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Narrativa

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Un ragazzo del '25 di Antonella Bausi, Una lettera di Emanuela Ferrari, Il lato sbagliato di Grazia Filomeno

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Un ragazzo del '25
 

Antonella Bausi
 


 

Molti di noi, giovani e meno giovani, si ricorderanno di quella canzone che iniziava con le parole …"C'era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stone…", ebbene anche questa storia inizia con le parole …"C'era un ragazzo" seppure questo amasse canzoni diverse, quelle del genere sentimentale che usavano negli anni '50, si perché questa è la storia di un ragazzo che era nato nel 1925.
E' una storia semplice, ma emblematica nel suo genere per far comprendere meglio il percorso mentale e politico di tanti giovani suoi coetanei, giovani che si trovarono, proprio nel momento più delicato della loro vita ad operare un rottura drastico con tutto quello al quale erano stati abituati a credere ed a fare una scelta di vita dolorosa ed estremamente difficile. Ed allora, proprio per questo motivo è necessario conoscere il loro retroterra culturale e sociale, altrimenti è impossibile avere una vera comprensione di come si maturò questa scelta e quali ne furono i motivi scatenanti.
Colui del quale mi accingo a raccontare, era l'ultimo di quattro figli di una famiglia di coltivatori diretti piuttosto benestanti per i canoni dell'epoca, che abitava nella casa avita, situata in quello che oggi è un popoloso rione periferico di Firenze, ma che allora era campagna vera e propria, il quartiere di Novoli - Olmatello, addirittura facente parte del Comune di Sesto Fiorentino.
Si chiamava Sergio, perché il suo padrino era "uomo di lettere", come si usava dire allora per definire una persona di una certa cultura, ed amava in particolare la letteratura russa; ovviamente il nome fu accettato dalla madre del neonato solo quando essa fu rassicurata che esisteva veramente un San Sergio, addirittura patrono della Russia, altrimenti non se ne parlava nemmeno di mettere un nome meno che cristiano ad una povera creatura.
Crebbe piuttosto discolo, ma dotato di una grazia birichine che incantava la madre e soprattutto la sorella maggiore, più grande di lui di dieci anni e, proprio grazie a questo ed agli slanci tenerissimi che sapeva esternare nei loro confronti, molte cose gli venivano perdonate. La sua fu nel complesso un'infanzia serena, spensierata, spesa nel fare tiri birboni al malcapitato di turno, il chiasso con gli amici e poco altro; se qualcuno da Roma parlava dei "gloriosi destini della Patria.." e, se in attesa che questi si avverassero, la vita in generale era dura e stentata per molti, di questo a lui arrivavano solo fiochi echi lontani,. In casa non vi era mai penuria di bi, ma casomai abbondanza, le terre si a quelle coltivate in proprio dal padre, che quelle affittate rendevano bene e lui non conobbe mai le privazioni di tanti suoi coetanei.
Certo, anche la sua era vita semplice, scandita dallo scorrere delle stagioni che regolavano la vita dei campi paterni e regolata dalle ore canoniche, perché la Chiesa era più che una presenza, era una realtà della quale non si poteva non tener conto. E così Sergio, o meglio Sergino, come veniva chiamato normalmente perché magro e non molto alto andava a scuola (quando non la marinava!) dava di tanto in tanto una mano al padre e al fratello maggiore (senza troppo affaticarsi però!), faceva il chierichetto e, con suo gran divertimento, suonava le campane per chiamare i fedeli alle funzioni religiose e serviva messa fregando il vino al reverendo e sostituendolo con l'aceto!
A scuola gli avevano insegnato che a Roma c'era il Duce che governava l'Italia e la guidava con la sua saggezza, ma non aveva mai sentito parlare di fascismo e di antifascismo come di concetti in antitesi; quest'ultima espressione specialmente era per lui qualcosa priva di significato; certo aveva visto i gerarchi ed i gerarchetti marciare tronfi e pieni di sé, in camicia nera ed orbace, ma in realtà erano solo figure un po' ridicole che non facevano paura. Ai suoi occhi era ben più temibile il parroco se si mancava alla messa o al catechismo o se veniva a casa a raccontare dei guai che i ragazzi come lui combinavano in canonica.
Eppure era stato proprio a causa di uno di questi pezzi da novanta del fascio locale che aveva ricevuto da suo padre il primo ed unico ceffone della sua vita.
Le cose erano andate più o meno cosi: questo "signore" vestito di orbace e con gli stivaloni, camminava per il borgo con aria piena d'importanza producendo un rumore ridicolo con le calzature. Sergio e gli altri monellacci suoi pari, avevano trovato il tutto molto comico e si erano divertiti a fargli il verso ridicolizzandolo, senza malizia naturalmente, con tutta l'ingenuità dei bambini, ma senza pietà; tuttavia la cosa al fascistello non era andata giù ed era corso a lamentarsi con il padre del nostro, minacciandolo a sproposito, ma in modo efficace.
Le minacce non erano state vane ed il pover'uomo, impaurito dagli effetti di quello che era solo uno scherzo da ragazzi ma che poteva avere conseguenze catastrofiche, aveva reagito con durezza, schiaffeggiando il figlio il quale era soprattutto rimasto incredulo perché non si aspettava certo una tale reazione per una cosa così stupida; dopotutto ne aveva combinate di peggiori e non si era beccato nient'altro che qualche reprimenda.
Cominciò così a pensare che il fascismo non fosse poi quella fonte di benessere e di sicurezza che si propagandava, ma tutto ciò restava ancora allo stadio nebuloso di un rancore personale per un torto subito e che sentiva immeritato.
Successivamente, erano accaduti due episodi che gli avevano dato da pensare.
Nella primavera del 1938 il padrone della Germania, Hitler era venuto in visita a Firenze, la città dell'arte che stuzzicava la sua fantasia malata di artista fallito. Tutti erano stati mobilitati e anche Sergio aveva dovuto mettere insieme una divisa da "Balilla" che a conti fatti era risultata piuttosto raffazzonata; ovviamente, non risultando un campione di eleganza fascista gli erano stati assegnati due compiti non molto graditi; il primo era consistito nel fare la guardia alle biciclette dei potentati del fascio che erano venuti a riverire il Duce ed il Fhurer. Come era prevedibile, la guardia l'aveva fatta a modo suo, mandandoli mentalmente al diavolo e fregandosene della consegna. Se n'era andato a zonzo, tornando giusto in tempo per far credere di aver assolto in modo egregio il compito assegnatoli e tanti saluti a tutti. Il secondo lavoro era stato ancora più sgradevole e consistente com'era nella pulizia delle latrine usate da questi "gentiluomini" e Sergio, equiparandoli agli escrementi che avrebbe dovuto pulire se l'era cavata con una sommaria secchiata d'acqua, pensando quanto gli sarebbe stato gradito gettarla in faccia a chi sapeva lui.
L'anno successivo, 1939 per la precisione, per i primi di settembre, al cinema della parrocchia era previsto un film di quelli che facevano spasimare i quindicenni di allora. Probabilmente era un ignobile polpettone, ma pur di vederlo, Sergio aveva fatto in modi di comportarsi in modo impeccabile per un'intera settimana, cosa che per lui doveva essere stato uno sforzo non indifferente ed il sospirato permesso era stato accordato. Poi all'ultimo momento era successo il patatrac….Contrordine ragazzi, quella sera il priore non avrebbe fatto proiettare il film perché era accaduto un fatto gravissimo: la Polonia era stata invasa dai tedeschi e quindi….. tutti in chiesa a fare una veglia di preghiera speciale per la povera nazione. Sicuramente, dato che era stato trascinato in chiesa per un orecchio dalla sua religiosissima mamma, le sue preghiere avevano avuto poca efficacia, mescolate com'erano ad improperi nei confronti dei nazisti e soprattutto del priore che aveva rovinato un divertimento così a lungo agognato. Poco ma sicuro, l'episodio doveva essergli rimasto sul gozzo, se anche dopo tanti anni, ancora se lo ricordava e malediceva quel povero parroco!
Intanto gli anni passavano, anche l'Italia entrava in guerra ma tanto tutto si sarebbe risolto in fretta, o almeno così dicevano, ed era delitto anche il solo non pensarlo, la vita continuava, suo fratello, maggiore di lui di ben tredici anni, si sposava e Sergio faceva così conoscenza con il fratello della futura cognata, una persona che avrebbe impresso un'impronta indelebile sulla sua vita.
Ugo, così si chiamava il nuovo parente acquisito, aveva circa ventisette anni, era alto, magro, dotato di un'eleganza innata e di una cultura così profonda che apparivano in netto contrasto con il suo lavoro di argentiere. Inoltre era calmo, pacato nella parola e nei gesti ed…..era stranamente iscritto al Fascio, anche se in casa non parlava mai di politica.
Nel '42, colpo di fulmine in famiglia, pianti di donne, urla e svenimenti!Ugo era stato arrestato per cospirazione antifascista e tradotto davanti al Tribunale Speciale. Ora Sergio capiva tante cose che prima non gli tornavano; Ugo in realtà era da sempre un antifascista convinto, che il partito comunista clandestino aveva infiltrato nelle file del fascio per scoprire e anticipare le mosse del nemico.
Poi, un'ignobile spiata, la reazione fulminea di quelli che si sentivano già tremare il culo per la paura di una guerra che non prometteva più quelle glorie fulminee ed eclatanti di avevano tanto parlato, ma piuttosto una sconfitta ingloriosa e, tutto si era concluso con l'arresto di queste persone che lottavano in segreto per far cessare quest'ingiusto stato di cose.
Assumendosi questo compito, Ugo rischiava molto e ne era pienamente cosciente; qualcuno aveva anche parlato di una probabile condanna a morte per questi che venivano designati come "traditori" della Patria e del "sogno" fascista; queste misure estreme per fortuna non erano state prese, ma le condanne inflitte erano state durissime. Tutti gli imputati erano stati condannati a ventiquattro, venticinque anni di carcere circa.
Sergio cominciò così piano piano, a comprendere che cosa fossero in realtà, il fascismo e l'antifascismo, intuì, sia pure con difficoltà, la differenza tra chi lottava per togliere la libertà alle persone e coloro che invece rischiavano tutto perché questa libertà, di parola e di pensiero divenissero patrimonio comune.
Ugo intanto, dal carcere chiedeva libri, libri che parlavano di lotte operaie e sindacali, di soprusi sociali; ovviamente spesso si trattava di opere proibite dal regime, che si trovavano a fatica e che era un rischio dare ai carcerati, ma si sa, quando uno vuole certe cose riesce a farle e Sergio, prima di mandare all'amico questi libri provava a leggerli lui stesso, magari non comprendendoli perfettamente perché esprimevano concetti difficili per la sua mente addormentata da quasi un ventennio di aria fascista, ma intuendone tuttavia il vero significato.
Non era un compito facile ed Ugo stesso, avrebbe poi raccontato che anche in carcere, dove aveva trovato dei compagni eccezionali, molto più preparati culturalmente della media e alcuni dei quali sarebbero poi diventati dei nomi famosi della Costituente e della Repubblica, queste letture venivano discusse, messe a confronto e tutto per cercare di capire, capire, capire…
Si arrivò così all'8 settembre 1943; Ugo con altri compagni approfittò della confusione di quei giorni per fuggire dal carcere. Ovviamente, non poteva tornarsene tranquillamente a casa ed infatti, con la copertura del Partito Comunista, si dette alla lotta clandestina organizzando i primi gruppi armati dei partigiani. In breve tempo la case dei genitori di Sergio divenne uno dei centri di smistamento e di raccolta dei ragazzi che si davano alla macchia, cioè di coloro che si aggregavano alle bande partigiane che operavano nella zona di Monte Morello e dintorni. I due prestavano la loro assistenza con uno spirito che era improntato più alla semplice solidarietà umana ed alla carità cristiana, piuttosto che corrispondente ad una precisa scelta politica, anche perché una tale coscienza era lontanissima dalla loro formazione mentale, mentre i giovani di casa erano tutti molto più coinvolti; i figlio, i fidanzati delle figliole, i cugini, ognuno portava il suo contributo grande o piccolo che fosse, con l'onnipresente Ugo che pur da lontano coordinava e soprintendeva a tutte le operazioni logistiche. Anche il piccolo di casa, Sergio faceva qualcosa, ma con prudenza all'inizio, soprattutto per non allarmare sua madre, poveretta che sarebbe svenuta dal terrore se avesse compreso l'intera portata di quello che stava realmente avvedendo in casa sua (cosa che puntualmente avvenne quando, a guerra terminata, scoprì che sotto il cortile esterno della casa era stata sepolta una notevole quantità di armi).
Poi le cose precipitarono, ci fu il bando che chiamava i giovani del '24 e del '25 a combattere per la RSI, la repubblica sociale di Mussolini, un Mussolini ormai succube del paranoico tedesco.
Chi non si presentava veniva dichiarato "renitente alla leva" e passabile di fucilazione. Il dilemma che si presentò in quei giorni a molti giovani fu orribile, anche perché vi era la concreta possibilità che i fascisti ed i tedeschi si rivalessero sulle loro famiglie in caso di una loro non adesione al bando.
Oltretutto, erano davvero pochi coloro che comprendevano realmente l'orrore generato dal fascismo e questa incertezza mentale fu uno scotto da pagare che si ripercosse negativamente su tanti ragazzi che si ritrovarono davvero "allo sbando".
Sergio, anche grazie alla sua neonata conoscenza politica, risvegliata dalle letture e dall'esempio dell'amico Ugo, non ebbe molti dubbi; lui a combattere per i tedeschi non ci sarebbe mai andato, ma bisognava agire con prudenza per non attirare i fulmini della vendetta sul capo dei suoi cari. I primi tempi rimase nascosto in una cantina presso dei parenti, vivendo in condizioni di puro terrore, aggravate dalla preoccupazione per la salute della madre, la quale era bersagliata dal fascista di zona che si divertiva ad insinuarla la paura per il destino invitabile che attendeva il suo figlio più piccolo e cercando di convincerla che sarebbe stato un bene per lui se si fosse consegnato. Si trattò di una vera e propria tortura psicologica che incise profondamente sul fisico di questa donna, ma che rientrava pienamente negli schemi della "nobile" guerra condotta dai nazifascisti. Non è un'esagerazione affermare che le sofferenze vissute da quella povera creatura impaurita, dilaniata fra le incertezze per la sorte che attendeva suo figlio, siano state una delle cause scatenanti il tumore al fegato che vent'ani dopo l'avrebbe portata alla tomba.
A questo punto Sergio, grazie ad Ugo, divenuto nel frattempo Commissario Politico (per i suoi trascorsi e per i suoi indiscussi meriti di combattente ed organizzatore), della Brigata "Lanciotto Ballerini", riuscì ad unirsi alla formazione partigiana della "Senigallia" che operava sul Monte Giovi e sul Pratomagno; aveva solo diciannove anni e tutta l'incoscienza della sua età, oltre a quella dovuta esclusivamente alla sua natura e che si sarebbe portato dietro per tutta la vita, trasmettendola in buona parte anche ai suoi discendenti.
Se la vita la campo era sicuramente dura a causa delle condizioni disagevoli nelle quali si operava, e questo senza contare il pericolo sempre presenti dei reparti nazisti e fascisti operanti in zona, essa era anche entusiasmante e del tutto nuova.
Oltre che combattere si leggeva, si studiava, veniva fatta scuola di politica, che altro da parte dei vecchi combattenti che avevano venti e più anni di lotta al fascismo alle spalle, a questi giovani che solo ora si ridestavano da quell'intorpidimento della coscienza provocata dalla pseudo cultura del ventennio. Si trattò di una vera e propria lezione di vita che doveva successivamente agire in modo catartico sulle menti e sulle coscienze di questi ragazzi, molti dei quali sarebbero poi diventati la struttura portante dei nuovi partiti democratici.
Spesso le giornate erano funestate dalle notizie della stragi perpetrate dai nazi fascisti ai danni delle popolazioni locali, dalla consapevolezza che alcuni compagni e purtroppo, si solito si trattava dei più coraggiosi, erano caduti nelle mani dei loro nemici ed erano stati passati per le armi, ma questi orrori erano supportati grazie alla speranza che non si trattasse di vani sacrifici, ma di un seme gettato per un futuro migliore.
Certo la rabbia, lo sconforto, che in quei momenti prendevano Sergio ed i suoi amici erano enormi, il desiderio di vendetta poteva diventare feroce, ma erano mementi che non duravano a lungo; anzi nell'animo di molti di loro non albergava solo un odio cieco contro un mendico spietato e che andava combattuto con tutte le loro forze, ma anche un senso di profonda pietà per questa gente che aveva ripudiato la propria umanità. Si prendeva coscienza di un concetto importante per la costruzione di quel mondo nuovo al quale si auspicava quello che l'odio genera solo l'odio che non si può giudicare in blocco un popolo per la furia cieca e distruttiva che animava una sua parte che aveva condotto a questi orrori.
In realtà, bisogna aggiungere che la simpatia per i tedeschi in Sergio non era poi così profonda e, per amore di verità, bisogna anche dire che per anni, quando gli capitava di sentire il loro accento gutturale che riportava istintivamente il ricordo di tanti momenti difficili, il primo e comprensibilissimo moto fosse quello di una ripulsa viscerale.
Altre volte gli episodi che accadevano andavano sul tragicomico, come nel caso dei militi di Vicchio, disarmati da un gruppetto di partigiani, fra i quali primeggiava il sempre calmo ed efficiente Ugo, armati di pistole che poi risultarono scariche, o come in quello che vide coinvolti proprio Sergio ed un suo amico. I due avevano avuto l'incarico di consegnare delle armi da una postazione partigiana all'altra, e per far ciò non avevano saputo escogitare di meglio che nascondere ciò che non doveva essere assolutamente visto dai nazi, sotto uno strato di paglia ricoperta di olezzante letame, trasportando il tutto servendosi di un carretto tirato a mano. Inoltre, per dare meno nell'occhio, avevano invitato un loro giovane conoscente, incontrato casualmente per via e del tutto ignaro della loro reale attività, ad unirsi a loro per far credere di essere intenti in una attività del tutto innocente. I nostri "eroi" stavano appunto conducendo il loro "profumato" carico, quando una ruota del carretto si era incastrata nelle rotaie di un tratto ferroviario ormai in disuso. La sfortuna volle, che proprio lì vicino, stazionasse un gruppo di militi repubblichini i quali, vedendo questi giovani contadini, almeno così sembravano, in difficoltà, si avvicinarono per capire di cosa si trattasse. Sergio, con l'incoscienza e la sfrontatezza propria della sua età, non solo riuscì a non batter ciglio di fronte alle armi spianate (anche se sicuramente la strizza che provava in quel momento doveva essere notevole), ma ebbe anche la faccia tosta di richiedere il loro aiuto per liberare la ruota incastrata, aiuto che fu concesso, dobbiamo riconoscerlo, celermente e con molta disponibilità da parte dei militi.
I tre ripartirono ed arrivarono senza incidenti alla loro destinazione ma con grande costernazione del giovane contadino il quale, quando si accorse del carico effettivo che aveva aiutato a trasportare e chi ne erano i destinatari, ebbe coscienza del pericolo che i due incoscienti gli avevano fatto correre.
Un'altra volta il pericolo corso dal "nostro" fu invece più tangibile e il ricordo di quei momenti terribili si impresse in lui in modo indelebile.
Dopo la liberazione del centro cittadino, mentre le brigate partigiane costringevano le SS e le truppe della Wermacht a ripiegare verso la periferia, Sergio ed un suo cugino, partigiano anch'esso, erano stai mandati in ricognizione perché il territorio dove in quel momento operava la sua pattuglia, era proprio quello dei loro luoghi natali e i due ragazzi, conoscendo bene la zona si erano offerti di guidare i loro compagni e , soprattutto di sgomberare il campo da eventuali pericoli dovuti alla presenza dei reparti tedeschi. Evidentemente, però questi erano ben nascosti, tanto che i due se li ritrovarono addosso in un nanosecondo. Quello che accadde subito dopo fu praticamente un incubo di violenza nel quale i due si ritrovarono improvvisamente catapultati. Colpi sferrati barbaramente con le mani ed i calci delle pistole (a Sergio cadde addirittura un dente), ingiurie, sputi ed altre piacevolezze del genere; Sergio si sentì anche sbattere ripetutamente la testa nel muro della casa colonica contro il quale i germanici li avevano spintonati, con l'intento evidente di inchiodarceli con qualche raffica ben assestata, secondo il loro gentile costume.
Fortuna volle che, come nei migliori film western che piacevano tanto a Sergio, anche qui arrivarono i "nostri" e proprio al momento giusto; infatti i partigiani della sua pattuglia accortesi che stava accadendo qualcosa di poco simpatico, si misero a sparare contro i tedeschi operando così un diversivo. Fu questione di un attimo, come erano soliti ricorda sergio e suo cugino; in una manciata di secondi essi dovettero decidere cosa fare; se rimanere lì ad aspettare un soccorso in piena regola ma con la possibilità concreta di essere trascinati dentro la casa dai tedeschi ed esservi eliminati o darsela a gambe, affrontando però il rischio di beccarsi una sventagliata di mitra, sventagliata che in effetti non mancò di fischiare intorno alle loro teste. Per buona sorte la loro gioventù, unita alle gambe buone e all'ottima conoscenza del terreno permisero ai nostri baldi giovani di cavarsela sia pure per il rotto della cuffia e di riparare dietro le loro linee.
Ovviamente, altri eventi erano accaduti prima di questo episodio, perché nel periodo tra fine luglio ed inizio agosto, le forze alleate si stavano avvicinando a Firenze e le battaglie combattute dai partigiani per riunirsi a loro, diventavano sempre più aspre, con difficoltà dovute sia alla carenza di vitto, del tutto insufficiente per ragazzi giovani e pieni di energia, sia a quella di equipaggiamento e di armi.
L'ultima battaglia e forse la più difficile, perché avvenuta in condizioni tremende e dopo un lungo percorso per ricongiungersi con le altre brigate di cui la Senigallia faceva parte, alla loro divisione, l'ARNO, comandata dal mitico Potente, fu quella che avvenne a Fontesanta, sopra la frazione dell'Antella.
Lì, davvero la Brigata e soprattutto la sezione di Sergio, la Faliero Pucci (detta Stella Rossa perché composta oltre che da fiorentini anche da molti ex prigionieri russi) comandata da Bastiano e Gigi (nomi di battaglia ovviamente) aveva fatto miracoli, riuscendo a ripiegare in ordine ed al prezzo solo di pochi feriti. A quel punto avevano incontrato i primi avamposti alleati e l'entusiasmo era diventato incontenibile; si sentiva Firenze ormai a portati di mano ed essa sembrava aspettare solo l'arrivo dei suoi coraggiosi ragazzi; praticamente pareva quasi che ormai si trattasse solo di una semplice passeggiata; si buttavano fuori i tedeschi e via…!
Dio solo sa, quanto questa convinzione, frutto di generoso e giovanile entusiasmo, frammisto ad incoscienza e di mal riposto coraggio, sarebbe costata in termine di sangue e di vite umane, specialmente vite giovani, giovanissime, stroncate proprio ad un passo della vittoria sui tedeschi.
La Senigallia fu la prima brigata a scendere in città, passando per il Viale di Colli e di lì arrivando in oltrarno insieme ai primi mezzi corazzati anglo americani. Ma questi si sarebbero rivelati ben presto inutili per snidare i tedeschi ed i franchi tiratori fascisti dalle antiche e tortuose viuzze fiorentine; per quest'azione di repulisti furono necessari propri i gruppi partigiani che mettendo a repentaglio la loro pelle riuscirono a sgomberare le strade del centro, preparandole per gli alleati, riluttanti a sprecare uomini per una città, sia pure importante come Firenze, ma che risultava ancora saldamente in mano ai tedeschi.
Sergio, queste giornate di un agosto terribile e caldissimo se le visse tutte; partecipò alla caccia agli ignobili franchi tiratori che sparavano sulla popolazione inerme, visse lo strazio della morte di Potente, il suo eccezionale comandante, caduto proprio alla vigilia della liberazione; attraversò l'Arno in secca, grazie alla Pescaia di Santa Rosa e sentì il suono della martinella che l'11 Agosto chiamava tutti i fiorentini che potevano combattere, alle armi per liberare il centro della città.
Con i suoi compagni laceri, affamati, incazzati per la morte ingiusta di troppi di loro, avanzò strada per strada verso i punti nevralgici dei combattimenti; il Casone dei Ferrovieri, la Manifattura tabacchi, dove i tedeschi con i loro carri armati misero in atto una strenua opposizione all'avanzare delle truppe alleate e partigiane, il Ponte Rosso, semidistrutto dal cannoneggiamento nemico, e tanti altri luoghi che furono conquistati palmo a palmo da questi ragazzi male armati con i vestiti a brandelli e lo stomaco spesso a terra dalla fame. Vide cose che seguito, solo in seguito riuscì a raccontare, episodi di orrore dove la realtà escogitata dalla perfidia umana superava ogni fantasia perversa, eppure sopravvisse, riemergendo con difficoltà da un abisso di tenebre nel quale era stato spinto, lui ed suoi coetanei, dalla ferocia di un pugno di esseri indegni del nome di uomini, grazie all'elasticità ed alla meravigliosa capacità di ripresa dell'estrema giovinezza.
La guerra finì, la sua vita continuò, com'era giusto che fosse, anche se le ferite di quei giorni non si sarebbero mai cancellate completamente dalla sua anima, ferite che avrebbero sanguinato nuovamente in occasione di ogni anniversario, di ogni episodio che portasse alla mente ciò che era stato. Eppure, paradossalmente, furono proprio quelle ferite a plasmare la sua personalità, il suo modo di vivere e di intendere la vita.
Fu sicuramente il ricordo di quella bimba con la gamba dilaniata da una bomba, che egli aveva tratto in salvo al Ponte Rosso, così come quello della creatura di un anno uccisa a colpi di baionetta insieme alla giovanissima mamma, che lui ed i suoi compagni avevano scoperto in un casolare di contadini sul Pratomagno, a inspirargli quell'orrore per ogni torto inflitto ad un bambino, orrore che in lui diventata quasi un'ossessione.
Anche successivamente gli bastava di venire a conoscenza dai giornali o dalla televisione di episodi di violenza inflitta ad un qualsiasi bambino, per esplodere in espressioni di rabbia nei confronti dei "mostri" che facevano quasi paura.
Fu il pensiero dei compagni caduti, ad instillare nella figlia e nei giovani che venivano a contato con lui, il culto per questi momenti della nostra storia che non dovevano cadere nell'oblio ed ispirargli una scelta di vita, non solo politica, ma soprattutto morale, improntata a quegli ideali per i quali aveva sofferto e lottato.
Ecco, termina qui la storia di un ragazzo nato nel 1925 che aveva vissuto i sui vent'anni sotto il pericolo continuo e concreto della morte per mano di un fucile o di una granata nazista.
E' una storia semplice, senza eroismi, perché come lui era solito dire, non c'erano stati eroismi nell'essere partigiani, si faceva solo il proprio dovere e basta, poi ci se ne dimenticava.
Questo modo di pensare è diventato per lui una seconda natura che l'ha portato a fare le scelte politiche, morali e di vita che ha poi seguito sempre.
Quel ragazzo era mio padre.

 
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