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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi in prosa inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Dinosauro universitario di Giuseppe
Costantino Budetta,
Una rivelazione di cuore di Francesco
Panizzo, La fine di
Federico Barbarossa
di Paolo Ragni,
Nell'attesa di Gengis Khan
di Paolo Ragni, Piedi
di Antonella Pedicelli,
Amore interrotto
di Daniela Tuscano
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, in lingua diversa
dall'italiano, purché rispettino i più
elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai,
Antonio Carollo,
Lucia Dragotescu,
Manuela Leahu,
Paolo Filippi
Recensioni
In questo numero:
- "Intelligence: nuove minacce e terrorismo"
di Antonella Colonna Vilasi
- "Felici come mosche in un Paese di stitici"
di Igor Righetti
- "L'azzurro non è una parola" di Tiziana
Soressi
- "Prugni" di Barbara Pumhösel
- "Florentia" di Roberto Mosi
- "Ofelia e la luna di paglia" di Antonio
Messina
- "Oblivion" di Luigi Fontanella, Recensione
Roberto Mosi
- "Arcobaleno" di Banana Yoshimoto, recensione
di Simonetta De Bartolo
- "L'uomo che andava a teatro - storia
fantastica di uno spettatore" di Roberto
Scarpa, recensione di Ilaria Mainardi
- "Sul filo di lama" di Marcellino Lombardi
- "Ancora il vento piange Mary" di Danilo
Arona, recensione di Eduardo Vitolo
- "Per Elisa" di Mangani Azzurra, recensione
di Eduardo Vitolo
- "La croce sulle Labbra" e "Santanta", di
Danilo Arona e Edoardo Rosati, recensione di
Eduardo Vitolo
Interviste
Incontri nel giardino
autunnale
Articolo
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Nell'attesa di Gengis Khan
Di Gengis Khan, in occidente,
tutti parlavano. Markus e Sargis, due ragazzi di
poco più di dodici anni, avevano udito raccontare di
lui le cose più strane: che mangiasse i serpenti
vivi, che avesse tre vite e che ancora avesse da
morire della prima morte, che avesse le ali dietro
la schiena come Lucifero, e infine, più
semplicemente, che fosse un imperatore crudele di un
popolo barbaro assetato di sangue.
Markus e Sargis vivevano nelle terre abitate da
turchi e persiani dove signor assoluto era Mohammad,
sultano del regno di Corasmia: quest'ultimo si
estendeva dall'Eufrate all'Indio, dal Caspio al mare
arabico: Tabriz e Isfahan, Samarcanda e Kabul,
Qandahar e Peshavar erano solo alcune delle più
famose metropoli di un regno che dalla via che
portava la seta dall'oriente traeva grandi
ricchezze.
La città dei due ragazzi si chiamava Balkh: era un
grosso centro vicino alla principale via della seta,
che transitava poco più a nord per Merv, Bukhara e
Samarcanda (2); vi passava una variante della stessa
via che si ricongiungeva alla precedente a Kashgar,
a oriente. Balkh era comunque frequentata da lunghe
carovane che provenivano da levante. Qualche volta,
erano le stesse carovane al ritorno dai mercati
occidentali a portare le merci di Alessandria, di
Costantinopoli, di Venezia, città lontane settimane
e mesi di viaggio.
Gli abitanti di Balkh si vantavano di discendere dai
soldati che Alessandro Magno aveva lasciato a difesa
delle estreme terre nordorientali del suo sterminato
impero: laboriosi e vivaci, come capita nelle grandi
città dove fluisce un intenso traffico, mal
sopportavano il duro governo del sultano. Erano
infatti in buona parte cristiani e buddisti. Il
sultano Mohammad esercitava, sopra coloro che
riteneva infedeli perché non seguaci della legge
proclamata da Maometto, una tremenda oppressione.
Tutto il popolo non musulmano soffriva con
impazienza il giogo di Mohammad e attendeva ansioso
il momento della desiderata liberazione. Chi era più
insofferente raccontava delle meravigliose gesta
che, non molte miglia a oriente, stava compiendo un
certo Gengis Khan col suo barbaro popolo, i mongoli.
Markus e Sargis, ragazzi com'erano, prestarono molto
credito a queste voci incontrollate.
"E' vero che Gengis Khan verrà a liberarci da questo
giogo odioso?" domandò Markus all'amico.
Sargis non rispose niente e si limitò ad alzare le
spalle.
Markus era un ragazzo vivace e curioso, che di tutto
si interessava: Sargis, grande e grosso, era di
poche parole, spesso brontolava e parlava a modo
suo, facendo le smorfie, e addirittura in terza
persona.
"Verrà Gengis Khan? Abbatterà i musulmani e Mohammad?"
insisteva Markus.
"In questo mondo" rispose Sargis "non ci sarà posto
per tutti e due: o l'esercito dell'islam
sottometterà le orde di Gengis Khan o le orde di
Gengis Khan sottometteranno l'islam".
"E secondo te come andrà a finire?"
"Verrà Gengis Khan. Verrà. Zuf! Zaf! Ecco. Ho
detto".
Era questa la sua maniera di esprimersi, e Markus ci
aveva fatto l'abitudine.
"Ci farà del male'" insisté Markus.
"E' l'uomo di Dio".
Eppure, la fama che accompagnava Gengis era tutt'altro
che rassicurante: a capo delle sue orde sterminate
di cavalieri che conducevano con sé decine di
migliaia di schiavi artigiani, portava in ogni dove
distruzione e rovina. Si narrava difatti di lui che
controllasse ormai tutta la via della seta per
l'oriente e che la lontanissima città di Pechino
fosse già da qualche anno in sua mano. Dal nulla
aveva messo su uno sconfinato impero versando il
sangue di centinaia di migliaia di uomini. Gengis
Khan era come la tempesta che si abbatte su un campo
di grano.
"E' vero che tra poco arriveranno gli ambasciatori
di Gengis Khan?" chiese Markus.
Sargis non sapeva nulla.
"Verranno a chiedere alleanza?" insisté il ragazzo.
Correva infatti voce che Gengis Khan, prima di
attaccare guerra contro qualche popolo, si
sincerasse in ogni caso delle reali intenzioni di
quest'ultimo. Più volte piccoli regni, timorosi
dell'incalzante avanzata dell'imperatore dei
mongoli, avevano accettato di buon grado di
diventare suoi tributari, pur di scongiurare
l'inevitabile guerra e l'altrettanto quasi
inevitabile sconfitta. Le conseguenze di questa
erano certissime: il massacro. Gengis infatti godeva
fama di essere leale e generoso con gli amici, ma
spietato verso coloro che non accettavano la sua
amicizia e la sua protezione, cioè di diventare
vassalli.
"Come è possibile?" proseguiva Markus, più per conto
suo che rivolto all'amico "che un popolo di nomadi e
pastori governi da oriente a occidente? com'è
possibile che ardisca chiedere sottomissione a un
sultano che governa mille e mille città murate? mi
pare molto inverosimile!"
I due giovani erano cristiani nestoriani; avevano il
loro patriarca a Baghdad, adoravano la croce e le
icone e avevano sentito parlare di un vescovo molto
importante che stava a Roma. Lavoravano come
falegnami da un vedovo cristiano padre di cinque
figli.
All'indomani di questo colloquio, arrivò a Balkh,
preannunciato da drappelli di soldati,
l'ambasciatore di Gengis Khan. Il suo nome era
Bughra. Giunse alla porta orientale di Balkh
accompagnato da un seguito di una decina di alti
dignitari e da una carovana di una ventina di
cammelli a due gobbe: erano carichi di sacchi e
balle che Gengis inviava in dono al sultano
confinante; evidentemente era una cortesia che
riteneva opportuna per il sultano, mentre sembrava
che l'avesse sempre tralasciata allorché intimava la
sua pesante amicizia. Dopo gli omaggi, veniva una
carovana di mercanti musulmano diretti a Baghdad.
Mohammad si trovava giusto a Balkh, in viaggio da
Kabul a Samarcanda, e stava aspettando nel suo
palazzo l'arrivo di Bughra. Questi traversò la città
non come un ambasciatore ma già quale rappresentante
del futuro padrone di Balkh: massiccio e tarchiato,
con gli occhi a mandorla, un ciuffo di capelli sulla
fronte, i baffi lunghi e la barba a punta, procedeva
impettito, dava ordini con il solo gesto della mano.
Naturalmente, i colloqui tra l'inviato di Gengis
Khan e il sultano rimasero assolutamente segreti.
Trascorse un giorno, e ne trascorse un altro: la
cosa era strana e preoccupante. Ancor più degno di
rilievo il fatto che la carovana dei mercanti
proseguisse verso il califfato di Baghdad senza il
dignitario.
Dopo alcuni giorni fu chiaro che Bughra era
scomparso, evidentemente sequestrato da Mohammad:
per certo, il sultano di Corasmia si rifiutava di
accondiscendere alla richiesta di Gengis. Trascorsa
che fu un'altra settimana, arrivò una coppia di
ambasciatori mongoli, baffuti e con la testa rasata
in modo bizzarro: anche questa missione fallì perché
i due uomini furono fatti attendere per tre giorni
in una stalla annessa al palazzo imperiale e poi
rimandati indietro a mani vuote: si trattava di un
gravissimo sgarbo verso Gengis Khan.
Il padrone dove Markus e Sargis lavoravano chiamò i
due giovani:
"Ragazzi" li apostrofò "ci stanno aspettando momenti
molto difficili. Gengis Khan non perdonerà mai la
tracotanza di Mohammad. Questo infedele ha fatto
tendere da un suo governatore un'imboscata contro la
carovana diretta a Baghdad: l'ha fatta rapinare e ha
fatto uccidere tutti i mercanti. Bughra è stato
arrestato come spia e domani verrà condannato a
morte".
"Bene" commentò Sargis.
"Sei ammattito?!" proruppe il falegname "Cosa ti
aspetti da quel mongolo? Le orde di Gengis Khan non
ci porteranno la pace che poi ci aspettiamo, na la
sua pace! Forse sarà più tollerante verso noi
cristiani, a a quale prezzo! Dove arriveranno le sue
truppe, non resterà nemmeno un filo d'erba".
"Ci proteggerà" ripeteva Sargis.
"Ma non è vero! Gengis Khan prima di fare le guerre
a oriente coi cinesi, ne ha fatte tante altre con le
tribù cristiane turche, uigure, mongole, keraite,
naimane ... e, pur di essere lui il sovrano
assoluto, ha sterminato chiunque gli si opponesse,
cristiano o meno che fosse!"
"Non ci credo".
"Sargis! non ti aspettare la pace e la tolleranza
... dopo! adesso ci sarà solo una guerra spietata!
Se vuoi la pace, aspetta la pace!"
"Bene. Spazzeranno via questi musulmani tiranni.
Tanto ... peggio di così non potrà andare".
In effetti, il torto e la prepotenza compiuti dal
sultano erano veramente contro il più sacro dei
doveri, quello dell'ospitalità.
L'indomani, come il timoroso buon falegname aveva
preannunciato, fu proclamato dai banditori che
Bughra sarebbe stato giustiziato mediante
decapitazione. La folla faceva calca attorno alla
piazza dove era stato condotto l'infelice
ambasciatore: perfino dalle campagne venivano ad
assistere all'esecuzione capitale, alcuni si erano
addirittura portati nacchere e strumenti a fiato.
Agli angoli della piazza erano stati allestiti due
baracchini: vendevano birra e focacce d'orzo.
"Hanno poco da far festa" brontolò stizzito Sargis
"Adesso preparano l'arrivo del flagello di Dio".
"Mi sembri quasi contento" lo rimproverò l'amico
"che questo innocente venga ucciso. Non è cristiano
il tuo sentimento".
"Non tutto il male viene per nuocere" sentenziò "Dio
può tirar fuori l'acqua anche dai sassi".
Invece della guerra, arrivarono altri due
ambasciatori di Gengis Khan, non accompagnati da
alcuni e privi di doni: si presentarono anch'essi
alla porta orientale e chiesero subito di Mohammad.
Furono scortati, allo scopo di far loro sembrare la
città più grande per vie traverse, intorno ai
mercati e tra gli ostelli dei mercanti. I due
uomini, dall'espressione seria e quasi accigliata,
non dicevano niente e si guardavano attorno senza
lasciar trapelare alcun sentimento.
Infine furono condotti al palazzo di Mohammad e
smontarono dalla propria cavalcatura. Mentre già
credevano di entrare nelle sale di rappresentanza,
furono assaliti in pubblico ed immobilizzati, con le
mani dietro la schiena. Alcuni energumeni, muniti di
lame taglienti, si avvicinarono ai due malcapitati
che già temevano di essere ammazzati all'istante. Fu
invece loro salvata la vita, ma ad un prezzo
altissimo per dei mongoli: furono interamente rasati
e, cosa gravissima, sbarbati. Era il massimo
affronto che Gengis Khan potesse subire. I due
sventurati furono spogliati, rivestiti di stracci e
costretti a montare sopra due asinelli macilenti.
I due giovani cristiani avevano assistito alla
scena. Videro i messi esposti all'ilarità generale e
poi condotti a giro per la città che avevano
percorso in lungo e il largo solo pochi minuti prima
quali austeri ambasciatori del gran mongolo.
"Sembrano Gesù Cristo che sale al Golgota" commentò
Markus a vedere gli inviati bersaglio di frutta
marcia tirata dai più esagitati dei musulmani.
La sera, Sargis chiamò l'amico.
"Io vado via di qui" disse.
"Perché?"
"Ora lo dico al falegname"
Si recarono dal padrone,
"Io vado via. Mi accompagno ai due ambasciatori.
Vado da Gengis Khan".
"Ma sei ammattito, figlio mio?!" lo interrogò il
buon uomo "Vuoi morire ammazzato?"
"No. Morirà ammazzato chi resterà qua. Arriverà
l'inverno".
"E tu, Markus, anche tu vuoi andare nella bocca del
leone?"
Markus era sconcertato. La certezza della guerra
prossima, la presente dura repressione, la fiducia
in Gengis, che vedeva quale giustiziere di Dio, gli
fecero rispondere:
"Anch'io ci vado".
"Figlioli! E cosa dirò ai vostri genitori? ai vostri
parenti a Merv e a Samarcanda?"
"Dirai loro" rispose Sargis "che sei venuto a
svegliarci, e già non c'eravamo più".
La notte, i sogni dei ragazzi erano traboccanti di
neri cavallini combattivi, di tende grigie montate
sui carri, di strani sacerdoti che parlavano con gli
spiriti, di terribili serpenti che l'imperatore di
tutti i mongoli mangiava uno dopo l'altro.
"Ogni serpente" sibilava il gran khan seduto a gambe
larghe su un trono variopinto "è un regno
confinante. I sovrani amici sono i serpenti che
ingoio così come sono, dalla testa alla coda; quelli
nemici, invece, li mastico con i miei denti aguzzi!
Guardate che denti che ho!"
Gengis Khan ghignava sinistro e mostrava due
terribili zanne da lupo.
"Ahah...!" ridacchiava strofinandosi le mani "Del
serpente della Corasmia farò brandelli! Ai suoi
figli che umilmente strisceranno a me darò di che
nutrirsi, ma al serpente padre non lascerò nemmeno
la tana! Ahah...!"
Nel mezzo della notte, i due ragazzi si destarono,
si alzarono e, preparati i loro fagotti, partirono
per le Mongolie.
Faceva freddo, il vento sibilava nel bosco, gli
animali notturno si chiamavano da una parte
all'altra della foresta, fruscii sconosciuti
sussurravano misteriosamente.
"Sargis. Arriveremo alla tenda di Gengis Khan?"
"Certamente".
"Non hai paura?"
Sargis marciava battendo forte i piedi, forse per
scacciare i serpenti, forse per allontanare gli
spiriti maligni della notte.
"Hai mai visto Sargis impaurito?"
"Mai..."
"Appunto".
Una ventata più forte portò come un sospiro,
lontanissimo, quasi una voce che si lamentava;
nessuno dei due ragazzi disse niente. Così
marciarono per due ore buone, sussultando però in
cuor loro per ogni rumore che udivano, sbirciando a
destra ed a manca per scoprire oscuri pericoli in
agguato. Poi a Sargis venne fame, si sedettero su un
grosso ceppo tagliato.
"Ho fame" disse "Occorre fare un riposo".
Il sole stava per sorgere, dietro una piccola radura
si scorgeva la sua luce bianca; le stelle,
lentamente, tornavano a nascondersi nel cielo
chiaro.
"Io credo" disse Markus "che abbiamo fatto bene a
partire".
"Non credo una sola parola di quel che dici" replicò
Sargis.
"Perché?"
"Dici così per convincertene tu stesso. E' vero?"
"Sì..."
"Bene. Adesso mangiamo":
Mangiarono il pane salato con particolare lentezza,
masticando laboriosamente ogni boccone, ognuno era
immerso nei propri pensieri. Infine, Markus si alzò
e si stirò tutto, come se si fosse appena levato da
letto.
"Oooh!" esclamò "E' proprio il momento giusto per
ripartire!"
Era l'alba, e il cielo azzurrissimo prometteva
chissà quali meravigliose avventure.
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