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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi narrativi inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Un ragazzo del '25 di
Antonella Bausi, Una
lettera di Emanuela Ferrari,
Il lato sbagliato di
Grazia Filomeno
Poesia in italiano
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Alessandra
Ferrari, Emanuela
Ferrari
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Lucia
Dragotescu
Interviste
Articoli
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Molti di noi, giovani e meno
giovani, si ricorderanno di quella canzone che
iniziava con le parole …"C'era un ragazzo che come
me amava i Beatles e i Rolling Stone…", ebbene anche
questa storia inizia con le parole …"C'era un
ragazzo" seppure questo amasse canzoni diverse,
quelle del genere sentimentale che usavano negli
anni '50, si perché questa è la storia di un ragazzo
che era nato nel 1925.
E' una storia semplice, ma emblematica nel suo
genere per far comprendere meglio il percorso
mentale e politico di tanti giovani suoi coetanei,
giovani che si trovarono, proprio nel momento più
delicato della loro vita ad operare un rottura
drastico con tutto quello al quale erano stati
abituati a credere ed a fare una scelta di vita
dolorosa ed estremamente difficile. Ed allora,
proprio per questo motivo è necessario conoscere il
loro retroterra culturale e sociale, altrimenti è
impossibile avere una vera comprensione di come si
maturò questa scelta e quali ne furono i motivi
scatenanti.
Colui del quale mi accingo a raccontare, era
l'ultimo di quattro figli di una famiglia di
coltivatori diretti piuttosto benestanti per i
canoni dell'epoca, che abitava nella casa avita,
situata in quello che oggi è un popoloso rione
periferico di Firenze, ma che allora era campagna
vera e propria, il quartiere di Novoli - Olmatello,
addirittura facente parte del Comune di Sesto
Fiorentino.
Si chiamava Sergio, perché il suo padrino era "uomo
di lettere", come si usava dire allora per definire
una persona di una certa cultura, ed amava in
particolare la letteratura russa; ovviamente il nome
fu accettato dalla madre del neonato solo quando
essa fu rassicurata che esisteva veramente un San
Sergio, addirittura patrono della Russia, altrimenti
non se ne parlava nemmeno di mettere un nome meno
che cristiano ad una povera creatura.
Crebbe piuttosto discolo, ma dotato di una grazia
birichine che incantava la madre e soprattutto la
sorella maggiore, più grande di lui di dieci anni e,
proprio grazie a questo ed agli slanci tenerissimi
che sapeva esternare nei loro confronti, molte cose
gli venivano perdonate. La sua fu nel complesso
un'infanzia serena, spensierata, spesa nel fare tiri
birboni al malcapitato di turno, il chiasso con gli
amici e poco altro; se qualcuno da Roma parlava dei
"gloriosi destini della Patria.." e, se in attesa
che questi si avverassero, la vita in generale era
dura e stentata per molti, di questo a lui
arrivavano solo fiochi echi lontani,. In casa non vi
era mai penuria di bi, ma casomai abbondanza, le
terre si a quelle coltivate in proprio dal padre,
che quelle affittate rendevano bene e lui non
conobbe mai le privazioni di tanti suoi coetanei.
Certo, anche la sua era vita semplice, scandita
dallo scorrere delle stagioni che regolavano la vita
dei campi paterni e regolata dalle ore canoniche,
perché la Chiesa era più che una presenza, era una
realtà della quale non si poteva non tener conto. E
così Sergio, o meglio Sergino, come veniva chiamato
normalmente perché magro e non molto alto andava a
scuola (quando non la marinava!) dava di tanto in
tanto una mano al padre e al fratello maggiore
(senza troppo affaticarsi però!), faceva il
chierichetto e, con suo gran divertimento, suonava
le campane per chiamare i fedeli alle funzioni
religiose e serviva messa fregando il vino al
reverendo e sostituendolo con l'aceto!
A scuola gli avevano insegnato che a Roma c'era il
Duce che governava l'Italia e la guidava con la sua
saggezza, ma non aveva mai sentito parlare di
fascismo e di antifascismo come di concetti in
antitesi; quest'ultima espressione specialmente era
per lui qualcosa priva di significato; certo aveva
visto i gerarchi ed i gerarchetti marciare tronfi e
pieni di sé, in camicia nera ed orbace, ma in realtà
erano solo figure un po' ridicole che non facevano
paura. Ai suoi occhi era ben più temibile il parroco
se si mancava alla messa o al catechismo o se veniva
a casa a raccontare dei guai che i ragazzi come lui
combinavano in canonica.
Eppure era stato proprio a causa di uno di questi
pezzi da novanta del fascio locale che aveva
ricevuto da suo padre il primo ed unico ceffone
della sua vita.
Le cose erano andate più o meno cosi: questo
"signore" vestito di orbace e con gli stivaloni,
camminava per il borgo con aria piena d'importanza
producendo un rumore ridicolo con le calzature.
Sergio e gli altri monellacci suoi pari, avevano
trovato il tutto molto comico e si erano divertiti a
fargli il verso ridicolizzandolo, senza malizia
naturalmente, con tutta l'ingenuità dei bambini, ma
senza pietà; tuttavia la cosa al fascistello non era
andata giù ed era corso a lamentarsi con il padre
del nostro, minacciandolo a sproposito, ma in modo
efficace.
Le minacce non erano state vane ed il pover'uomo,
impaurito dagli effetti di quello che era solo uno
scherzo da ragazzi ma che poteva avere conseguenze
catastrofiche, aveva reagito con durezza,
schiaffeggiando il figlio il quale era soprattutto
rimasto incredulo perché non si aspettava certo una
tale reazione per una cosa così stupida; dopotutto
ne aveva combinate di peggiori e non si era beccato
nient'altro che qualche reprimenda.
Cominciò così a pensare che il fascismo non fosse
poi quella fonte di benessere e di sicurezza che si
propagandava, ma tutto ciò restava ancora allo
stadio nebuloso di un rancore personale per un torto
subito e che sentiva immeritato.
Successivamente, erano accaduti due episodi che gli
avevano dato da pensare.
Nella primavera del 1938 il padrone della Germania,
Hitler era venuto in visita a Firenze, la città
dell'arte che stuzzicava la sua fantasia malata di
artista fallito. Tutti erano stati mobilitati e
anche Sergio aveva dovuto mettere insieme una divisa
da "Balilla" che a conti fatti era risultata
piuttosto raffazzonata; ovviamente, non risultando
un campione di eleganza fascista gli erano stati
assegnati due compiti non molto graditi; il primo
era consistito nel fare la guardia alle biciclette
dei potentati del fascio che erano venuti a riverire
il Duce ed il Fhurer. Come era prevedibile, la
guardia l'aveva fatta a modo suo, mandandoli
mentalmente al diavolo e fregandosene della
consegna. Se n'era andato a zonzo, tornando giusto
in tempo per far credere di aver assolto in modo
egregio il compito assegnatoli e tanti saluti a
tutti. Il secondo lavoro era stato ancora più
sgradevole e consistente com'era nella pulizia delle
latrine usate da questi "gentiluomini" e Sergio,
equiparandoli agli escrementi che avrebbe dovuto
pulire se l'era cavata con una sommaria secchiata
d'acqua, pensando quanto gli sarebbe stato gradito
gettarla in faccia a chi sapeva lui.
L'anno successivo, 1939 per la precisione, per i
primi di settembre, al cinema della parrocchia era
previsto un film di quelli che facevano spasimare i
quindicenni di allora. Probabilmente era un ignobile
polpettone, ma pur di vederlo, Sergio aveva fatto in
modi di comportarsi in modo impeccabile per
un'intera settimana, cosa che per lui doveva essere
stato uno sforzo non indifferente ed il sospirato
permesso era stato accordato. Poi all'ultimo momento
era successo il patatrac….Contrordine ragazzi,
quella sera il priore non avrebbe fatto proiettare
il film perché era accaduto un fatto gravissimo: la
Polonia era stata invasa dai tedeschi e quindi…..
tutti in chiesa a fare una veglia di preghiera
speciale per la povera nazione. Sicuramente, dato
che era stato trascinato in chiesa per un orecchio
dalla sua religiosissima mamma, le sue preghiere
avevano avuto poca efficacia, mescolate com'erano ad
improperi nei confronti dei nazisti e soprattutto
del priore che aveva rovinato un divertimento così a
lungo agognato. Poco ma sicuro, l'episodio doveva
essergli rimasto sul gozzo, se anche dopo tanti
anni, ancora se lo ricordava e malediceva quel
povero parroco!
Intanto gli anni passavano, anche l'Italia entrava
in guerra ma tanto tutto si sarebbe risolto in
fretta, o almeno così dicevano, ed era delitto anche
il solo non pensarlo, la vita continuava, suo
fratello, maggiore di lui di ben tredici anni, si
sposava e Sergio faceva così conoscenza con il
fratello della futura cognata, una persona che
avrebbe impresso un'impronta indelebile sulla sua
vita.
Ugo, così si chiamava il nuovo parente acquisito,
aveva circa ventisette anni, era alto, magro, dotato
di un'eleganza innata e di una cultura così profonda
che apparivano in netto contrasto con il suo lavoro
di argentiere. Inoltre era calmo, pacato nella
parola e nei gesti ed…..era stranamente iscritto al
Fascio, anche se in casa non parlava mai di
politica.
Nel '42, colpo di fulmine in famiglia, pianti di
donne, urla e svenimenti!Ugo era stato arrestato per
cospirazione antifascista e tradotto davanti al
Tribunale Speciale. Ora Sergio capiva tante cose che
prima non gli tornavano; Ugo in realtà era da sempre
un antifascista convinto, che il partito comunista
clandestino aveva infiltrato nelle file del fascio
per scoprire e anticipare le mosse del nemico.
Poi, un'ignobile spiata, la reazione fulminea di
quelli che si sentivano già tremare il culo per la
paura di una guerra che non prometteva più quelle
glorie fulminee ed eclatanti di avevano tanto
parlato, ma piuttosto una sconfitta ingloriosa e,
tutto si era concluso con l'arresto di queste
persone che lottavano in segreto per far cessare
quest'ingiusto stato di cose.
Assumendosi questo compito, Ugo rischiava molto e ne
era pienamente cosciente; qualcuno aveva anche
parlato di una probabile condanna a morte per questi
che venivano designati come "traditori" della Patria
e del "sogno" fascista; queste misure estreme per
fortuna non erano state prese, ma le condanne
inflitte erano state durissime. Tutti gli imputati
erano stati condannati a ventiquattro, venticinque
anni di carcere circa.
Sergio cominciò così piano piano, a comprendere che
cosa fossero in realtà, il fascismo e
l'antifascismo, intuì, sia pure con difficoltà, la
differenza tra chi lottava per togliere la libertà
alle persone e coloro che invece rischiavano tutto
perché questa libertà, di parola e di pensiero
divenissero patrimonio comune.
Ugo intanto, dal carcere chiedeva libri, libri che
parlavano di lotte operaie e sindacali, di soprusi
sociali; ovviamente spesso si trattava di opere
proibite dal regime, che si trovavano a fatica e che
era un rischio dare ai carcerati, ma si sa, quando
uno vuole certe cose riesce a farle e Sergio, prima
di mandare all'amico questi libri provava a leggerli
lui stesso, magari non comprendendoli perfettamente
perché esprimevano concetti difficili per la sua
mente addormentata da quasi un ventennio di aria
fascista, ma intuendone tuttavia il vero
significato.
Non era un compito facile ed Ugo stesso, avrebbe poi
raccontato che anche in carcere, dove aveva trovato
dei compagni eccezionali, molto più preparati
culturalmente della media e alcuni dei quali
sarebbero poi diventati dei nomi famosi della
Costituente e della Repubblica, queste letture
venivano discusse, messe a confronto e tutto per
cercare di capire, capire, capire…
Si arrivò così all'8 settembre 1943; Ugo con altri
compagni approfittò della confusione di quei giorni
per fuggire dal carcere. Ovviamente, non poteva
tornarsene tranquillamente a casa ed infatti, con la
copertura del Partito Comunista, si dette alla lotta
clandestina organizzando i primi gruppi armati dei
partigiani. In breve tempo la case dei genitori di
Sergio divenne uno dei centri di smistamento e di
raccolta dei ragazzi che si davano alla macchia,
cioè di coloro che si aggregavano alle bande
partigiane che operavano nella zona di Monte Morello
e dintorni. I due prestavano la loro assistenza con
uno spirito che era improntato più alla semplice
solidarietà umana ed alla carità cristiana,
piuttosto che corrispondente ad una precisa scelta
politica, anche perché una tale coscienza era
lontanissima dalla loro formazione mentale, mentre i
giovani di casa erano tutti molto più coinvolti; i
figlio, i fidanzati delle figliole, i cugini, ognuno
portava il suo contributo grande o piccolo che
fosse, con l'onnipresente Ugo che pur da lontano
coordinava e soprintendeva a tutte le operazioni
logistiche. Anche il piccolo di casa, Sergio faceva
qualcosa, ma con prudenza all'inizio, soprattutto
per non allarmare sua madre, poveretta che sarebbe
svenuta dal terrore se avesse compreso l'intera
portata di quello che stava realmente avvedendo in
casa sua (cosa che puntualmente avvenne quando, a
guerra terminata, scoprì che sotto il cortile
esterno della casa era stata sepolta una notevole
quantità di armi).
Poi le cose precipitarono, ci fu il bando che
chiamava i giovani del '24 e del '25 a combattere
per la RSI, la repubblica sociale di Mussolini, un
Mussolini ormai succube del paranoico tedesco.
Chi non si presentava veniva dichiarato "renitente
alla leva" e passabile di fucilazione. Il dilemma
che si presentò in quei giorni a molti giovani fu
orribile, anche perché vi era la concreta
possibilità che i fascisti ed i tedeschi si
rivalessero sulle loro famiglie in caso di una loro
non adesione al bando.
Oltretutto, erano davvero pochi coloro che
comprendevano realmente l'orrore generato dal
fascismo e questa incertezza mentale fu uno scotto
da pagare che si ripercosse negativamente su tanti
ragazzi che si ritrovarono davvero "allo sbando".
Sergio, anche grazie alla sua neonata conoscenza
politica, risvegliata dalle letture e dall'esempio
dell'amico Ugo, non ebbe molti dubbi; lui a
combattere per i tedeschi non ci sarebbe mai andato,
ma bisognava agire con prudenza per non attirare i
fulmini della vendetta sul capo dei suoi cari. I
primi tempi rimase nascosto in una cantina presso
dei parenti, vivendo in condizioni di puro terrore,
aggravate dalla preoccupazione per la salute della
madre, la quale era bersagliata dal fascista di zona
che si divertiva ad insinuarla la paura per il
destino invitabile che attendeva il suo figlio più
piccolo e cercando di convincerla che sarebbe stato
un bene per lui se si fosse consegnato. Si trattò di
una vera e propria tortura psicologica che incise
profondamente sul fisico di questa donna, ma che
rientrava pienamente negli schemi della "nobile"
guerra condotta dai nazifascisti. Non è
un'esagerazione affermare che le sofferenze vissute
da quella povera creatura impaurita, dilaniata fra
le incertezze per la sorte che attendeva suo figlio,
siano state una delle cause scatenanti il tumore al
fegato che vent'ani dopo l'avrebbe portata alla
tomba.
A questo punto Sergio, grazie ad Ugo, divenuto nel
frattempo Commissario Politico (per i suoi trascorsi
e per i suoi indiscussi meriti di combattente ed
organizzatore), della Brigata "Lanciotto Ballerini",
riuscì ad unirsi alla formazione partigiana della
"Senigallia" che operava sul Monte Giovi e sul
Pratomagno; aveva solo diciannove anni e tutta
l'incoscienza della sua età, oltre a quella dovuta
esclusivamente alla sua natura e che si sarebbe
portato dietro per tutta la vita, trasmettendola in
buona parte anche ai suoi discendenti.
Se la vita la campo era sicuramente dura a causa
delle condizioni disagevoli nelle quali si operava,
e questo senza contare il pericolo sempre presenti
dei reparti nazisti e fascisti operanti in zona,
essa era anche entusiasmante e del tutto nuova.
Oltre che combattere si leggeva, si studiava, veniva
fatta scuola di politica, che altro da parte dei
vecchi combattenti che avevano venti e più anni di
lotta al fascismo alle spalle, a questi giovani che
solo ora si ridestavano da quell'intorpidimento
della coscienza provocata dalla pseudo cultura del
ventennio. Si trattò di una vera e propria lezione
di vita che doveva successivamente agire in modo
catartico sulle menti e sulle coscienze di questi
ragazzi, molti dei quali sarebbero poi diventati la
struttura portante dei nuovi partiti democratici.
Spesso le giornate erano funestate dalle notizie
della stragi perpetrate dai nazi fascisti ai danni
delle popolazioni locali, dalla consapevolezza che
alcuni compagni e purtroppo, si solito si trattava
dei più coraggiosi, erano caduti nelle mani dei loro
nemici ed erano stati passati per le armi, ma questi
orrori erano supportati grazie alla speranza che non
si trattasse di vani sacrifici, ma di un seme
gettato per un futuro migliore.
Certo la rabbia, lo sconforto, che in quei momenti
prendevano Sergio ed i suoi amici erano enormi, il
desiderio di vendetta poteva diventare feroce, ma
erano mementi che non duravano a lungo; anzi
nell'animo di molti di loro non albergava solo un
odio cieco contro un mendico spietato e che andava
combattuto con tutte le loro forze, ma anche un
senso di profonda pietà per questa gente che aveva
ripudiato la propria umanità. Si prendeva coscienza
di un concetto importante per la costruzione di quel
mondo nuovo al quale si auspicava quello che l'odio
genera solo l'odio che non si può giudicare in
blocco un popolo per la furia cieca e distruttiva
che animava una sua parte che aveva condotto a
questi orrori.
In realtà, bisogna aggiungere che la simpatia per i
tedeschi in Sergio non era poi così profonda e, per
amore di verità, bisogna anche dire che per anni,
quando gli capitava di sentire il loro accento
gutturale che riportava istintivamente il ricordo di
tanti momenti difficili, il primo e
comprensibilissimo moto fosse quello di una ripulsa
viscerale.
Altre volte gli episodi che accadevano andavano sul
tragicomico, come nel caso dei militi di Vicchio,
disarmati da un gruppetto di partigiani, fra i quali
primeggiava il sempre calmo ed efficiente Ugo,
armati di pistole che poi risultarono scariche, o
come in quello che vide coinvolti proprio Sergio ed
un suo amico. I due avevano avuto l'incarico di
consegnare delle armi da una postazione partigiana
all'altra, e per far ciò non avevano saputo
escogitare di meglio che nascondere ciò che non
doveva essere assolutamente visto dai nazi, sotto
uno strato di paglia ricoperta di olezzante letame,
trasportando il tutto servendosi di un carretto
tirato a mano. Inoltre, per dare meno nell'occhio,
avevano invitato un loro giovane conoscente,
incontrato casualmente per via e del tutto ignaro
della loro reale attività, ad unirsi a loro per far
credere di essere intenti in una attività del tutto
innocente. I nostri "eroi" stavano appunto
conducendo il loro "profumato" carico, quando una
ruota del carretto si era incastrata nelle rotaie di
un tratto ferroviario ormai in disuso. La sfortuna
volle, che proprio lì vicino, stazionasse un gruppo
di militi repubblichini i quali, vedendo questi
giovani contadini, almeno così sembravano, in
difficoltà, si avvicinarono per capire di cosa si
trattasse. Sergio, con l'incoscienza e la
sfrontatezza propria della sua età, non solo riuscì
a non batter ciglio di fronte alle armi spianate
(anche se sicuramente la strizza che provava in quel
momento doveva essere notevole), ma ebbe anche la
faccia tosta di richiedere il loro aiuto per
liberare la ruota incastrata, aiuto che fu concesso,
dobbiamo riconoscerlo, celermente e con molta
disponibilità da parte dei militi.
I tre ripartirono ed arrivarono senza incidenti alla
loro destinazione ma con grande costernazione del
giovane contadino il quale, quando si accorse del
carico effettivo che aveva aiutato a trasportare e
chi ne erano i destinatari, ebbe coscienza del
pericolo che i due incoscienti gli avevano fatto
correre.
Un'altra volta il pericolo corso dal "nostro" fu
invece più tangibile e il ricordo di quei momenti
terribili si impresse in lui in modo indelebile.
Dopo la liberazione del centro cittadino, mentre le
brigate partigiane costringevano le SS e le truppe
della Wermacht a ripiegare verso la periferia,
Sergio ed un suo cugino, partigiano anch'esso, erano
stai mandati in ricognizione perché il territorio
dove in quel momento operava la sua pattuglia, era
proprio quello dei loro luoghi natali e i due
ragazzi, conoscendo bene la zona si erano offerti di
guidare i loro compagni e , soprattutto di
sgomberare il campo da eventuali pericoli dovuti
alla presenza dei reparti tedeschi. Evidentemente,
però questi erano ben nascosti, tanto che i due se
li ritrovarono addosso in un nanosecondo. Quello che
accadde subito dopo fu praticamente un incubo di
violenza nel quale i due si ritrovarono
improvvisamente catapultati. Colpi sferrati
barbaramente con le mani ed i calci delle pistole (a
Sergio cadde addirittura un dente), ingiurie, sputi
ed altre piacevolezze del genere; Sergio si sentì
anche sbattere ripetutamente la testa nel muro della
casa colonica contro il quale i germanici li avevano
spintonati, con l'intento evidente di inchiodarceli
con qualche raffica ben assestata, secondo il loro
gentile costume.
Fortuna volle che, come nei migliori film western
che piacevano tanto a Sergio, anche qui arrivarono i
"nostri" e proprio al momento giusto; infatti i
partigiani della sua pattuglia accortesi che stava
accadendo qualcosa di poco simpatico, si misero a
sparare contro i tedeschi operando così un
diversivo. Fu questione di un attimo, come erano
soliti ricorda sergio e suo cugino; in una manciata
di secondi essi dovettero decidere cosa fare; se
rimanere lì ad aspettare un soccorso in piena regola
ma con la possibilità concreta di essere trascinati
dentro la casa dai tedeschi ed esservi eliminati o
darsela a gambe, affrontando però il rischio di
beccarsi una sventagliata di mitra, sventagliata che
in effetti non mancò di fischiare intorno alle loro
teste. Per buona sorte la loro gioventù, unita alle
gambe buone e all'ottima conoscenza del terreno
permisero ai nostri baldi giovani di cavarsela sia
pure per il rotto della cuffia e di riparare dietro
le loro linee.
Ovviamente, altri eventi erano accaduti prima di
questo episodio, perché nel periodo tra fine luglio
ed inizio agosto, le forze alleate si stavano
avvicinando a Firenze e le battaglie combattute dai
partigiani per riunirsi a loro, diventavano sempre
più aspre, con difficoltà dovute sia alla carenza di
vitto, del tutto insufficiente per ragazzi giovani e
pieni di energia, sia a quella di equipaggiamento e
di armi.
L'ultima battaglia e forse la più difficile, perché
avvenuta in condizioni tremende e dopo un lungo
percorso per ricongiungersi con le altre brigate di
cui la Senigallia faceva parte, alla loro divisione,
l'ARNO, comandata dal mitico Potente, fu quella che
avvenne a Fontesanta, sopra la frazione dell'Antella.
Lì, davvero la Brigata e soprattutto la sezione di
Sergio, la Faliero Pucci (detta Stella Rossa perché
composta oltre che da fiorentini anche da molti ex
prigionieri russi) comandata da Bastiano e Gigi
(nomi di battaglia ovviamente) aveva fatto miracoli,
riuscendo a ripiegare in ordine ed al prezzo solo di
pochi feriti. A quel punto avevano incontrato i
primi avamposti alleati e l'entusiasmo era diventato
incontenibile; si sentiva Firenze ormai a portati di
mano ed essa sembrava aspettare solo l'arrivo dei
suoi coraggiosi ragazzi; praticamente pareva quasi
che ormai si trattasse solo di una semplice
passeggiata; si buttavano fuori i tedeschi e via…!
Dio solo sa, quanto questa convinzione, frutto di
generoso e giovanile entusiasmo, frammisto ad
incoscienza e di mal riposto coraggio, sarebbe
costata in termine di sangue e di vite umane,
specialmente vite giovani, giovanissime, stroncate
proprio ad un passo della vittoria sui tedeschi.
La Senigallia fu la prima brigata a scendere in
città, passando per il Viale di Colli e di lì
arrivando in oltrarno insieme ai primi mezzi
corazzati anglo americani. Ma questi si sarebbero
rivelati ben presto inutili per snidare i tedeschi
ed i franchi tiratori fascisti dalle antiche e
tortuose viuzze fiorentine; per quest'azione di
repulisti furono necessari propri i gruppi
partigiani che mettendo a repentaglio la loro pelle
riuscirono a sgomberare le strade del centro,
preparandole per gli alleati, riluttanti a sprecare
uomini per una città, sia pure importante come
Firenze, ma che risultava ancora saldamente in mano
ai tedeschi.
Sergio, queste giornate di un agosto terribile e
caldissimo se le visse tutte; partecipò alla caccia
agli ignobili franchi tiratori che sparavano sulla
popolazione inerme, visse lo strazio della morte di
Potente, il suo eccezionale comandante, caduto
proprio alla vigilia della liberazione; attraversò
l'Arno in secca, grazie alla Pescaia di Santa Rosa e
sentì il suono della martinella che l'11 Agosto
chiamava tutti i fiorentini che potevano combattere,
alle armi per liberare il centro della città.
Con i suoi compagni laceri, affamati, incazzati per
la morte ingiusta di troppi di loro, avanzò strada
per strada verso i punti nevralgici dei
combattimenti; il Casone dei Ferrovieri, la
Manifattura tabacchi, dove i tedeschi con i loro
carri armati misero in atto una strenua opposizione
all'avanzare delle truppe alleate e partigiane, il
Ponte Rosso, semidistrutto dal cannoneggiamento
nemico, e tanti altri luoghi che furono conquistati
palmo a palmo da questi ragazzi male armati con i
vestiti a brandelli e lo stomaco spesso a terra
dalla fame. Vide cose che seguito, solo in seguito
riuscì a raccontare, episodi di orrore dove la
realtà escogitata dalla perfidia umana superava ogni
fantasia perversa, eppure sopravvisse, riemergendo
con difficoltà da un abisso di tenebre nel quale era
stato spinto, lui ed suoi coetanei, dalla ferocia di
un pugno di esseri indegni del nome di uomini,
grazie all'elasticità ed alla meravigliosa capacità
di ripresa dell'estrema giovinezza.
La guerra finì, la sua vita continuò, com'era giusto
che fosse, anche se le ferite di quei giorni non si
sarebbero mai cancellate completamente dalla sua
anima, ferite che avrebbero sanguinato nuovamente in
occasione di ogni anniversario, di ogni episodio che
portasse alla mente ciò che era stato. Eppure,
paradossalmente, furono proprio quelle ferite a
plasmare la sua personalità, il suo modo di vivere e
di intendere la vita.
Fu sicuramente il ricordo di quella bimba con la
gamba dilaniata da una bomba, che egli aveva tratto
in salvo al Ponte Rosso, così come quello della
creatura di un anno uccisa a colpi di baionetta
insieme alla giovanissima mamma, che lui ed i suoi
compagni avevano scoperto in un casolare di
contadini sul Pratomagno, a inspirargli quell'orrore
per ogni torto inflitto ad un bambino, orrore che in
lui diventata quasi un'ossessione.
Anche successivamente gli bastava di venire a
conoscenza dai giornali o dalla televisione di
episodi di violenza inflitta ad un qualsiasi
bambino, per esplodere in espressioni di rabbia nei
confronti dei "mostri" che facevano quasi paura.
Fu il pensiero dei compagni caduti, ad instillare
nella figlia e nei giovani che venivano a contato
con lui, il culto per questi momenti della nostra
storia che non dovevano cadere nell'oblio ed
ispirargli una scelta di vita, non solo politica, ma
soprattutto morale, improntata a quegli ideali per i
quali aveva sofferto e lottato.
Ecco, termina qui la storia di un ragazzo nato nel
1925 che aveva vissuto i sui vent'anni sotto il
pericolo continuo e concreto della morte per mano di
un fucile o di una granata nazista.
E' una storia semplice, senza eroismi, perché come
lui era solito dire, non c'erano stati eroismi
nell'essere partigiani, si faceva solo il proprio
dovere e basta, poi ci se ne dimenticava.
Questo modo di pensare è diventato per lui una
seconda natura che l'ha portato a fare le scelte
politiche, morali e di vita che ha poi seguito
sempre.
Quel ragazzo era mio padre.
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