Come sarebbe il mondo senza la
Factory: priva dell'arte post moderna concettuale
e pop esempio della nostra contemporaneità
Andy Warhol
Chiedersi come sarebbe stato il mondo senza Andy
Warhol e senza tutta la realtà artistica e culturale
che ne è conseguita dalla sua figura e poetica è
come chiedersi che cosa sarebbe oggi il mondo della
produzione artistica e performativa senza il suo
reale capostipite. Un libro edito da Abscondita, "La
filosofia di Andy Warhol da A a B e viceversa", è la
testimonianza più puntuale e dettagliata sul valore
e la portata di un personaggio che ha saputo
trasporre l'interpretazione di una poetica in un
programma commerciale dando all'arte quell'inossidabile
connubio che crea con il prodotto. Andy Warhol
diventa l'opera d'arte autonoma: lui stesso, la sua
personalità sono un'opera d'arte, espressione di un
modo di concepire ed elaborare il reale
riproponendolo sotto canoni tipici dell'arte:
estetica, eccentricità, provocazione, personalità.
Ha inventato il concetto di "divismo" e di glamour,
così come rappresentano le massime personalità di
travestiti, cross dressing e transessuali che
frequentano la Factory negli anni ancora cupi
dell'America del proibizionismo e del perbenismo
benpensante in campo sociale e di costume. È la sua
una trasandatezza non ricercata ma spontanea,
consapevole ma non invadente, naturale e non
filtrata: l'arte è mercato, ma chi vuole
rappresentare l'arte diventa lui stesso il
rappresentato, la superstar, come canterà David
Bowie in una sua canzone, noto frequentatore della
Factory. È lui una superstar globale,
internazionale, di fama mondiale: partecipa in prima
persona a spot pubblicitari, quello dei televisori
giapponesi, così come fa una comparsa, impersonando
niente altro che sé stesso, il personaggio che
diventa assoluto, nel noto serial televisivo Love
Boat. Non esiste un catalogo Andy Warhol delle sue
opere, ma le sue opere sono riproducibili da
chiunque sia nel concetto sia nell'estetica e nella
tecnica: questo definisce come lato l'aspetto di un
artista pop senza scadere nel main stream e nello
scontato, nel banale, nell'effimero. Niente è
effimero e dato come prefigurabile nel concepire
l'arte in Warhol. Lui stesso è diventata, come
dicevamo, opera d'arte: se qualcuno vi dicesse
Magritte che cosa vi verrebbe in mente? Sicuramente
i famosi quadri, tra l'altro parte della poetica del
pittore è ripresa da Warhol, in forma rivisitata e
attualizzata, contestualizzata. Se qualcuno vi
dicesse, invece, chi è Andy: voi cosa vi verrebbe in
mente se non lo stesso viso di Warhol. Le icone
dello spettacolo sono passate dall'azione
forgiatrice di Warhol nelle sue composizioni,
rimanendo quindi immagini appartenenti a un
patrimonio collettivo post moderno mondiale.
Ricordiamo Marylin Monroe, ma anche Liz Taylor, Liza
Minnelli, e quante altre figure notorie. Tra le drag
che divengono le rappresentazioni dello spirito
liberatorio ed emancipatorio della Silver Factory si
propone con forza la figura e la personalità di
Holly, ripresa in diverse opere da Warhol,
ricordiamo anche alcune sue installazioni
videortiastiche. Ricordiamo anche l'attore Joe
d'Alessandro, figura che assumeva la carica erotica
virile con la dolcezza e la sinuosità più delicata
del suo aspetto: una contraddizione che viene
celebrata da Warhol e che sdogana un certo tipo di
vivere la mascolinità e l'impeto sensuale che ne
deriva.
È assodato che il grande artista abbia segnato una
pagina fondamentale nella storia moderna e
contemporanea dell'arte figurata ma, anche, scritta.
La Factory è il luogo principe, fisico, tangibile,
reale, esistente di questa poetica filosofica che ha
imperniato, come stile della Pop Art, una filosofia
esistenziale in un ambito, quale quello americano di
fine anni 60, che cominciava a diventare importante
e rilevante a livello internazionale, come
suggerisce il critico Antonio Spadaro. È un cenacolo
di Andy Warhol, non più artista individualista, ma
costruttore di un movimento: costruttore
inconsapevole ma convinto, non paternalista ma
armonico. Andy Warhol ha saputo imprimere uno stile
artistico e culturale pur non essendo una figura
formatasi nell'ambiente accademico: non è
ufficialmente un regista ma è stato anche autore di
diverse opere videoartistiche, quasi segnando un
imprimatur a un genere che si diffonderà qualche
decennio dopo; non è stato un fotografo ma ha
garantito la costruzione dell'idea di diversi
servizi fotografici, come quelli che lo
immortaleranno quasi novello Duchamp espressione di
un neodadaismo, manifesto di una rivisitazione della
grande corrente artistica, per mano del suo
fotografo amico intimo, Cristopher Makos; non è
ufficialmente un pittore o artista figurativo ma
diventa celebre per aver creato quel logo che è
diventato quasi insegna commerciale della vita
consumeristica ripresa nella sua paradossalità
quotidiana, ossia la ripresa in serie delle
scatolette Campbell. La sua volontà, quindi, non è
quella di sottomettersi alle logiche del
consumerismo astratto e fine a sé stesso come
valore, ma è quella di ricercare nel prodotto
commerciale una forma di arte e di espressività
quasi dissacrante e spesso astratta dall'ambito in
cui l'occhio popolare è abituato a concepirlo.
Andy Warhol sapeva essere trasgressivo, stravagante,
amava definirsi trasandato eccentrico, semplice
quanto complesso, nella ricerca tesa sempre a
trovare una normalità, pur esaltando ogni forma di
anticonvenzionalismo, anche e soprattutto nei
costumi sociali.
L'arte di concetto risulta nella ripetitività
seriale delle immagini, oggetti di vita quotidiana,
presenti in modo ossessivo e ossessionante nella
nostra giornata, oggetti di consumo, oggetti
casalinghi, oggetti di una familiarità confortante,
diventando quasi l'elemento artistico unico e
originale, sprigionando la valenza estetica che
diventa anche valenza contenutistica e sostanziale.
Sullo schermo, nel dipinto vediamo presentarsi con
una certa continuità le stesse rappresentazioni,
singole figure, che assurgono a manifesti di una
poeticità senza pari e senza precedenti, consacrando
e allo stesso tempo denunciando la società dei
consumi, alienata e disattenta a contemplare
solamente la forma. La sua sarà un'arte non solo di
consumo, per il consumo e fondata sul consumo, ma
anche arte del feticcio, in cui l'oggetto diventa
tangibile, pieno di vitalità e soggetto di
attenzione morbosa da parte dell'occhio vuoyerista
dell'autore e non solo. Le immagini venivano, così,
svuotate del proprio contenuto attribuito dal
pubblico mainstream, riassegnando loro una
dimensione artistica e visiva notevole e autonoma.
Rappresentazione di questa forma d'arte che suscitò
scandalo tra i benpensanti e conservatori
dell'epoca, ma che segnò un cambio di pagina e una
rivoluzione del modo di pensare l'arte prima che
farla, è il cortometraggio Blow Job, un intero primo
campo su un ragazzo mentre riceve una fellatio:
dietro al ragazzo in estasi e in tensione erotica,
prima, poi in uno stato di totale rilassamento e
spensieratezza, c'è un semplice muro irrilevante,
quasi adombrato, non appariscente, al fine di
rendere il viso del ragazzo centrale in
un'inquadratura quasi compulsiva e continuativa
sulla sua espressività estatica. È, questo, l'inno a
quell'edonismo e a quella liberazione umana che fu
espressione della sua arte performativa e manifesto
politico della Silver Factory. Altre opere che sono
degne di nota in quella che fu la stagione
pionieristica della videoarte è il film Eat, 1963,
dove Andy Warhol riprenderà nell'ambito delle
sperimentazioni artistiche dirompenti di questa
figura, dove per 45 minuti sarà ritratto in campo
totale e una soggettiva senza fine Robert Indiana,
altro esponente della Factory, mentre mangia
qualcosa, che potrebbe essere un fungo, oppure un
panino, alcuni ipotizzano una pesca. Durante
l'ossessiva e costante ripresa del soggetto passa un
gatto due volte, piccola distrazione in un crescendo
di attenzione fissa dello sguardo dello spettatore "vuoyerista".
Molte delle sue opere venivano fatte circolare in un
ambiente privato a causa dell'alta presenza della
censura per qualsiasi forma di espressione
trasgressiva, bollata spesso in modo inconsapevole e
pregiudiziale come opera a contenuto pornografico.
L'arte edonistica, il piacere per l'estetica con un
contenuto, si trova, invece, in Warhol dalle sue
prime opere: ricordiamo Kiss del 1963, inizio di una
lunga produzione, quella della Silver Factory, che
si concluse con Women in revolt, una satira del
femminismo militante, sempre dal tono provocatorio,
in cui le protagoniste sono tre personaggi
travestiti che inscenano rispettivamente una ricca
donna che ha un incesto col fratello, una donna che
è ninfomane ma che detesta gli uomini e, infine,
un'intellettuale che crede che le donne siano
oppresse dalla società paternalista americana. Dalla
provocazione e dall'esagerazione nella caricatura
dei soggetti si aprono momenti di confronto
concettuale su dogmi ideologici e militanti fino a
quel momento considerati imprescindibili.
"E' dalle idee e dalla personalità di ognuno che
Warhol trae il materiale per la sua arte" dice.
Warhol fa, pertanto, del consumo e del commercio una
forma d'arte, rendendo quest'ultima a sua volta un
oggetto di consumo e di costume, esponendo, per
esempio, sculture come le scatole di detersivo
Brillo sugli "scaffali" dei musei; proponendo
figurativamente in modo ripetitivo, lui stesso
affermava che lavorare alla Factory era come
lavorare in modo concettuale in una catena di
montaggio, icone mediatiche, da Marylin Monroe a Mao
Tzedong.
Popolare è la quotidianeità delle sue opere, fatte
di costumi e di consumi, mentre le emozioni sono
suscitate dall'esasperazione della continua
ripetitività delle rappresentazioni in un momento
artistico, quello in cui Andy opera, di crisi delle
forme classiche figurative. Andy ha reso artistico
ciò che poteva essere banale e ciò che era banale
veniva volgarmente snobbato dalle espressioni
culturali maggioritarie: questa è l'abilità di una
figura senza la quale un nuovo concetto
rivoluzionario ancora oggi pervadente dell'arte non
ci sarebbe stato. Diverse sono le espressioni che
rendono efficacia a una poetica di un'arte familiare
da un lato ma altamente di rottura rispetto ai
clichè estetico classici fini a sé stessi:
"essere freak in modo chic", "essenza passiva dello
stupore", "segreta conoscenza che ammalia",
"perfetta alterità", "trascuratezza narcisistica" o,
infine, "l'aura ombrosa, voyeuristica, vagamente
sinistra, la pallida e sussurata magica presenza".
Andy è regolare nella sua trasgressività, come
trasgressiva risulta essere la sua regolarità,
esigenza di regolarità.
"Mi piace la routine. La gente mi telefona e dice:
"Spero di non aver disturbato la tua routine,
chiamandoti"". Sanno quanto mi piace".
L'omosessualità di Andy Warhol era nello stile di
vita che Warhol e i suoi protetti del cenacolo
argentato della Factory palesavano. Era la sua
un'omosessualità clamorosamente esibita, a volte
fatta di eccessi estetici comportamentali, spesso
provocatoria ad oltranza, altre volte vissuta in un
estetismo fine a sé stesso, mai stucchevole e mai
invadente. Il New York Times per la prima volta
nella storia del quotidiano definì Andy Warhol un
artista omosessuale. Il suo essere geniale, il suo
essere opera d'arte come personaggio pop
costruiscono di lui un'immagine dirompente e
attraente, controcorrente e anticonvenzionale senza
alcuna pretesa ideologica di denuncia. La Silver
Factory non era altro che il luogo dove la
personalità di Andy Warhol e il suo estro si
esprimevano, diventavano palpabili: quarto piano di
un'ex fabbrica di cappelli sulla 47° strada è la
casa dell'estremo. La trasgressività si percepiva
come base fondante della produzione del grande
laboratorio: in quel contesto si assaporavano
serigrafie, droghe, incontri gay lesbici, feste con
drag queen ed esibizioni performative eccezionali.
Qualsiasi comportamento, incluso quello sessuale,
aveva una forte presenza e un assoluto diritto di
cittadinanza nella Factory, mai oggetto di denuncia
o di critica da parte degli altri. La pop art è uno
stile di vita e Andy Warhol ne è l'espressione
antropomorfizzata.
La routine giornaliera nella quale si costruisce il
personaggio che niente altro è che la personalità
naturale di un individuo teso a proporsi come
soggetto artistico nella sua quotidianità è alla
base di una delle filosofie estetiche della Factory:
quello di apparire come una superstar pur non
essendo definibile come autore di importanti opere o
persona dalle doti intellettive e creative
interessanti e innovative.
JOE DALESSANDRO
Esempio fisico di questo concetto di protagonismo
senza eccessi né invedenze è l'attore Joe
Dalessandro, primo vero sex symbol maschile del
cinema, diventato nell'immaginario comune e
collettivo del tempo il primo fenomeno di oggetto di
desideri sessuali, ruolo, questo, prima riservato
solo alle figure femminili. È una rivoluzione
nell'estetica e nel concetto di produzione
cinematografica che ha espresso conseguenze anche
nel mondo della cultura e dei costumi sociali del
tempo e contemporanei. Ricordiamo Dalessandro per le
intriganti e sensuali fotografie di nudo di cui fu
uno dei modelli più contesi dalle famose firme
dell'epoca di arte omoerotica, tra cui spicca Bruce
Weber. Joe è uno dei protagonisti del documentario
quasi fiction e narrativo "Beefcake" incentrato
sulle figure maschili di giovanotti provenienti
dalla provincia in cerca di fortuna a Hollywood
disposti a esprimere liberamente la propria
sensualità e disponibilità erotica per affermarsi.
Si parla della "factory" del noto fotografo
omosessuale Bob Mizer, produttore dell'Amg, Athletic
Model Guild, che ospitava nella sua dimora e nel suo
studio uno stuolo di ragazzi accattivanti con
ingenuità o con semplice malizia invitante e
spudorata donne e uomini, rapiti dal loro sorriso
maschio e intrigante, oltre che dalla loro possenza
fisica monumentale ma anche spontanea. È la Golden
Age dell'Hard narrato con attenzione e con poetica
dal regista Thom Fitzgerald, a vent'anni di distanza
da quel periodo, una vera e propria arcadia del
novecento, di liberazione sessuale e di connubbio
tra arte e profitto, tra opera estetica e prodotto
commerciale, che fu alla base di quel mitico e
rivoluzionario "american dream" della Silver Factory
di Andy Warhol. Anche il corpo maschile viene
sdoganato come oggetto di attrazione e di
celebrazione su note copertine di magazine
fotografici erotici del tempo quali come "Physique
Pictorial", "Adonis", "Body Beautiful". Joe
Dalessandro diventa, così, rappresentazione di una
figura che imperversa nel mercato mondiale dell'arte
omoerotica, tanto da divenire quel personaggio bello
e dannato, angelico e demoniaco, affascinante e
tentatore, dal lato trasgressivo dei costumi,
semplicemente recitando la parte che gli è propria
caratteristica nella sua realtà, quella di attore
prostituto.
HOLLY WOODLAWN
Non possiamo altro che individuare un altro tipo di
superstar warholiana nella figura di Holly Woodlawn,
che debuttò come personalità di successo e di fama
nell'opera Trash dello stesso Warhol, film del 1970.
il regista George Cukor fece pressione
sull'Accademia per nominarla all'Oscar. Divenne
addirittura un'icona e musa ispiratrice nel testo
della canzone di Lou Reed, componente dei Velvet
Underground, altro gruppo musicale scoperto e
lanciato alla Factory:"Holly came from Miami FLA, /
hitch-hiked her way across the USA, / plucked her
eyebrows on the way, / shaved her legs, and then he
was a she..."
nell'ultimo periodo degli anni 70 Holly rilasciò
un'intervista a Geraldo Rivera in cui alla domanda
chi fosse e che cosa sentisse di essere, se donna
ingabbiata in un corpo maschile, un travestito, un
transessuale, lei rispose semplicemente: "But
darling, what difference does it make, as long as
you look FAB-ULOUS?". Oggi Holly vive a Hollywood e
rimane sempre un'icona intramontabile di un glamour
che non trascende mai nel volgare e nello scontato
ma che appare semplicemente ed elegantemente camp,
come sempre è stata la sua personalità, amata come
sempre da tanti fan, oltre a essere una delle eroine
transessuali degli anni 70, conosciuta e lanciata da
Warhol alla Factory. La scelta del suo nome indica
la spiccata caratteristica del personaggio: si è
data il nome di Holly in omaggio ad una delle figure
cinematografiche più affascinanti e illustri della
pellicola hollywoodiana, Audrey in Colazione da
Tiffany; il cognome Woodlawn è ripreso dal nome del
cimitero di New York, quasi dissacrando l'apparente
sontuosità e serietà artistica.
MAPPLETHORPE
Mapplethorpe è un'altra delle figure vicine al
movimento filosofico della Factory, prima che
produzionale artistico. Il noto fotografo celebra lo
sdoganamento dell'arte fotografica erotica di nudo
maschile e non solo, trasgressiva e dirompente, ma
non pubblicitaria né massificata e massificante.
E' grazie a Mapplethorpe che oggi se notiamo delle
immagine erotiche od omoerotiche nel mondo della
pubblicità non abbiamo più nessun tipo di reazione
scandalistica, ma anzi un apprezzamento dei contorni
e della scelta estetica e contenutistica.
Mapplethorpe sfondò la scena del mercato dell'arte
con la sua prima e provocatoria produzione della
serie "portfolio X", autoritratto nudo di spalle con
una frusta inserita nell'ano. I soggetti di
Mapplethorpe, da questo momento in poi, saranno
sempre quelli di scene estreme erotiche tanto da
dare un contorno e una conseguenza commerciale alle
produzioni, così, realizzate. In questi scenari
vedremo l'artista affrontare gli ambienti
underground sottoculturali di New York. Si dirà di
lui di essere un autore che ha saputo trasporre
immagini appartenenti al mondo dell'omoerotismo in
un ambito prettamente classico, facendo "del nudo -
indifferentemente maschile o femminile - una forma
di studio botanico", come considera il noto critico
d'arte Adriano Altamira. È chiaro che Mapplethorpe
abbia operato un vero e proprio linguaggio di
rottura, una reinvenzione del ruolo dell'arte e
della sua funzione, del suo messaggio, utilizzando
spesso allitterazioni metaforiche prese dalla
natura, come la botanica, in cui i fiori venivano
comparati a organi sessuali del corpo maschile, con
una raffinatezza compositiva delicata quanto
elegante.
HARING
Penso che ognuno di noi abbia una maglietta o sia
capitato di vederla indossare da qualcun altro con
dei disegni raffiguranti omini stilizzati danzanti o
che giocano tra di loro, a volte facendo l'amore, a
volte abbracciandosi in un grande girotondo; oppure
penso che qualche anno fa ad alcuni di noi sia
capitato di comprare uno Swatch con degli ideogrammi
tra il fumetto e i disegni rupestri dei Maya che
segnassero e scandissero le ore della nostra
giornata: ebbene non ci sarebbero state queste
immagini ormai patrimonio della cultura main stream
internazionale se non ci fosse stato un artista
eclettico quanto innovativo, Hip Pop, nel vero senso
di artefice di una popular art, un'arte che parlasse
non all'elite ma alle persone, attivista,
soprattutto negli ultimi anni della sua vita, nella
battaglia contro l'aids, di cui lui stesso, come
dichiarò nel 1986 in un'intervista apparsa su
Rolling Stone, era affetto: Keith Haring. Haring è
sinonimo di "bambino raggiante". In rapporto ad Andy
Warhol Keith dirà: "La vita e il lavoro di Andy
hanno reso possibile il mio lavoro. Andy - prosegue
- aveva stabilito il precedente che rende possibile
l'esistenza della mia arte. È stato il primo vero
artista pubblico in senso globale".
Da Andy Warhol lo distanzierà il fatto di aver dato
una svolta maggiore e più evidente alla dimensione
popolare dell'artista, non un intellettuale
cattedraticamente elevato, ma disposto a proporre
un'arte che sia per tutti, fine verso cui ha voluto
sempre indirizzarsi.
Possiamo ricordare alcune opere che scandiscono la
produzione di Haring: nel 1983 realizza un murale
per la Marquette University a Milwaukee, nel
Wisconsin, mentre, nel 1986, produce il grande
dipinto sul Muro di Berlino, che ancora separa la
Germania Est da quella Ovest, ricco di significato
pacifista e di conciliazione umana, una critica ai
contrasti tra poteri e potenti internazionali.
(anche questa immagine imperversa come Marylin
Monroe seriale di Andy Warhol negli schermi e nelle
rappresentazioni commerciali e non di tutto il
mondo). Ricordiamo l'ultima sua epica opera: la
decorazione attraverso un murales gigantesco sulla
parete esterna del Convento di Sant'Antonio a Pisa,
Tuttomondo, dedicata alla Pace Universale.
Il sesso così come il suo orientamento sessuale
saranno la base di ogni sua opera, l'essenza,
l'anima, il messaggio e la tecnica estetica. Keith
Haring vive la sua omosessualità senza filtri, anche
e soprattutto nella sua produzione artistica,
quindi. Ne sono esempio i murales trasgressivi,
sensuali ed erotici, che realizza nei bagni del Gay
Lesbian Community Service Center nel Greenwich
Village, poco lontani da un'altra opera dai toni più
miti proposta sulla parete di una piscina. E',
questa, una celebrazione estetica quanto sostanziale
del sesso, parte integrante della sua vita e del suo
stile disinibito e senza limiti, spesso promiscuo,
non conformato, sempre estroso, irruente, altamente
innovativo e dirompente.
I supermercati, la strada, le fermate della
metropolitana, sono gli elementi costitutivi e
costituenti di una filosofia senza pretesa, non
certo distaccata ed esclusiva, fondata su una
primitività del segno grafico che si confonde e si
integra con il segno verbale, con le parole,
ritornando all'intensità ideogrammatica in un
progredire seriale."I miei disegni non vogliono
imitare la vita, cercando di crearla … ciò si
avvicina di più ad una idea primitiva … non uso le
linee ed i colori in senso realistico", affermerà a
proposito Haring. Haring è l'ideatore del
minimalismo essenziale di un nuovo modo di pensare
l'arte, accessibile alla massa, e amerà eseguire dal
vivo per strada davanti gli occhi dei passanti le
proprie installazioni: è il primo che farà di sé
autore mentre crea una videoinstallazione. La sua
arte celebra l'uomo, così come quella controcultura
di strada genuina e viva, ricca di ispirazioni e di
idee innovative e rivoluzionarie di una poetica più
attenta a comunicare nel quotidiano che a essere
appannaggio interpretativo di qualche critico
accademico. "L'arte celebra l'uomo - dirà Haring -
non lo manipola" ed è qui l'assenza totale di un
intento pedagogico e quasi educativo dell'arte,
uscendo fuori dagli schemi ideologici e
paternalistici che tante volte molte correnti hanno
espresso, dal realismo all'ipperrealismo, dal
surrealismo all'impressionismo.
Le installazioni sono fatte con gesso bianco su
carta nera applicata su vecchi manifesti
pubblicitari presenti lungo i percorsi della
metropolitana newyorkese, suo atelier e laboratorio
performativo per eccellenza.
Nell'arte di Haring si riscontrano eredità
poliedriche, lo stile fumettistico, l'influenza
della tradizione Maya, l'incisività dei pittogrammi
giapponesi e, infine, la cromaticità vivace di un
Picasso nella sua prismaticità plastica di
rappresentazioni popolate da forme antropomorfe
semplici. Haring ama realizzare le sue opere in una
sola giornata perché vuole che il pubblico, nella
sua composizione sociale plurale, nella sua
accezione interclassista, lo guardi e lo osservi
durante la produzione artistica. Act Up sarà
l'associazione che vedrà un Haring attivista nel
movimento per la ricerca contro l'AIDS, tanto da
fondare la Keith Haring Foundation a favore di
bambini sieropositivi. Haring produce anche opere
che subentrano nelle televisioni e nella
comunicazione mass mediatica generale e popolare: i
tessuti per una collezione dello stilista Stephen
Sprouse, l'etichetta d'artista per i quotati vini
Château Mouton Rothschild; la BMW della serie Art.
Haring vedrà anche un lato camp della sua produzione
attraverso l'epifania di quell'affezione per il
kitsch in senso deliberato, consapevole e
sofisticato, lato imprescindibile dall'analisi di
Keith Haring come uomo preartistico nell'invito a
forma di disco inciso a 45 giri e realizzato per la
festa di compleanno della principessa Gloria von
Thurn und Taxis.
Un mondo ideale è quello che viene rappresentato nel
testamento di Keith Haring, un vero e proprio inno
alla vita, che lui amò profondamente e completo in
modo edonistico ed emancipato, non superficiale e
attento alla dimensione umana. Haring è anche
ricordato come frequentatore abituale e sponsor di
fatto del noto locale d'avanguardia, Plastic, da lui
stesso considerato il primo club europeo per
eleganza e distinzione, e, infine, ideatore del
restyling dello store di Fiorucci in Corso Vittorio
Emanuele con graffiti sulle pareti, colori
appariscenti e fosforescenti nell'arredamento.
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