del primo film diretto dal regista
in 3D e si svolge negli anni '20, a Parigi.
La storia è quella di Hugo Cabret (Asa Butterfield),
un ragazzo orfano di madre che da poco ha perso
anche il padre in un incendio.
Portato dallo zio ubriacone nella stazione
ferroviaria di Montparnasse, Hugo vive nascosto
nelle stanze dimenticate spiando la realtà da dietro
gli orologi che deve quotidianamente caricare.
Lo zio è sparito e Hugo passa le sue giornate da
solo, in compagnia di un automa rotto ereditato dal
padre. È convinto che, se mai riuscirà ad
aggiustarlo, il robot gli consegnerà un messaggio di
suo padre.
L'umanità che gravita intorno ad Hugo è varia e
divertente.
C'è il gendarme ferito di guerra segretamente
innamorato della bella fioraia, c'è una coppia
attempata che si corteggia a colpi di cani, c'è un
burbero commerciante (Ben Kingsley) che sottrae a
Hugo il taccuino con gli appunti di suo padre e lo
obbliga a lavorare per lui.
Hugo ha la passione per il cinema e l'ossessione di
voler aggiustare le cose.
Supportato dalla figlioccia del commerciante, Hugo
scopre i segreti dell'uomo, un grande regista del
passato che si era rifugiato nel suo livore convinto
che tutto il mondo si fosse dimenticato del suo
genio.
Lungo il suo percorso, Hugo riesce veramente ad
aggiustare tutto, anche le vite degli altri. Così
riesce a ristabilire l'equilibrio del mondo che lo
circonda ed aiutare chiunque entri in contatto con
lui a trovare la felicità che gli mancava.
Ma forse è solo la magia del cinema che aiuta
ciascuno di noi a vivere i suoi sogni, anche se solo
per un paio di ore.
Proprio come "The artist", anche "Hugo Cabret" è una
dichiarazione d'amore al grande schermo, che sin
dalla locandina rievoca i fasti di Buster Keaton e
Charlie Chaplin.
Ma se nel caso del film francese l'entusiasmo può
anche essere giustificato, nel film di Scorsese,
invece, no.
Hugo Cabret è un colosso d'argilla lungo, manierato,
narcisista e pure un po' noioso.
Magari colpisce spesso gli occhi dello spettatore,
ma non riesce mai a raggiungergli il cuore.
Gli attori sono bravi, ma funzionali alla trama e
non lasciano grandi emozioni dietro di loro. Non per
niente, infatti, nessuno di loro è candidato
all'Oscar ed i premi riguardano quasi tutti le
categorie tecniche.
La regia è buona (e come potrebbe essere
diversamente), ma siamo ben lontani da certi piccoli
prodigi a cui Scorsese ci aveva abituato nei suoi
precedenti lavori.
Si vede che il regista italoamericano se la cava
meglio con i bravi ragazzi che con i bambini buoni.
Mario Gardini
* * *
J. EDGAR (2011)
di Clint Eastwood
con Leonardo Di Caprio, Naomi Watts, Armie Hammer,
Judi Dench
Clint Eastwood, classe di ferro 1930, a 81 anni
suonati firma il suo trentaduesimo lungometraggio da
regista e ci racconta vita, morte e miracoli di
colui che venne prima di CSI, di Key Scarpetta e,
perfino, degli X-Men.
Ovvero di John Edgar Hoover, direttore dell'FBI per
quasi cinquant'anni che lavorò sotto otto diversi
Presidenti, conoscendo gli scheletri negli armadi di
ciascuno di essi.
Succube di una madre religiosa e iperprotettiva, che
lo castrò sotto un profilo sessuale, Hoover dedicò
la sua vita alla sicurezza degli Stati Uniti
d'America e per essa giunse a spiare, millantare e
ricattare.
Tolse di circolazione gangster come John Dillinger e
George R Kelly, scoprì l'autore dell'omicidio del
piccolo Lindbergh e si inventò addirittura arresti
pirotecnici mai fatti, diventando così un eroe da
fumetti (i G-Men, per l'appunto). Del resto
l'America, in quel periodo di criminalità così
violenta ed estesa, aveva bisogno di eroi positivi,
e J. Edgar Hoover fu proprio ciò che ci voleva.
Fu lui ad introdurre un database di impronte
digitali su scala nazionale e ad incentrare le
indagini non più sulle prove indiziarie ma su quelle
trovate sulla scena del crimine.
Un grande, insomma. Anche se, come tutti i grandi,
certi deliri di onnipotenza l'hanno condotto anche
ad approfittare del suo enorme potere, spingendolo a
perseguitare personaggi come Charlie Chaplin e
Martin Luther King i quali, a suo avviso, avevano
l'imperdonabile colpa di essere in odore di
comunismo.
Il film segue la carriera di Hoover (Leonardo Di
Caprio) da "ragazzo di bottega" a uomo più
importante della più importante nazione del mondo.
La relazione mancata con Helen Gandy, segretaria
personale che rimarrà al suo fianco fino alla fine,
l'incontro con Clyde Tolson (Armie Hammer), suo
braccio destro per anni e grande amore omosessuale
mai accettato, il rapporto conflittuale con la madre
adorata (Judi Dench) tracciano il ritratto di un
uomo che è sempre in bilico tra demonio e acqua
santa, tra il patriottismo più encomiabile e il
fanatismo più deprecabile.
Ma del resto l'ambiguità è il comune denominatore di
tutti i più grandi personaggi della politica
mondiale, per cui giustamente Eastwood si limita ad
esporre i fatti senza prendere nessuna posizione.
Fosse stato Oliver Stone, il film avrebbe affondato
la lama senza paura. Ma il vecchio Clint è troppo
signore per cadere nella polemica, lasciando la sua
opera un po' incompleta.
Forse il punto meno credibile è il momento
d'intimità tra Tolson e Hoover, dato che non sembra
essere suffragato da nessuna prova concreta.
Di sicuro il rapporto tra i due fu alquanto
particolare, tanto che Tolson ereditò tutti i beni
dell'amico morto d'infarto nel 1972.
Pare che di questo le alte sfere americane ne
fossero a conoscenza, ma tutti temevano l'archivio
segreto di Hoover. Di sicuro fu un grande
burattinaio, probabilmente l'idolo incontrastato del
nostro Andreotti. Ma, alla fine, anche un poveretto,
che cercava nelle debolezze degli altri una magra
consolazione a quelle che non riusciva ad accettare
in se stesso.
Punto di forza del film è l'interpretazione di Di
Caprio, che torna ai livelli eccelsi già toccati con
"The aviator" di Scorsese. Giovane o invecchiato, ha
negli occhi la lucida follia di un uomo che si sente
in diritto di fare tutto ciò che vuole e, nello
stesso tempo, avverte l'insostenibile peso della
solitudine a cui lo hanno condannato la sua
condizione umana e la sua posizione professionale.
Peccato che l'Academy lo abbia ingiustamente
dimenticato nelle candidature al Premio Oscar.
Bravissima anche Naomi Watts (irriconoscibile con
capelli scuri) nella parte della perfetta segretaria
che preferisce la carriera alla vita privata.
Purtroppo il suo personaggio è un po' sfuocato, ma
l'attrice riesce lo stesso a regalare ai panni
sporchi della Storia una dolce nota di malinconia.
Come al solito eccellente Judi Dench nel ruolo della
madre-castratrice della serie "meglio un figlio
morto che frocio".
Ma la figura più bella è quella di Tolson, ben
interpretata da Armie Hammer (già visto in "The
social network" nel ruolo dei due gemelli). La sua
adorazione per Hoover lo spinse a vivere una vita a
metà, ma a lui andava bene lo stesso: l'importante
era pranzare e cenare sempre insieme.
Come cantava Vecchioni… "forse non lo sai ma pure
questo è amore".
Mario Gardini
* * *
PARADISO AMARO
di Alexander Payne
con George Clooney, Shailene Woodley, Beau Bridges
2011 - USA
Il "Paradiso amaro" del titolo (in originale "The
descendants", i discendenti) si riferisce alle
Hawaii, isole incantate che per molti rappresentano
solo vacanza, mare e surf ma che, in realtà,
racchiudono metropoli come Honolulu in cui la gente
corre, lavora e soffre come in qualsiasi altra città
del mondo.
In questo caso a soffrire è Matt King (George
Clooney), avvocato di mezza età alle prese con una
moglie in coma irreversibile e la vendita di un
ingente pezzo di isola derivante da un trust
familiare in scadenza.
Matt è stato un marito distratto ed avaro (come
continua a rinfacciargli il suocero davanti al letto
di morte della moglie) ed un padre assente.
Peccato che ora si ritrovi costretto a dover
rivedere la propria posizione, soprattutto nei
confronti della figlia di dieci anni.
Quella di diciassette, invece, bella e ribelle, non
tarda a rivelargli uno scottante segreto di
famiglia: l'adorata moglie moritura aveva una
relazione extraconiugale ed era in procinto di
chiedere il divorzio.
Con l'insano masochismo che colpisce le persone in
alcuni momenti di grande vulnerabilità emotiva, Matt
intraprende insieme alle figlie un viaggio alla
ricerca dell'amante della moglie.
La curiosità di vedere il proprio rivale, oltre che
di cercare spiegazioni logiche che in realtà non
esistono, diventa l'occasione giusta per far sì che
l'uomo e le sue figlie smettano di essere tre
solitudini distinte e comincino a trasformarsi in un
nucleo fatto di affetto oltre che di silenzi e
risentimento.
E mentre una famiglia si ritrova, forse un'altra si
sfalda. C'est la vie!
Un documentario del National Geographic, due ciotole
di gelato e un plaid da dividere aiuteranno a
solidificare i legami di sangue mentre il terreno
non venduto sarà il giusto tributo agli antenati che
hanno saputo trasferire ai loro discendenti la
sicurezza economica ma non il dono più prezioso del
saper vivere bene.
A tutt'oggi, il film ha incassato più di 75 milioni
di dollari solo negli Stati Uniti ed ha vinto due
Golden Globe (miglior film drammatico e miglior
attore protagonista drammatico).
Va bene per George Clooney, bello e bravo nonostante
il trucco lo rende più dimesso che mai, però
francamente il film in sé ha una trama già vista e
rivista infinite volte.
Quello che la rende diversa è di sicura l'azzeccata
ambientazione mentre la colonna sonora ci regala
canzoni hawaiane malinconiche e prive di hula.
Gli attori sono tutti bravi e va segnalata la
giovane Shailene Woodley nel ruolo della figlia
maggiore, la regia di Alexander Payne (A proposito
di Schmidt, Sideways) è precisa e calibrata e la
fotografia di Phedon Papamichael fa venire voglia di
fare subito un "last minute" per Maui.
Ma, alla fine, il film si rivela principalmente un
ottimo veicolo per l'affascinante ex dottor Ross
che, ancora una volta, ci sorprende con la sua
dolente e sentita umanità.
Peccato che la notte degli Oscar si ritroverà contro
lo straordinario Jean Dujardin di "The artist", per
il quale francamente faccio il tifo.
Mi auguro che anche la statuetta per il miglior film
dell'anno venga consegnata in altre mani.
Infatti tutto il buonismo ed il perdono che
trasudano da "Paradiso amaro" mi sembrano nascere
più dall'esigenza di strizzare l'occhio al boxoffice
che da un autentico sentimento di caritas cristiana.
Mario Gardini
* * *
"Povera gente a Marsiglia"
di Maria Antonietta Nardone
"Le nevi del Kilimangiaro"
Titolo originale: Les Neiges du Kilimandjaro
(Francia 2011)
Regia: Robert Guédiguian
Sceneggiatura: Robert Guédiguian, Jean-Louis Milesi
Interpreti: Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin,
Gérard Meylan, Maryline Canto, Grégoire
Leprince-Ringuet
Distribuzione: Sacher
Servito da una splendida ed affiatata squadra
attori, Robert Guédiguian dirige una parabola sulla
ferocia asettica del capitalismo compensata, in
qualche modo, da una solidarietà e una coscienza
(non tanto o non solo di classe, quanto proprio
coscienza, consapevolezza) emozionanti nella loro
semplice nudità.
Michel, saldatore al porto di Marsiglia e
sindacalista di vecchia data, viene mandato in
prepensionamento assieme ad una ventina di persone.
Compagni di lavoro, amici e parenti, in occasione
del festeggiamento dei suoi trenta anni di
matrimonio con Marie Claire, gli regalano i
biglietti e i soldi per un viaggio in Tanzania.
Durante una partita a carte, a casa, con il suo
amico d'infanzia Roul e sua moglie Denise, vengono
sorpresi da due giovani incappucciati che li
malmenano e li derubano dei biglietti, dei soldi e
delle carte di credito. Il trauma è forte ma i
quattro reagiscono ciascuno in maniera diversa.
Michel riesce a scoprire fortunosamente uno dei due
rapinatori: è un suo giovanissimo ex compagno di
lavoro, Christophe, che essendo così giovane è stato
licenziato senza alcuna indennità, senza alcuna
copertura sociale. Denunciatolo alla polizia,
Christophe viene arrestato. Ed è proprio qui che
grazie alla solare e forte Marie Claire, la quale
pronuncia la battuta-chiave dell'intero film "non mi
interessa che sia punito o meno; ho bisogno di
capire", si innesca un percorso di scoperta e di
sofferta maturazione che porterà alla fine ad un
risvolto, per la cinica, fredda ed egoista Europa,
inaspettato e "scandaloso". I due coniugi vengono a
sapere, separatamente, che Christoph ha ventidue
anni e bada ai suoi fratelli più piccoli mentre, i
rispettivi padri latitanti da sempre, c'è una madre
quarantenne che si vanta di sembrare una trentenne e
dei suoi tre figli non se ne cura affatto. Sempre
separatamente cercano di dare un aiuto concreto ai
due fratelli rimasti soli finché non giungono alla
medesima conclusione di prendersene cura fino a che
Christophe sarà in carcere. Più lento il percorso di
Michel, che arriva persino a dubitare della bontà di
alcune scelte sindacali da lui stesso approvate
(oltre che alla paura di aver tradito i propri
ideali giovanili e di essere diventato un tranquillo
e un po' ottuso uomo della middle class), mentre la
moglie, la determinata eppure dolcissima Marie
Claire è immediata e diretta nei suoi slanci e nelle
sue azioni. Sembra sorretta da una pacata
comprensione delle cose che le fa attraversare le
avversità con una chiarezza di giudizio e una
trasparenza di sentimenti che è davvero invidiabile.
Per entrambi, tuttavia, si profila una coerenza del
loro percorso, sociale, esistenziale e politico, che
li unisce ancora di più. Il conformismo, la
grettezza e l'egoismo sono rappresentati, invece,
dai figli di Michel e Marie Claire, lontani
veramente anni luce dalla capacità di comprensione e
di solidarietà dei loro genitori. Comprensione e
solidarietà in cui li seguono la coppia di amici di
lunga data, Roul e Denise, nonostante la durezza
dello shock che ha colpito soprattutto la donna.
Guédiguian gira con mano felice una storia esemplare
sull'odierna condizione del lavoro nella classe
operaia francese. E lo fa senza sentenziare tesi e/o
teorie (qualche piglio didascalico di troppo non
inficia la limpidezza di questa parabola) bensì
affidandosi ad una storia con dei personaggi che
gioiscono, soffrono, si interrogano, litigano,
amano, sbagliano; insomma vivono. E il risultato è
mirabile grazie, come scrivevo all'inizio, alla
bravura ed alla partecipazione degli interpreti, dei
"suoi" interpreti che animano i suoi film da "Marius
e Jeannette" a "La ville est tranquille" fino a
"Mary Jo e i suoi amori": l'asciutto ma
espressivissimo Jean- Pierre Darroussin, la luminosa
e meravigliosa Ariane Ascaride (guardare lo
spettacolo di quello attraversa il suo volto, il suo
sensibilissimo sguardo, lo considero un privilegio),
il bel tenebroso dal volto simile ad un apache, il
finto burbero e vero tenero Gérard Meylan, e poi
Maryline Canto e l'arrabbiato Grégoire
Leprince-Ringuet e tutti gli altri, compresi gli
stupefacenti, naturalissimi bambini. Un film che si
segue fino alla fine con partecipazione asciutta e
con il pensiero ben sveglio.
* * *
PRISCILLA, LA REGINA DEL DESERTO - IL MUSICAL
con Simone Leonardi, Antonello Angiolini, Mirko Ranù
Teatro Ciak - Milano
Quando uscì il film, nell'ormai lontano 1994,
"Priscilla, la regina del deserto" fu un successo
del tutto inaspettato.
Non era consuetudine, sul grande schermo, raccontare
storie di drag queen in modo così diretto e, a
tratti, anche sboccato.
Invece la storia dei tre amici in viaggio attraverso
il deserto australiano per andare a fare uno show ad
Alice Springs conquistò la platea (non solo gay) di
mezzo mondo.
Pezzi forti del film furono l'utilizzo delle musiche
quasi tutte anni '70, i magnifici costumi (per i
quali il film vinse il premio Oscar) e
l'interpretazione di Terence Stamp in un ruolo
ironico decisamente fuori dai suoi standard, che gli
fu offerto dopo il rifiuto di Tim Curry (il Frank N.
Furter del Rocky Horror Picture Show).
Inoltre fu questo film a rinverdire i fasti degli
ABBA, dopo che il gruppo era finito in naftalina da
parecchi anni. Da lì in poi giunsero il musical di
"Mamma mia!", il film con Meryl Streep e tutto ciò
che ne conseguì. Per cui si può dire che Priscilla
portò decisamente fortuna al quartetto svedese.
Sulla scia di molti film di successo (come "La bella
e la bestia", "Il re leone" e "Sister act") ecco che
anche "Priscilla, la regina del deserto" lascia il
mondo della celluloide e si trasferisce sul
palcoscenico.
In America il musical è prodotto da Bette Midler e
pare che sia faraonico. Non avendolo visto non posso
fare paragoni con la produzione italiana che,
comunque, non mi sembra abbia proprio nulla da
invidiare a quella d'oltreoceano.
I costumi sono molto belli, la coreografia
divertente e scintillante, le canzoni sono ben
orchestrate e ben eseguite e il fatto che gli attori
italiani le interpretino nella lingua originale non
risulta affatto stonato.
La trama è quella del film. Tick è una drag queen
che viene invitata dall'ex moglie ad andare a fare
un concerto al suo Casinò in mezzo al deserto. Qui
si dovrà interfacciare con il figlio di otto anni il
quale non sa nulla della doppia vita del padre.
In questo viaggio che mescola lavoro e vita privata,
Tick coinvolge Bernardette, altra drag queen di
vecchia data dalle paillettes un po' appannate dal
tempo e dalla recente perdita del compagno.
Ai due si aggiunge Adam, un transex giovane e dalla
testa calda che finirà col pagare in modo pesante le
sue eccessive ostentazioni.
A bordo di un torpedone rosa denominato Priscilla,
parte questo musical "on the road" che ci delizia
riportandoci alla memoria i grandi cult della disco
come "Go west", "Don't leave me this way" e "Pop
muzik" (oltre alle ormai iper-inflazionate "I will
survive" e "Hot stuff") e altri gioielli della
musica anni '80 come "It's raining men", "Girls just
want to have fun", "What's love got to do with it" e
"Like a prayer".
Gli attori sono bravi. Un applauso speciale a Simone
Leonardi nel ruolo di Bernardette, che sfodera voce,
grinta ed ironia da tenere testa anche a Terence
Stamp.
Anche Mirko Ranù nel ruolo di Adam fa la sua bella
figura mentre Antonello Angiolillo, nel ruolo di
Mitzi, è il meno impattante dei tre. Forse ha
puntato un po' troppo sui chiaroscuri del suo
personaggio, dimenticandosi di tirare fuori il
glitter necessario per brillare come un'autentica
primadonna.
Ottima l'orchestra dal vivo ed anche i coristi
aiutano non poco a dare al tutto un ritmo davvero
travolgente.
Lo spettacolo si chiude con "We belong", un bel
pezzo di Pat Benatar del 1984.
Ma, dato che doveva trattarsi di una dichiarazione
d'affetto tra i tre amici che si stanno per
separare, forse sarebbe stata più adatta "We are
family" delle Sister Sledge.
In fondo la vera famiglia non è quella che ci capita
in sorte, ma quella che ci scegliamo da soli.
Mario Gardini
* * *
THE ARTIST
di Michel Hazanavicius
con Jean Dujardin, Berenice Bejo, Penelope Ann
Miller
2011 - Francia
Se ci sono piccoli grandi film che fanno bene al
cuore, "The artist" è uno di questi.
La trama è semplice (ma non banale), gli attori
affascinanti, la musica coinvolgente, i tempi
semplicemente perfetti. Non per nulla ha vinto il
Golden Globe come miglior film nella categoria
commedia o musical ed è candidato a ben 10 premi
Oscar.
Il film ci riporta nel 1927, ai tempi del muto, dove
Geroge Valentin (Jean Dujardin) è un mix tra Tyrone
Power e Errol Flynn, con un pizzico di William
Powell ne "L'uomo ombra" (soprattutto per via di un
adorabile terrier amico e compagno di set).
George è bello, desiderato, all'apice del successo.
Ma anche un po' troppo concentrato su se stesso e
sicuro del proprio appeal sul grande pubblico.
Un giorno, per caso, incontra Peppy Miller (Berenice
Bejo), una bella ragazza destinata a diventare una
futura star la quale si innamora di lui al primo
sguardo.
L'avvento del sonoro deciderà le sorti di entrambi.
George, rifiutandosi di parlare (in primis con sua
moglie), si produrrà una sorta di Indiana Jones
autocondannandosi all'insuccesso e all'oblio; Peppy,
complice un piccolo neo all'angolo della bocca,
suggeritole da George, diventerà la nuova
fidanzatina d'America.
Gli anni passano, arriva il giovedì nero di Wall
Street, George è obbligato a mettere all'asta la sua
vita. Ma Peppy continua a sorvegliarlo nell'ombra,
proteggendolo da lontano, attendendo che lo stupido
orgoglio dell'artista la smetta di tenerlo lontano
sia dal set che da lei.
L'oblio, un incendio e un mezzo tentato suicidio
sono solo una parte della lunga discesa negli inferi
che George dovrà percorrere prima di accettare che i
tempi sono cambiati e, insieme alla sua amata,
riciclarsi nei nuovi panni di Fred Astaire e Ginger
Rogers.
"The Artist", che sconfigge la noia della
cinematografia moderna riportando in vita il genere
muto, è un film che parla d'amore, quello cieco ed
ostinato di un uomo nei confronti del proprio mito e
quello di una donna che, pur potendo avere tutti gli
uomini che desidera, si ostina a volere l'unico che
le sfugge.
Ma è soprattutto un film d'amore nei confronti del
cinema, viste le continue citazioni.
Jean Dujardin prosegue la gloriosa tradizione dei
nuovi attori non solo belli, è anche molto bravi.
Per il ruolo di George Valentin ha già vinto la
Palma d'Oro a Cannes e il Golden Globe ed è molto
probabile che il suo nome verrà pronunciato da
Natalie Portman la prossima notte degli Oscar.
Berenice Bejo è brava, carina e ricorda in alcune
espressioni la nostra Maria Grazia Cucinotta (anche
se ha una gamma di espressività a cui l'attrice
siciliana non potrebbe aspirare ad avere nemmeno in
cento vite).
Bello ritrovare, nel ruolo del produttore burbero ma
buono, il bravo John Goodman (I Flinstones, Il
grande Lebowski) mentre in quello del fido autista
c'è il sensibile James Cromwell (Il miglio verde,
Six feet under).
La bella colonna sonora di Ludovic Bource, anch'essa
vincitrice del Golden Globe, ci fa capire come a
volte una buona musica possa essere molto più
efficace di mille parole.
And the Oscar goes to… Huggie, star a quattro zampe
molto meno cane di tanti suoi colleghi umani che,
per questa sua performance, ha vinto il "Palm Dog
Award" al Festival di Cannes.
* * *
THE HELP
di Tate Taylor
con Viola Davis, Octavia Spender, Bryce Dallas
Howard
2011 - USA
Quando uscì negli Stati Uniti l'estate scorsa,
nemmeno la Disney che lo distribuiva avrebbe mai
potuto immaginare un successo di tale portata.
Invece "The help", tratto dal romanzo di Kathryn
Stockett, non solo ha incassato fino ad oggi in
patria quasi 170 milioni di dollari, ma è candidato
a 4 premi Oscar ed ha fatto vincere un Golden Globe
a Octavia Spencer come miglior attrice non
protagonista nel ruolo di Minny.
La storia si svolge a Jackson, Mississipi, agli
inizi degli anni 60.
Mentre le signore bianche annoiate giocano a bridge
ed organizzano raccolte fondi per i bambini
africani, le cameriere di colore allevano i loro
figli e vengono trattate come se fossero una razza
inferiore.
In un'America ancora ben "lontana dal paradiso",
fatta di casettine color lavanda e di ipocrisie
dagli abitini a pois, questo film racconta la storia
di un'amicizia tra donne diverse, sia per
sensibilità individuale che per il colore della
pelle.
Skeeter (Emma Stone) torna a casa dopo l'università
e vuole diventare giornalista. Nel giornale locale
trova un lavoro: deve rispondere a domande di
pulizia domestica, argomento di cui non sa nulla
dato che non è molto interessata all'argomento casa
e matrimonio.
Così chiede aiuto a Aibileen la domestica di colore
di un'amica che ha da poco perso il figlio
adolescente.
In parallelo, seguiamo le gesta di Minny (Octavia
Spencer), cameriera maltrattata dal marito e da una
perfida datrice di lavoro, Hilly (Bryce Dallas
Howard), che non vuole che la donna utilizzi il
bagno di casa per i suoi bisognini e promuove azioni
di legge per far separare i wc dei bianchi da quelli
dei neri.
Perso il lavoro a causa di una pipì di troppo, Minny
finisce a lavorare da Celia (Jessica Chastain),
bionda svampita ma di buon cuore messa al bando
dalla buona società di Jackson per ragioni di
uomini, la quale troverà nella domestica un'ottima
cuoca ed un grande supporto morale.
Nel frattempo Skeeter ha un'idea: perché non
scrivere un libro in cui si raccontano storie e
soprusi delle cameriere di colore in un'epoca ancora
impestata dal Ku Klux Klan?
All'inizio Aibileen rifiuta per paura, ma alla fine
la rabbia e la frustrazione a lungo covate avranno
il sopravvento e, complice una torta
dall'ingrediente segreto ed il supporto di Minny,
tutte le domestiche di colore di Jackson
collaboreranno al progetto di Skeeter.
Il libro avrà un grande successo, però le due donne
saranno costrette a pagarne il prezzo: Skeeter
perderà l'amore e Aibileen il lavoro. Ma entrambe
scopriranno il valore della dignità e della
solidarietà umana.
Bel film tutto al femminile, in cui gli uomini fanno
solo insignificanti apparizioni, "The help" vanta un
cast eccezionale, splendidamente diretto da Tate
Taylor.
Molto belle anche la scenografia e la colonna sonora
che ci riportano in pieno "Happy days", anche se si
trattava di giorni felici solo per chi nasceva dalla
parte giusta e con la testa omologata.
Viola Davis ha negli occhi il dolore di chi ne ha
subite troppe e la luce di chi non si piega alle
logiche della vita, Octavia Spencer sarebbe perfetta
per il ruolo di Mamie nel remake di "Via col vento"
(che speriamo nessuno abbia mai l'ardire di fare), e
Jessica Chastain ricorda molto la Audrey de "La
piccola bottega degli orrori".
Fa piacere anche ritrovare in una piccola parte la
grande Sissy Spacek, che già aveva pagato il suo
tributo al razzismo nel toccante "La lunga strada
verso casa", girato nel 1990 con Whoopi Goldberg.
A proposito di "Happy days", do il mio Oscar
personale a Bryce Dallas Howard, figlia del regista
Ron Howard (il Richie Cunningham amico di Fonzie),
già apprezzata in "The village", "Mandalay" e "Lady
in the water". La sua Hilly è di una perfidia degna
di Joan Crawford.
Mario Gardini
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