Intervista al regista di Erodias
di Testori:
Raul Iaiza
Raul Iaiza, regista di Erodias
che, insieme a Cleopatràs e Mater Strangoscias,
compone la trilogia di Testori con gli scritti lai.
Perché mettere in scena oggi questa opera e come
riprorre una figura di letterato quale Giovanni
Testori?
Non vorrei essere frainteso, ma mi chiedo: ci
sarebbe davvero un "oggi" giusto per mettere in
scena un'opera di Testori? Davvero? L'arte ha molte
sfaccettature, compiti, fondamenti, persino
responsabilità. La sua pratica, la rete di relazioni
che crea, le associazioni che può far nascere in chi
la fa e chi la pratica e chi l'accoglie, chi ne
usufruisce o chi entra in comunione, sono tutte
molteplici, e vitali, anche dal punto di vista
sociale. Se lei intende che mettere in scena Erodiàs,
e più in generale Testori sia un modo di richiamare
o rivalorizzare un'opera legata alla cultura
omosessuale o simile, io credo proprio di no. Io non
sono affascinato o niente del genere da questo
aspetto dell'opera di Testori, ma dall'altissima
qualità artistica che esprime, a tutti i livelli, di
forma e contenuto. Intendiamoci, vi è pregiudizio
diffuso e radicato in Italia, "oggi", sulle
tematiche, l'arte e persino la persona privata, in
rapporto alla sua omosessualità o meno. Eccome! L'
Italia è imbarazzante dal punto di vista
dell'ipocrisia sociale, ed è retrograda e piccina
dal punto di vista civile. Figurarsi con
l'omosessualità! Ma tutto questo non cambia nemmeno
di un millimetro mettendo in scena Testori, o
Erodiàs. A meno che non metta in scena Erodiàs Gerry
Scotti al Teatro San Babila, allora sarebbe tutt'altra
storia. Lì si, apparirebbe il famoso "oggi", perché
proprio "oggi" proprio lui fa questa opera proprio
in quel teatro? E via di seguito.
Com'è stata la fase di elaborazione del testo e
di trasposizione del medesimo in una forma teatrale?
Erodiàs prevede la messa in scena, quindi non vi
è trasposizione, come nel caso d'un romanzo o d'un
racconto. Testori dà delle indicazioni abbastanza
precise persino sulla scena che immagina, e diciamo
che il testo -letto in chiave teatrale- racchiude
chiaramente più di una soluzione scenica. Si tratta
di un testo altamente rappresentabile, frutto del
lavoro di un drammaturgo, non solo d'un poeta. Si
capisce benissimo che l'autore pensava in categorie
teatrali, benché l'altissima qualità letteraria sia
evidente già dai primi versi e talvolta erroneamente
appaia come un ostacolo alla sua effettiva messa in
scena.
Noi siamo partiti, inevitabilmente, dalla magnifica
soluzione teatrale di Lombardi/Tiezzi. In parte
perché non avevamo nessuna esperienza su questo
repertorio, e perché proprio su questo repertorio i
riferimenti importanti non mancavano, ed era sano
artisticamente averci a che fare, per comprendere
meglio la nostra eventuale strada. In parte anche
perché lo stesso Lombardi fu di aiuto a Simone, con
grande professionalità e umiltà, e quindi era certo
che se non un punto di partenza, un grande punto di
confronto la loro versione ce lo doveva dare. Credo
che abbiamo trovato buona parte della nostra
elaborazione del testo. Il lavoro è appena
incominciato con queste prime tre repliche al MIL.
Abbiamo già individuato molte stratificazioni da
sviluppare nelle prossime repliche. Lo spettacolo,
come una creatura umana, è appena nato.
Quale è stato il lavoro che ha portato alla
definizione dello spettacolo e, soprattutto, come è
stato condotto?
Lo spettacolo si è definito in maniera pratica,
non teorica. Ogni aspetto teorico che in seguito ci
trasformava lo sguardo e generava nuove possibilità,
è nato dal lavoro pratico. Applicavamo subito, a
capofitto quelle nuove letture, in maniera pratica,
ed emergevano nuove istanze e riflessioni. Sin
dall'inizio abbiamo adoperato la strategia di
comporre un'intera messa in scena "provvisoria", ma
trattata nelle prove come definitiva, in termini di
concentrazione e adesione. Così si è definito lo
spettacolo. Ma nemmeno questo processo è stato
pianificato o discusso prima. Quindi è stato
"condotto" sull'arena, direttamente. Davanti alla
domanda "come si fa a procedere nel deserto?" siamo
andati direttamente nel deserto, e tutto quello che
abbiamo imparato, modificato, scoperto e persino
confermato, è accaduto grazie al deserto, alla
sabbia, al vento, al sole, al silenzio. Tutto è nato
dalla pratica teatrale radicale. Perché? Perché non
sapevamo come affrontare questo repertorio non
avendo le cosiddette carte in regola dell'ambiente;
però intuivamo che trattandosi di materiale molto
potente a livello di parola, occorreva mettere a
fuoco molta forza teatrale, quantomeno cercarla,
controbilanciare la sua forza di testo capace di
imponente e meravigliosa autonomia poetica.
Erodias è un monologo: la scena si incentra e si
concentra su un unico attore. Che cosa significa
questo per un regista e come incide sulla regia?
La macchina teatrale, che è in primis relazione,
evidentemente cambia, si chiude a chiocciola su se
stessa. Si è davanti a un paradigma, un cristallo
teatrale: gli attori sono un attore, gli spettatori,
più che mai, il primo spettatore, cioè il regista.
Per un regista suppongo che significhi qualcosa di
molto simile, o quantomeno analogo a quel che
significa per un attore. Tutto ad un tratto la tua
responsabilità, soprattutto con te stesso, entra in
un vortice. Nel bene e nel male. Nel bene, pare
ovvio: infatti tutti sognano, un po'
dilettantescamente, fare uno spettacolo "da soli".
Questo benedetto appuntamento di auto-riconoscimento
di auto-esplorazione, è necessario, credo, prima o
poi nella via dell'arte teatrale. Nel male pare meno
ovvio, ma è da tenere in conto. Infatti sei a
rischio di cadere nell'anti-creativo per eccellenza,
cioè dirti e ridirti le tue solite cose, senza
disturbi, incidenti e quant'altro accade nella
relazione tra artisti e visioni diverse e simili.
Incide sostanzialmente in questo: rischi di
cantartela e suonartela da solo…
Dopo Erodias stai lavorando ad altre
rappresentazioni, magari esplorando altri autori?
Insieme a Simone Lampis no, almeno per il
momento. Certo che la tentazione di esplorare altri
universi 'testoriani' è forte: si è aperta una
finestra che ora, io di sicuro, voglio saper
ascoltare e comprendere. Ma è presto, perché come ho
detto, il nostro Erodiàs è appena nato, e ha bisogno
-così lo richiede a gran voce- di cura e sviluppo
ulteriore.
Raul, sei regista e pedagogo teatrale, con una
formazione di base come musicista classico. Artista
eclettico per percorso formativo. Quale è la
pedagogia che si esprime attraverso il teatro?
Non so se ho ben capito la domanda. Diciamo che
attraverso il teatro si esprime in maniera per me
molto chiara l'autopedagogia della sete. La sete che
ti divora. Questa è l'unica parte del nostro lavoro
che non si piò insegnare, con o senza metodi. Puoi
segnalare che esiste, ma rimane personale,
profondamente personale e inevitabilmente
necessaria. Senza finisci nella citazione, se ti va
bene; nella parodia se ti va male.
Che cos'è un attore secondo te?
Un artista dell'azione.
Spesso citi il concetto di "autopedagogia": che
cosa significa precisamente soprattutto se traslato
nell'ambito della ricerca teatrale?
L'arte teatrale e i processi autopedagogici sono
tutt'uno. L'attore, più che il musicista o il
danzatore, credo, è qualcuno che deve vivere nella
rischiosa e faticosa permanenza dell'esordio. Tutto
quello che fa o pretende fare è come la forza della
vita, è crudele, folgorante, fragile. Ci vuole,
credo, un mestiere continuamente rinnovato e
rinnovabile, per la natura stessa dell'arte
dell'attore, perché si ha a che fare con la vita in
maniera troppo scoperta, come lumache senza guscio.
L'attore di mestiere, come si diceva una volta,
quello teatrale intendo, è più che mai oggi, in
questa parte del mondo, un essere straniero, un
orfano. Figuriamoci quello dell'ambito della ricerca
teatrale. Quindi la sua sfida si colloca ad un punto
di tale fragilità -compresa quella professionale-
che il suo continuo "apprendere ad apprendere" -come
diceva un noto Maestro- è quasi l'unica risorsa
capace di aiutarlo a non soccombere.
Che cosa ha significato per te, sia dal punto di
vista culturale sia dal punto di vista artistico e
teatrale mettere in scena Testori? Quale è il tuo
rapporto come regista con un autore quale Testori?
Che domanda! Mi costringi ad essere poco chiaro,
volendo esserlo fin troppo nella sintesi. Per me,
culturalmente, affrontare Testori ha significato
aggiungere un altro nobilissimo strato all'intarsio
del mio amore per la lingua italiana. Artisticamente
suppongo -o meglio, spero- di essere cresciuto,
tutto qui. E teatralmente direi altrettanto, nella
fattispecie potendo affrontare un testo e uno stile
apparentemente distante dal mio territorio solito.
Mi chiedi qual è il mio rapporto come regista con un
autore come Testori. Intanto mi darei una bella
calmata, non solo nel pensarlo, ma pure nella
risposta. Come regista alle prime armi, e
sicuramente non consolidato come artista, Testori mi
affascina e mi sfida, è un Monte Analogo, qualcuno
da cui imparare e nutrirsi.
Il pubblico come ha reagito e quali sono state le
considerazioni e i commenti che sono stati espressi
nei riguardi della regia?
Non credo che io possa rispondere in maniera
soddisfacente a questa domanda… Credo sicuramente
che uno spettacolo come Erodiàs è, giustamente,
completamente in mano all'attore, da tutti i punti
di vista. Caso mai si potrebbe parlare, con una
qualche utilità e senso, del lavoro del regista con
l'attore, di come l'ho aiutato o condotto ad
affrontare una sfida così corposa. Ma questo genere
di argomento raramente riguarda gli spettatori. Se
la regia di uno spettacolo come Erodiàs è così
"forte" da far parlare di sé c'è un errore enorme di
concezione, alla base, un errore decisamente grosso!
Spero che ci sia poco e comunque sempre meno da
parlare sulla regia di un Lai come Erodiàs. Invece
tanto dell'attore in scena, nel suo qui e ora, del
suo singolare personaggio -metà attore-metà
Erodiade- e dell'autore -metà poeta e metà Narrator-,
del loro misterioso e tremante convegno.
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