|
|
Libri a fumetti
Cinema
Interviste
Mostre
Memorie preziose
Fumetti in corso 7 -
8 - 9
|
|
Scritta e diretta da Pasolini, la Medea venne
realizzata nel 1969, due anni dopo l'Edipo re.
Girata parte in Cappadocia, parte in Italia (Corinto
è ricreata nella Piazza dei Miracoli di Pisa),
sottolinea anche attraverso la duplice ambientazione
lo scontro fra due universi inconciliabili,
destinati a fronteggiarsi in un conflitto in cui o
l'uno o l'altro non può che soccombere. Il tema del
film è duplice: l'utopia della pacifica coesistenza
di identità fra loro distanti ma comunque
complementari e necessarie al reciproco compimento,
da una parte, e dall'altra la presa d'atto della
loro impossibile convivenza. Il linguaggio
cinematografico, visivo e immediato, era per
Pasolini quello più aderente alla Realtà, l'unico
davvero in grado di esserne specchio fedele, di
riprodurla senza l'inevitabile limite che è proprio
del linguaggio verbale. Tuttavia la sua regia è
stilisticamente consapevole e dunque interpreta la
realtà alla luce di un'ideologia personale ben
definita: tecniche di inquadratura (i primi piani
sulla splendida Medea-Callas, lo sguardo in camera
di Giasone prima del rapporto erotico, uno sguardo
da trionfatore un po' opportunista, così
incommensurabile rispetto alla profondità di quello
femminile), dialoghi, musiche e silenzi obbediscono
a una regia sapiente e convergono sul messaggio
fondamentale del film. Il giovane Giasone, con i
suoi Argonauti muove alla volta del Colchide per
recuperare il Vello d'oro, che sarebbe in grado di
rendere più forte e fertile chi la possiede; la maga
Medea, affascinata da Giasone lo aiuta a rubare
l'amuleto, e fugge con lui. Giasone sposa Medea ed
hanno due figli, tuttavia poco dopo ripudia sua
moglie per sposare la giovane Glauce, figlia del re
di Corinto. La vendetta di Medea, folle di gelosia,
sarà atroce.
Distaccandosi dalla tragedia di Euripide, che resta
comunque il modello di riferimento (Pasolini ne trae
parte delle battute dei personaggi, citando alla
lettera il testo greco), il film si apre
sull'antefatto, con Giasone bambino, salvato,
allevato, educato dal Centauro, che è la figura più
autobiografica del film, quella che più incarna ed
esprime l'ideologia del regista, il suo punto di
vista sulla vicenda che si viene raccontando. I
passaggi rivelatori, sono proprio quelli in cui
Giasone ascolta gli insegnamenti del Centauro, suo
Padre-Maestro (collocati al principio e a metà del
film): a un certo punto si dice anche esplicitamente
che il Padre-Maestro rappresenta la proiezione
mitica dell'interiorità dello stesso Giasone, in se
stessa divisa, fra la componente ancestrale (di cui
è Medea il simbolo, ma che è presente allo stato
inconscio anche in Giasone) e quella moderna,
razionale e consapevole. Sul piano ideologico, il
punto fondamentale è proprio questo: il mondo che
Giasone vede da bambino è un mondo sacro, in cui
tutto è abitato da un Dio, e la natura è
soprannaturale, ha un significato che va oltre la
sua materialità: "Tutto è sacro", afferma il
Centauro. Il mondo che Giasone vede da adulto invece
è un mondo sconsacrato, in cui non c'è più traccia
della divinità, in cui la materia non ha significati
oltre a se stessa e la natura è solo natura. In
questa prima parte del film l'antitesi
sacro/sconsacrato si percepisce quindi come frutto
di un'evoluzione naturale, di una crescita,
dall'infanzia all'età adulta, dal mondo mitico a
quello razionale, dal primitivo all'evoluto. Tanto
che Giasone, ormai uomo, parte per un'impresa
politica: deve riappropriarsi del trono che
legittimamente gli spetta, usurpato dallo zio Pelia,
e per riuscirci deve sottrarre il Vello d'oro al re
della Colchide, padre di Medea. Giasone si muove in
un'ottica di calcolo: l'ottica del capitalismo
borghese (questo, come vedremo, è un altro dei
livelli di lettura del film: in chiave politica e
sociologica: il mondo pre-industriale, con i suoi
valori tradizionali e il suo volto primitivo ma
ricco di significati autentici contrapposto al volto
nuovo della modernità industriale e capitalistica,
aggressiva, conquistatrice e vincente, ma
superficiale e priva di valori). La trasformazione
attraverso cui passa Medea non ha invece il
carattere di un'evoluzione graduale e naturale: è un
cambiamento rapido, e traumatico (reso nel film con
il suo svenimento), una conversione, dal sacro allo
sconsacrato, dal mitico al razionale, provocata
dall'irruzione di un elemento esterno e straniero.
Medea cambia nell'istante in cui vede Giasone,
innamorandosene. A questo punto, a sottolineare il
mutamento avvenuto, cessa la musica barbarica che
commenta le scene ambientate nella Colchide e
soprattutto accompagna la presenza di Medea.
L'incontro con l'Altro la fa incontrare con l'Altro
che è in lei. Tuttavia non è un incontro positivo:
quello che Medea vive con drammatico disorientamento
è piuttosto la perdita della sua identità
originaria, la perdita del contatto con il sacro,
con la Terra e con il Sole, che ora sono muti per
lei, non le parlano più, così come i sassi e l'erba
sono solo sassi e erba, non hanno più per lei i
significati che avevano prima. È forte il contrasto
fra la Medea che nella prima parte del film celebra
il rito di fertilità, officiando, lei sacerdotessa
regale, il sacrificio umano, sicura, forte del suo
rappresentare tutta una civiltà di valori e di
tradizioni, e la Medea che approdata in Grecia non
riconosce più quella stessa natura che prima le era
innato riconoscere. Da un articolo che Pasolini
scrisse e pubblicò nel '67 si evince chiaramente che
il codice di valori della Medea "antica", che è lo
stesso del Vecchio Centauro (che Giasone vedeva da
bambino, ma non più da adulto), è anche quello
dell'autore. Accade poi che la perdita dell'"antica"
identità si compensa nell'acquisto dell'amore:
l'oggetto sacro viene sostituito da quello erotico:
Medea si perde come "donna antica" ma si ritrova
nell'amore fisico per Giasone, abbandonandosi a esso
con la stessa totalità con cui prima aveva vissuto
il rapporto con il sacro. Per amore di lui tradisce
i suoi, ruba il Vello (emblema di una santità che
sottratta al proprio contesto si svuota e perde
anch'essa il suo significato), uccide il fratello
per agevolare la fuga degli Argonauti, si lascia
portare lontano dalla terra che è sua per arrivare
ad un'altra che le è nuova e ostile, si lascia
spogliare dei suoi abiti sacerdotali e regali e
rivestire di vesti greche. L'amore è sufficiente a
compensare il disorientamento e la perdita. Una
nuova crisi la colpisce nel momento in cui l'amore
viene tradito, cioè quando Giasone, seguendo una
logica di convenienza economica e politica,
pianifica nuove nozze con Glauce, figlia del re di
Corinto, abbandonando il letto della prima sposa e i
due figli avuti da lei. È a questo punto che le
parole di un'ancella consentono a Medea di vedersi
per quella che è diventata, un'Altra da sé, e di
riappropriarsi del suo Sé originario. La coscienza
razionale della sua "catastrofe spirituale", "del
suo disorientamento di donna antica in un mondo che
ignora ciò in cui ha sempre creduto", è il punto di
partenza per la sua nuova conversione, per il
ritorno a quella dimensione sacra e ancestrale da
cui si era separata. Medea da vittima passiva della
propria vicenda si rovescia in soggetto attivo, la
sua intima catastrofe si volge in una catastrofe
esterna, che annienterà i suoi nemici. Risuonano le
parole profetiche del Centauro, pronunciate nelle
prime sequenze della pellicola: "tutto è santo. Ma
la santità anzi è una maledizione. Gli dèi che amano
al tempo stesso odiano". Il Vecchio Centauro si è
risvegliato, ed è inoltre forte della lucida
coscienza pragmatica del Centauro Nuovo: Medea,
spinta da sentimenti ancestrali, può mettere in atto
la sua strategia di vendetta contro gli oltraggi
subiti da parte di Giasone e di Creonte, nel nome di
Dio e della Giustizia, nel segno della ritrovata
comunicazione con il Sole, il padre di suo padre.
Riacquista, nella visione profetica, i suoi abiti
sacerdotali e regali, riassume la sicurezza dello
sguardo e delle decisioni, simula la riconciliazione
con il marito e l'accettazione delle sue nuove
nozze, fino al tragico epilogo, della morte di
Glauce in seguito al suo dono nuziale e
dell'uccisione dei figli. È importante l'innovazione
che Pasolini introduce rispetto al modello euripideo.
Nella tragedia classica Glauce muore perché l'abito
che Medea le invia è imbevuto di veleno: la ragazza
è arsa dal rogo che si sprigiona dal velo e dalle
vesti, e con lei il padre che tenta disperatamente
di salvarla. Questo è quello che la Medea di
Pasolini vede nella sua visione profetica: qui
rivivono il mito e il sogno. Ma quello che poi
accade nella realtà è molto diverso, molto più
realistico. Glauce qui non muore per un veleno ma
muore schiacciata dalla sua fragilità, che il padre
aveva intuito e tentato di arginare condannando
Medea all'esilio perpetuo. Parlando a Medea, Creonte
le svela infatti il vero motivo della sua decisione:
Medea fa paura e deve andarsene non perché barbara,
venuta da una terra lontana e straniera, né perché
maga, ma perché Glauce, conoscendo la sua sofferenza
di donna tradita e umiliata, patisce un dolore
altrettanto grande, che le rende insopportabile il
pensiero delle nozze con Giasone. Un passaggio
fondamentale è il momento in cui Glauce, indossato
l'abito inviatole da Medea, si vede riflessa nello
specchio: nella sua rivede forse l'immagine di
Medea, sposa tradita, e non sopportando il peso
della propria colpa fugge fuori dalla reggia e si
lancia dalla torre, seguita dal padre. Un doppio
suicidio indotto non dalle arti magiche ma dalla
finezza psicologica di Medea. Il contrasto
fondamentale, l'antitesi sulla quale si costruisce
la vicenda, funziona quindi su tre livelli. Il
primo, il più evidente, è quello antropologico, che
oppone la civiltà greca, "umana", alla "disumana"
primitività barbarica. Il contatto fra le due
produce non integrazione, ma distruzione nell'una
(che reagisce tentando di isolare e poi di
rimuovere, con l'esilio o con l'oblio, l'elemento
perturbante, facendosi così essa stessa "disumana" e
attirando su di sé la vendetta del dio), alienazione
nell'altra (Medea divenuta "un'altra creatura",
Giasone adulto) . Un altro livello è poi quello
psicanalitico: la razionalità di Giasone, l'Ego, che
si scontra con l'irrazionalità totalizzante e
distruttiva di Medea: l'Es, che rimosso riaffiora
violentemente, rivendicando i propri diritti
misconosciuti dall'Ego. Infine c'è un livello
politico: lo scontro fra l'Occidente moderno,
borghese e industrializzato, e il Terzo Mondo,
legato a una cultura arcaica e ancestrale, asservito
e sfruttato (tema che Pasolini svilupperà in
Petrolio e negli Appunti per un'Orestiade africana).
Il film insiste anche sulla necessità di una
coesistenza dei due mondi, simbolicamente espressa
nel momento in cui Giasone, dopo avere abbandonato
Medea, proietta all'esterno il conflitto che ha
rimosso, la sua percezione profonda di una realtà
che la coscienza sceglie di ignorare: egli in realtà
ama Medea e ne comprende e compatisce la "catastrofe
spirituale". Giasone vede contemporaneamente, l'uno
accanto all'altro, i due Centauri della sua
formazione: quello Vecchio dell'infanzia e quello
Nuovo dell'età adulta, il Sacro e lo Sconsacrato,
quello che ormai non può più parlare, perché la sua
logica è ormai talmente diversa da quella corrente
che le sue parole sarebbero incomprensibili, e
quello che invece condivide la logica del mondo
attuale, e può, attraverso questa, dare voce ai
sentimenti dell'altro. "Ciò che è sacro si conserva
accanto alla sua nuova forma sconsacrata". L'epilogo
tragico dichiara, nell'ultimo confronto fra le due
alterità, Giasone e Medea, la loro definitiva
separazione. Il passaggio dal sacro allo
sconsacrato, dal primitivo al tecnologico, dal
pulsionale al razionale, non può avvenire che a
prezzo di una rimozione del primo elemento della
polarità, ma questa rimozione è un errore ,psichico
e culturale , che il secondo elemento deve pagare a
un prezzo di sofferenza alto.
Tra Maggio e Agosto 1969 Pasolini girò, in Siria e
in Turchia, Medea: era divenuto un regista di punta
del cinema italiano e ciò gli procurò critiche di
connivenza con il potere, poiché l'industria
cinematografica rappresentava uno degli strumenti
dell'omologazione di massa. Nel corso di una
trasmissione televisiva a uno studente che gli
rivolgeva appunto tali accuse, Pasolini rispose: "io
strumentalizzo la produzione che c'è, la produzione
che c'è strumentalizza me, vediamo un po' di chi
sarà la vittoria finale".
La partecipazione, nel ruolo di protagonista, di
Maria Callas, presentata a Pasolini dal produttore
del film, Franco Rossellini, venne considerata un
evento straordinario, perché la famosa cantante
lirica, dopo avere interpretato sulle scene dei
teatri d'opera di tutto il mondo Medea, l'opera di
Luigi Cherubini, aveva già ricevuto offerte, sempre
rifiutate, per una interpretazione cinematografica
del personaggio. Nacque tra Pasolini e la Callas una
grande amicizia che continuò anche dopo la
lavorazione del film. Pasolini descrive così una
scena di Medea e parla della scelta della Callas
quale protagonista del film: "Nel fondo di una di
queste vallette - sul greto del fiume - c'è intorno
il grano e file di pioppi e ulivi spinosi, argentei
contro il rosa delle centinaia di cuspidi -cammina
verso di me e si imprime violentemente nella mia
retina, una piccola folla assurda. Al centro c'è una
figura femminile. Essa è coperta fino all'altezza
del seno da un velo bianco[…] Essa procede così come
una regina non vista. Dietro di lei, viene un altro
gruppetto del seguito…"
" Ho pensato subito a Medea sapendo che il
personaggio sarebbe stato lei. Delle volte scrivo la
sceneggiatura senza sapere chi sarà l'attore. In
questo caso sapevo che sarebbe stata lei, e quindi
ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione
della Callas. […] Cioè, questa barbarie che è
sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi
occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta
direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata,
insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un
po' la vita della Callas. Lei viene fuori da un
mondo contadino, greco agrario, e poi si è educata
per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso
ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello
che è lei, nella sua totalità complessa".
Pasolini sintetizzò i contenuti di questa sua opera
cinematografica anche in una intervista a Jean
Duflot:
"Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film
precedenti. […] Quanto alla pièce di Euripide, mi
sono semplicemente limitato a trarne qualche
citazione. […] Medea è il confronto dell'universo
arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di
Giasone, mondo invece razionale e pragmatico.
Giasone è l'eroe attuale, che non solo ha perso il
senso metafisico, ma neppure si pone ancora
questioni del genere. È il "tecnico" abulico, la cui
ricerca è esclusivamente intenta al successo. […]
Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello
"spirito", fa scattare una tragedia spaventosa.
L'intero dramma poggia su questa reciproca
contrapposizione di due "culture",
sull'irriducibilità reciproca di due civiltà".
Duflot gli chiese ancora se la narrazione mitica
racchiudesse implicazioni storiche attuali, come in
Edipo re, Il Vangelo secondo Matteo o Porcile.
"[…] potrebbe essere benissimo la storia di un
popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad
esempio", rispose Pasolini, "che vivesse la stessa
catastrofe venendo a contatto con la civiltà
occidentale materialistica. Del resto,
nell'irreligiosità, nell'assenza di ogni metafisica,
Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso,
pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo,
il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è
finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla
fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per
questo si aboliscono. Il superamento è un'illusione.
Nulla si perde". Oltre al gran numero di attori non
professionisti, come di consueto presenti nei film
di Pasolini, vi sono in Medea le presenze, in ruoli
principali, del campione di Atletica leggera
Giovanni Gentile (Giasone), di Massimo Girotti
(Creonte), di Laurent Terzieff (il centauro). Elsa
Morante, infine, collaborò con Pier Paolo Pasolini
alla scelta delle musiche: brani religiosi antichi
dal Giappone, canti e danze d'amore iraniani.
Pasolini parla di Medea come "la mescolanza un po'
mostruosa di un racconto filosofico e di un intrigo
d'amore". E' forse la summa del discorso
dell'impossibilità dell'uomo di amare, in quanto
Medea non solo non è corrisposta ma sacrifica prima
se stessa per un uomo che poi la tradirà. Ma la
donna, ancora una volta trattata come una prostituta
(come nel periodo pasoliniano delle borgate), non si
dà per vinta e accecata dall'odio compie un'orribile
vendetta: sembra in un certo senso la rivalsa dello
sventurato pasoliniano, ma non lo è affatto… Medea
alla fine non otterrà nulla, come le avevano
professato le ancelle, e farà soffrire Giasone, ma
pure lei continuerà a soffrire, forse anche più di
prima. Un discorso che ancora una volta colpisce
tutti, e riconferma il fatto che l'amore, in
Pasolini, è solo un'illusione.
|
ì |
|
|