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Filippo Riniolo:
l'arte della forma e della semiotica
Filippo Riniolo proviene da
una formazione complessa come artisti, seppure lui
la definisca uno dei più "classici dei cursus
honorum". Viene definito artista queer, ma riprende
il concetto inglese del termine considerando che la
sua intenzione è di rivolgersi a un pubblico
differente a cui inviare messaggi producendo "dei
segni significativi per tutte le minoranze che hanno
bisogno di trovare il modo di esprimere la loro
oppressione, denunciare la sua illegittimità". E
conclude con una massima che definisce la sua
produzione: "i miei lavori partono da intuizioni ma
non sono delle "trovate divertenti", individuando,
così, l'opera di elaborazione e di approfondimento
di ogni idea e di ogni opera prima della sua
realizzazione. Lo abbiamo intervistato e chi volesse
assaporare le prime sue opere può andare sul suo
sito,
www.filipporiniolo.it
1. Filippo, ti formi all'Accademia delle Belle
Arti di Roma, sei grafico, hai frequentato
l'Istituto d'Arte. Che cosa questa formazione
complessa ha apportato alla definizione della tua
poetica artistica?
Il mio è il più classico dei "cursus honorum" per un
artista. L'istituto d'arte mi ha dato la possibilità
di non chiudermi nell'astrazione teorica, quasi
autoreferenziale, di molta arte contemporanea. Ho
potuto rapportarmi con i materiali, gli oggetti, le
immagini con una certa praticità. Non sono un
artista esclusivamente concettuale, perché non
rifiuto la tecnica, né un artista moderno che lavora
esclusivamente nella tecnica (come un pittore). La
mia ricerca è nelle pieghe della tecnica, ovvero
cerco di restituire, attraverso i miei lavori, le
implicazioni intellettuali che questa porta con sé.
2. Ti definiscono in diversi contesti un "artista
queer": che cosa si intende contenutisticamente e
stilisticamente con questo termine?
Artista queer… Innazitutto c'è da stabilire lo
scollamento fra il termine queer nel mondo
accademico anglosassone e il significato che ha
assunto nel nostro paese. Nel resto del mondo questo
termine rimanda ad una disciplina, figlia della
comparatistica e soprattutto della filosofia di
Foucault, che vorrebbe superare lo stesso concetto
di maschio e femmina, o di etero e gay. In Italia si
usa, invece, per lo più come sinonimo di gay o come
contenitore per l'intera sigla LGBT.
Personalmente mi rifaccio alla teoria diciamo
classica dei "queer studies" e i miei lavori partono
dall'idea che la verità non esiste in modo assoluto,
ma che si aggreghi intorno a parole, concetti,
segni. Ogni mia opera vorrebbe essere un
segno/oggetto/forma utile a leggere la realtà di
oggi.
Allo stesso tempo, sono anche scettico nei confronti
della filosofia foucaultiana: comprendo i limiti del
mettere in discussione eternamente qualsiasi verità,
addirittura fino a negare l'esistenza dell'essere
gay in un calderone perennemente caotico. La mia
ricerca è, quindi, un superamento del post moderno e
di questa negazione perentoria della realtà.
3. Quali sono le opere che consideri maggiormente
rappresentative della tua produzione artistica?
Non ho opere preferite; potrei sostenere, quindi,
che siano quelle che ho in cantiere e che sto
preparando. Se devo comunque individuarne una, credo
che sia "A cosa serve Ichino", realizzata in due
versioni, una al neon e una in metallo. La prima si
trova al CIAC, Centro Internazionale d'Arte
Contemporanea di Genazzano, l'altra è esposta a
Venezia al S.A.L.E. Dock, nei magazzini del sale a
punta della dogana. L'opera è una scritta che ha la
forma dell'insegna che campeggia sul campo di
concentramento di Auschwitz, ma presenta
un'iscrizione diversa. Invece di "Arbeit macht frei"
si può leggere " Lifelong learning". Così a livello
formale si passa dallo slogan per eccellenza del
'900, un secolo costruito su narrazioni del lavoro,
allo slogan attuale: studiare tutta la vita. La
formazione permanente, più che condivisibile come
idea e slogan, ma che in qualche modo è diventata
una condanna costringendo i giovani alla precarietà
perenne: quindi un parallelo sulla "forma" dello
slogan e sulla struttura socioeconomica. Sul titolo,
molto controverso, vi rimando a ulteriori ricerche.
Vi dico solo che l'opera ha tre anni ma, ahinoi, è
ancora troppo attuale. Lo trovate, con altre opere
sul sito:
www.filipporiniolo.it
4. Ti rifai a correnti particolari, hai degli
artisti di riferimento precisi, oppure possiamo dire
che la tua poetica è libera e pienamente
postmoderna, nella sua ecletticità?
Ho degli artisti che mi hanno segnato molto,
dall'immancabile Douchamp ad Alighiero Boetti. Ho
molti altri artisti nel mio olimpo personale, ma non
mi rifaccio a nessuna corrente nello specifico.
Nonostante questo, però, non mi definirei
postmoderno, perché nella mia generazione c'è uno
scarto che è bene rintracciare, un'attitudine al
rapporto con la verità di cui parlavo prima ed una
critica al mercato dell'arte più consapevole,
complice forse la crisi economica e il crollare di
alcuni modelli finanziari nell'arte, tutto ciò non
si può definire un'avanguardia, né forse una
corrente. Direi che è un'attitudine.
5. Quali sono stati finora i riscontri che hai
avuto da parte del pubblico?
Il pubblico dell'arte contemporanea funziona sempre
nello stesso modo. Quando al vernissage è sazio a
sufficienza verrà a farti i complimenti per il tuo
lavoro e a darti molte pacche sulle spalle. Sono
molto fortunato perché ho curatori e critici più
adulti e preparati che, successivamente, negli
studiovisit o più semplicemente a cena, faranno
delle valutazioni ponderate sul mio lavoro e sulla
mia crescita artistica. Sono sempre più convinto che
solo in un clima confidenziale, che non vuol dire
amichevole, siamo pur sempre in un ambito
lavorativo, si possano esprimere critiche
costruttive e complesse. Raramente questo si può
fare dalle colonne di un quotidiano o di un
settimanale.
6. A quale target di pubblico ti rivolgi, se si
può definire una categoria precisa e identificata a
cui ti rivolgi?
Non posso definire un target a cui rivolgermi.
Diciamo, però, che vorrei produrre dei segni
significativi per tutte le minoranze che hanno
bisogno di trovare il modo di esprimere la loro
oppressione, denunciare la sua illegittimità. E dei
segni che sappiano istillare nella maggioranza il
dubbio che il loro essere numerosi non legittimi
l'oppressione degli altri. Capisci che questo non è
proprio un target o una categoria. A volte mi hanno
chiesto se parlo ai gay e alle lesbiche, in generale
alle persone LGBT, perché questo mi avrebbe
connotato come "artista gay". La mia risposta è che
il mio lavoro è immerso nella battaglia per la
sovversione dell'eteronormalità fino al collo, ma
proprio per questo non posso parlare solo ad una
condizione.
Non posso comunque nascondere quanto sia
fondamentale, all'interno della mia ricerca sulla
verità e sulla condizione delle minoranze, il
rapporto con le comunità.
7. Quale messaggio vuoi esprimere attraverso una
tua opera?
Il messaggio non c'è. Il mio è un lavoro sulla forma
e sulla semiotica. Un esempio: prendiamo la parola
"precarietà"; questa non è solo una sequenza di
lettere ma è un termine che riassume un passaggio
del pensiero, utile ad argomentare una certa
condizione. Se non ci fosse, sarebbe più complicato
esprimere una certa realtà. Non è un caso che esista
un altro termine: flessibilità. Qualcuno lo utilizza
proprio per rappresentare una cosa simile, non
uguale, con un'altra accezione e senso. Ecco, io
accosto le forme, gli oggetti, i suoni, per
costruire degli strumenti utili all'emancipazione;
ma questo non prevede che vi sia il messaggio:
ribellati. Non ne ho l'autorevolezza in primis e poi
sarebbe terribilmente didascalico. Mi basterebbe
essere utile alla costruzione di senso.
8. Quali sono le fasi attraverso cui componi e
realizzi un'opera? Da che cosa, spesso, trai
ispirazione per le tue opere?
Tutto parte sempre da un'intuizione formale. Dalla
vita, dalla lotta politica, dalla lettura, da una
battuta ironica. Un'intuizione non ha un luogo
privilegiato in cui svilupparsi. Poi la racconto
alle persone che mi circondano, ascolto il loro
parere, ci penso e ripenso, la provo a realizzare,
poi la cambio, poi la dimentico. Un caos insomma.
Diciamo che se dopo un anno penso ancora che sia una
buona idea, e trovo l'occasione per realizzarla, lo
faccio. Per questo i miei lavori partono da
intuizioni ma non sono delle "trovate divertenti":
sono frutto di un approfondimento, non organizzato,
ma comunque un approfondimento e di un confronto con
molte menti brillanti, che per fortuna, mi
circondano.
9. Hai avuto diversi riconoscimenti artistici?
Quali sono le mostre e le esposizioni a cui hai
partecipato e quali le prossime in programma?
Avendo cominciato da piccolissimo il mio primo
premio per un concorso d'arte l'ho vinto a 16 anni,
con una scultura, a Como al premio "Angelo Thenchio".
L'anno successivo a Milano ho ricevuto il premio
Boccioni. Mi ricordo ancora che il tema era la
natura e cosa realizzai? Presi un metro quadro di
erba alta e la legai con gli elastici per capelli.
Un lavoro che voleva restituire la goffaggine del
tentativo dell'uomo di domare la natura. Un'opera
che ad oggi mi fa sorridere, tanto quanto il ricordo
del mio povero babbo: mi ha dovuto aiutare a
trasportare tutti quei Kg di terra e sterpi, fino in
galleria, senza capirci molto!
L'anno scorso, in occasione dell'EuroPride di Roma,
ho partecipato ad una mostra dal titolo "Nuda
proprietà", allestita a Piazza Vittorio, innanzi al
PridePark, e organizzata dall'associazione GloryAll
e curata da Roberto D'Onorio. Giusto per rimanere in
tema GLBTQI.
Per il futuro prossimo ho in programma tre mostre,
fra cui una sulla decrescita: molto stimolante, ma
non voglio rivelare molto, per scaramanzia!
Devo, poi, riprendere in mano la produzione. Ho
tanti progetti "pronti", da realizzare, ma una
mostra dietro l'altra mi ha impedito di farlo. Gli
artisti romani, in questo, non sono come i milanesi,
si perdono in chiacchiere e vernissage troppo
facilmente!
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