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Narrativa

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi in prosa inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
Dinosauro universitario di Giuseppe Costantino Budetta, Una rivelazione di cuore di Francesco Panizzo, La fine di Federico Barbarossa di Paolo Ragni, Nell'attesa di Gengis Khan di Paolo Ragni, Piedi di Antonella Pedicelli, Amore interrotto di Daniela Tuscano

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Lucia Dragotescu, Alessandra Ferrari, Emanuela Ferrari, Iuri Lombardi, Cesare Lorefice, Roberto Mosi, Natalia Radice, Anna Maria Volpini

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Antonio Carollo, Lucia Dragotescu, Manuela Leahu, Paolo Filippi

Recensioni

In questo numero:
- "Intelligence: nuove minacce e terrorismo" di Antonella Colonna Vilasi
- "Felici come mosche in un Paese di stitici" di Igor Righetti
- "L'azzurro non è una parola" di Tiziana Soressi
- "Prugni" di Barbara Pumhösel
- "Florentia" di Roberto Mosi
- "Ofelia e la luna di paglia" di Antonio Messina
- "Oblivion" di Luigi Fontanella, Recensione Roberto Mosi
- "Arcobaleno" di Banana Yoshimoto, recensione di Simonetta De Bartolo
- "L'uomo che andava a teatro - storia fantastica di uno spettatore" di Roberto Scarpa, recensione di Ilaria Mainardi
- "Sul filo di lama" di Marcellino Lombardi
- "Ancora il vento piange Mary" di Danilo Arona, recensione di Eduardo Vitolo
- "Per Elisa" di Mangani Azzurra, recensione di Eduardo Vitolo
- "La croce sulle Labbra" e "Santanta", di Danilo Arona e Edoardo Rosati, recensione di Eduardo Vitolo

Interviste

Massimo Mongai
intervista a cura di Massimo Acciai e Marco Martino
Manuela Verbasi
intervista a cura di Massimo Acciai
Luciano Comida: piacere, Michele Crismani! Intervista al noto autore triestino di storie per ragazzi
intervista a cura di Eduardo Vitolo

Incontri nel giardino autunnale

Intervista a Paolo Cossi
A cura di Matteo Nicodemo

Articolo

L'Asia della contestazione
di Maria Cristina Famiglietti

Nell'attesa di Gengis Khan
 

di Paolo Ragni


Di Gengis Khan, in occidente, tutti parlavano. Markus e Sargis, due ragazzi di poco più di dodici anni, avevano udito raccontare di lui le cose più strane: che mangiasse i serpenti vivi, che avesse tre vite e che ancora avesse da morire della prima morte, che avesse le ali dietro la schiena come Lucifero, e infine, più semplicemente, che fosse un imperatore crudele di un popolo barbaro assetato di sangue.
Markus e Sargis vivevano nelle terre abitate da turchi e persiani dove signor assoluto era Mohammad, sultano del regno di Corasmia: quest'ultimo si estendeva dall'Eufrate all'Indio, dal Caspio al mare arabico: Tabriz e Isfahan, Samarcanda e Kabul, Qandahar e Peshavar erano solo alcune delle più famose metropoli di un regno che dalla via che portava la seta dall'oriente traeva grandi ricchezze.
La città dei due ragazzi si chiamava Balkh: era un grosso centro vicino alla principale via della seta, che transitava poco più a nord per Merv, Bukhara e Samarcanda (2); vi passava una variante della stessa via che si ricongiungeva alla precedente a Kashgar, a oriente. Balkh era comunque frequentata da lunghe carovane che provenivano da levante. Qualche volta, erano le stesse carovane al ritorno dai mercati occidentali a portare le merci di Alessandria, di Costantinopoli, di Venezia, città lontane settimane e mesi di viaggio.
Gli abitanti di Balkh si vantavano di discendere dai soldati che Alessandro Magno aveva lasciato a difesa delle estreme terre nordorientali del suo sterminato impero: laboriosi e vivaci, come capita nelle grandi città dove fluisce un intenso traffico, mal sopportavano il duro governo del sultano. Erano infatti in buona parte cristiani e buddisti. Il sultano Mohammad esercitava, sopra coloro che riteneva infedeli perché non seguaci della legge proclamata da Maometto, una tremenda oppressione.
Tutto il popolo non musulmano soffriva con impazienza il giogo di Mohammad e attendeva ansioso il momento della desiderata liberazione. Chi era più insofferente raccontava delle meravigliose gesta che, non molte miglia a oriente, stava compiendo un certo Gengis Khan col suo barbaro popolo, i mongoli. Markus e Sargis, ragazzi com'erano, prestarono molto credito a queste voci incontrollate.
"E' vero che Gengis Khan verrà a liberarci da questo giogo odioso?" domandò Markus all'amico.
Sargis non rispose niente e si limitò ad alzare le spalle.
Markus era un ragazzo vivace e curioso, che di tutto si interessava: Sargis, grande e grosso, era di poche parole, spesso brontolava e parlava a modo suo, facendo le smorfie, e addirittura in terza persona.
"Verrà Gengis Khan? Abbatterà i musulmani e Mohammad?" insisteva Markus.
"In questo mondo" rispose Sargis "non ci sarà posto per tutti e due: o l'esercito dell'islam sottometterà le orde di Gengis Khan o le orde di Gengis Khan sottometteranno l'islam".
"E secondo te come andrà a finire?"
"Verrà Gengis Khan. Verrà. Zuf! Zaf! Ecco. Ho detto".
Era questa la sua maniera di esprimersi, e Markus ci aveva fatto l'abitudine.
"Ci farà del male'" insisté Markus.
"E' l'uomo di Dio".
Eppure, la fama che accompagnava Gengis era tutt'altro che rassicurante: a capo delle sue orde sterminate di cavalieri che conducevano con sé decine di migliaia di schiavi artigiani, portava in ogni dove distruzione e rovina. Si narrava difatti di lui che controllasse ormai tutta la via della seta per l'oriente e che la lontanissima città di Pechino fosse già da qualche anno in sua mano. Dal nulla aveva messo su uno sconfinato impero versando il sangue di centinaia di migliaia di uomini. Gengis Khan era come la tempesta che si abbatte su un campo di grano.
"E' vero che tra poco arriveranno gli ambasciatori di Gengis Khan?" chiese Markus.
Sargis non sapeva nulla.
"Verranno a chiedere alleanza?" insisté il ragazzo.
Correva infatti voce che Gengis Khan, prima di attaccare guerra contro qualche popolo, si sincerasse in ogni caso delle reali intenzioni di quest'ultimo. Più volte piccoli regni, timorosi dell'incalzante avanzata dell'imperatore dei mongoli, avevano accettato di buon grado di diventare suoi tributari, pur di scongiurare l'inevitabile guerra e l'altrettanto quasi inevitabile sconfitta. Le conseguenze di questa erano certissime: il massacro. Gengis infatti godeva fama di essere leale e generoso con gli amici, ma spietato verso coloro che non accettavano la sua amicizia e la sua protezione, cioè di diventare vassalli.
"Come è possibile?" proseguiva Markus, più per conto suo che rivolto all'amico "che un popolo di nomadi e pastori governi da oriente a occidente? com'è possibile che ardisca chiedere sottomissione a un sultano che governa mille e mille città murate? mi pare molto inverosimile!"
I due giovani erano cristiani nestoriani; avevano il loro patriarca a Baghdad, adoravano la croce e le icone e avevano sentito parlare di un vescovo molto importante che stava a Roma. Lavoravano come falegnami da un vedovo cristiano padre di cinque figli.
All'indomani di questo colloquio, arrivò a Balkh, preannunciato da drappelli di soldati, l'ambasciatore di Gengis Khan. Il suo nome era Bughra. Giunse alla porta orientale di Balkh accompagnato da un seguito di una decina di alti dignitari e da una carovana di una ventina di cammelli a due gobbe: erano carichi di sacchi e balle che Gengis inviava in dono al sultano confinante; evidentemente era una cortesia che riteneva opportuna per il sultano, mentre sembrava che l'avesse sempre tralasciata allorché intimava la sua pesante amicizia. Dopo gli omaggi, veniva una carovana di mercanti musulmano diretti a Baghdad.
Mohammad si trovava giusto a Balkh, in viaggio da Kabul a Samarcanda, e stava aspettando nel suo palazzo l'arrivo di Bughra. Questi traversò la città non come un ambasciatore ma già quale rappresentante del futuro padrone di Balkh: massiccio e tarchiato, con gli occhi a mandorla, un ciuffo di capelli sulla fronte, i baffi lunghi e la barba a punta, procedeva impettito, dava ordini con il solo gesto della mano.
Naturalmente, i colloqui tra l'inviato di Gengis Khan e il sultano rimasero assolutamente segreti. Trascorse un giorno, e ne trascorse un altro: la cosa era strana e preoccupante. Ancor più degno di rilievo il fatto che la carovana dei mercanti proseguisse verso il califfato di Baghdad senza il dignitario.
Dopo alcuni giorni fu chiaro che Bughra era scomparso, evidentemente sequestrato da Mohammad: per certo, il sultano di Corasmia si rifiutava di accondiscendere alla richiesta di Gengis. Trascorsa che fu un'altra settimana, arrivò una coppia di ambasciatori mongoli, baffuti e con la testa rasata in modo bizzarro: anche questa missione fallì perché i due uomini furono fatti attendere per tre giorni in una stalla annessa al palazzo imperiale e poi rimandati indietro a mani vuote: si trattava di un gravissimo sgarbo verso Gengis Khan.
Il padrone dove Markus e Sargis lavoravano chiamò i due giovani:
"Ragazzi" li apostrofò "ci stanno aspettando momenti molto difficili. Gengis Khan non perdonerà mai la tracotanza di Mohammad. Questo infedele ha fatto tendere da un suo governatore un'imboscata contro la carovana diretta a Baghdad: l'ha fatta rapinare e ha fatto uccidere tutti i mercanti. Bughra è stato arrestato come spia e domani verrà condannato a morte".
"Bene" commentò Sargis.
"Sei ammattito?!" proruppe il falegname "Cosa ti aspetti da quel mongolo? Le orde di Gengis Khan non ci porteranno la pace che poi ci aspettiamo, na la sua pace! Forse sarà più tollerante verso noi cristiani, a a quale prezzo! Dove arriveranno le sue truppe, non resterà nemmeno un filo d'erba".
"Ci proteggerà" ripeteva Sargis.
"Ma non è vero! Gengis Khan prima di fare le guerre a oriente coi cinesi, ne ha fatte tante altre con le tribù cristiane turche, uigure, mongole, keraite, naimane ... e, pur di essere lui il sovrano assoluto, ha sterminato chiunque gli si opponesse, cristiano o meno che fosse!"
"Non ci credo".
"Sargis! non ti aspettare la pace e la tolleranza ... dopo! adesso ci sarà solo una guerra spietata! Se vuoi la pace, aspetta la pace!"
"Bene. Spazzeranno via questi musulmani tiranni. Tanto ... peggio di così non potrà andare".
In effetti, il torto e la prepotenza compiuti dal sultano erano veramente contro il più sacro dei doveri, quello dell'ospitalità.
L'indomani, come il timoroso buon falegname aveva preannunciato, fu proclamato dai banditori che Bughra sarebbe stato giustiziato mediante decapitazione. La folla faceva calca attorno alla piazza dove era stato condotto l'infelice ambasciatore: perfino dalle campagne venivano ad assistere all'esecuzione capitale, alcuni si erano addirittura portati nacchere e strumenti a fiato. Agli angoli della piazza erano stati allestiti due baracchini: vendevano birra e focacce d'orzo.
"Hanno poco da far festa" brontolò stizzito Sargis "Adesso preparano l'arrivo del flagello di Dio".
"Mi sembri quasi contento" lo rimproverò l'amico "che questo innocente venga ucciso. Non è cristiano il tuo sentimento".
"Non tutto il male viene per nuocere" sentenziò "Dio può tirar fuori l'acqua anche dai sassi".
Invece della guerra, arrivarono altri due ambasciatori di Gengis Khan, non accompagnati da alcuni e privi di doni: si presentarono anch'essi alla porta orientale e chiesero subito di Mohammad. Furono scortati, allo scopo di far loro sembrare la città più grande per vie traverse, intorno ai mercati e tra gli ostelli dei mercanti. I due uomini, dall'espressione seria e quasi accigliata, non dicevano niente e si guardavano attorno senza lasciar trapelare alcun sentimento.
Infine furono condotti al palazzo di Mohammad e smontarono dalla propria cavalcatura. Mentre già credevano di entrare nelle sale di rappresentanza, furono assaliti in pubblico ed immobilizzati, con le mani dietro la schiena. Alcuni energumeni, muniti di lame taglienti, si avvicinarono ai due malcapitati che già temevano di essere ammazzati all'istante. Fu invece loro salvata la vita, ma ad un prezzo altissimo per dei mongoli: furono interamente rasati e, cosa gravissima, sbarbati. Era il massimo affronto che Gengis Khan potesse subire. I due sventurati furono spogliati, rivestiti di stracci e costretti a montare sopra due asinelli macilenti.
I due giovani cristiani avevano assistito alla scena. Videro i messi esposti all'ilarità generale e poi condotti a giro per la città che avevano percorso in lungo e il largo solo pochi minuti prima quali austeri ambasciatori del gran mongolo.
"Sembrano Gesù Cristo che sale al Golgota" commentò Markus a vedere gli inviati bersaglio di frutta marcia tirata dai più esagitati dei musulmani.
La sera, Sargis chiamò l'amico.
"Io vado via di qui" disse.
"Perché?"
"Ora lo dico al falegname"
Si recarono dal padrone,
"Io vado via. Mi accompagno ai due ambasciatori. Vado da Gengis Khan".
"Ma sei ammattito, figlio mio?!" lo interrogò il buon uomo "Vuoi morire ammazzato?"
"No. Morirà ammazzato chi resterà qua. Arriverà l'inverno".
"E tu, Markus, anche tu vuoi andare nella bocca del leone?"
Markus era sconcertato. La certezza della guerra prossima, la presente dura repressione, la fiducia in Gengis, che vedeva quale giustiziere di Dio, gli fecero rispondere:
"Anch'io ci vado".
"Figlioli! E cosa dirò ai vostri genitori? ai vostri parenti a Merv e a Samarcanda?"
"Dirai loro" rispose Sargis "che sei venuto a svegliarci, e già non c'eravamo più".
La notte, i sogni dei ragazzi erano traboccanti di neri cavallini combattivi, di tende grigie montate sui carri, di strani sacerdoti che parlavano con gli spiriti, di terribili serpenti che l'imperatore di tutti i mongoli mangiava uno dopo l'altro.
"Ogni serpente" sibilava il gran khan seduto a gambe larghe su un trono variopinto "è un regno confinante. I sovrani amici sono i serpenti che ingoio così come sono, dalla testa alla coda; quelli nemici, invece, li mastico con i miei denti aguzzi! Guardate che denti che ho!"
Gengis Khan ghignava sinistro e mostrava due terribili zanne da lupo.
"Ahah...!" ridacchiava strofinandosi le mani "Del serpente della Corasmia farò brandelli! Ai suoi figli che umilmente strisceranno a me darò di che nutrirsi, ma al serpente padre non lascerò nemmeno la tana! Ahah...!"
Nel mezzo della notte, i due ragazzi si destarono, si alzarono e, preparati i loro fagotti, partirono per le Mongolie.
Faceva freddo, il vento sibilava nel bosco, gli animali notturno si chiamavano da una parte all'altra della foresta, fruscii sconosciuti sussurravano misteriosamente.
"Sargis. Arriveremo alla tenda di Gengis Khan?"
"Certamente".
"Non hai paura?"
Sargis marciava battendo forte i piedi, forse per scacciare i serpenti, forse per allontanare gli spiriti maligni della notte.
"Hai mai visto Sargis impaurito?"
"Mai..."
"Appunto".
Una ventata più forte portò come un sospiro, lontanissimo, quasi una voce che si lamentava; nessuno dei due ragazzi disse niente. Così marciarono per due ore buone, sussultando però in cuor loro per ogni rumore che udivano, sbirciando a destra ed a manca per scoprire oscuri pericoli in agguato. Poi a Sargis venne fame, si sedettero su un grosso ceppo tagliato.
"Ho fame" disse "Occorre fare un riposo".
Il sole stava per sorgere, dietro una piccola radura si scorgeva la sua luce bianca; le stelle, lentamente, tornavano a nascondersi nel cielo chiaro.
"Io credo" disse Markus "che abbiamo fatto bene a partire".
"Non credo una sola parola di quel che dici" replicò Sargis.
"Perché?"
"Dici così per convincertene tu stesso. E' vero?"
"Sì..."
"Bene. Adesso mangiamo":
Mangiarono il pane salato con particolare lentezza, masticando laboriosamente ogni boccone, ognuno era immerso nei propri pensieri. Infine, Markus si alzò e si stirò tutto, come se si fosse appena levato da letto.
"Oooh!" esclamò "E' proprio il momento giusto per ripartire!"
Era l'alba, e il cielo azzurrissimo prometteva chissà quali meravigliose avventure.

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