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Narrativa

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi narrativi inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
Mezzanotte sul Nilo di Simonetta Biserni, Il giorno era innocente e fresco il vento di Maria Lenti, Il peso della spesa di Ivan Pozzoni, Il quinto dei quattro ponti di Pietro Rainero

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai e Matteo Nicodemo, Giovanna Casapollo, Rossana D'Angelo, Alessandra Ferrari, Erika Gherardotti, Roberto Mosi, Ivan Pozzoni, Flavio Scaloni

Recensioni

In questo numero:
- "A seconda di come volgo lo sguardo" di Massimo Acciai e Matteo Nicodemo
- "La nevicata e altri racconti" di Massimo Acciai, postfazione di Valentina Meloni
- "Apologia del perduto" di Massimo Acciai e Lorenzo Spurio
- "Poetikanten", poesie dei Poetikanten
- "Il giocoliere di parole" di Alberto Diamanti
- "La ballata delle sette pietre", di Antonio Messina
- "La vita, gli amori e l'omicidio di Giulio Falchi", di Mick Corso
- "Aurora" di Stefano Pasini

Interviste

Intervista a Stefania Piu
A cura di Massimo Acciai
Intervista a Stefano Pasini
A cura di Massimo Acciai

Ritorni –

da Milano ai Colli Euganei e un po’ più in là
 

Cristina Vascon


Miei cari Colli,

sui cui pendii tanto io lessi, giocai e dipinsi; tanto m’immersi, corsi e vagai.

Miei cari Colli che rappresentaste la più spensierata e dolce mia adolescenza e infanzia; la verde bandiera a cui volger lo sguardo nei momenti più difficili e bui; il dolce lenimento che tanta cura si prese delle mie più audaci abrasioni e ferite. Ferite incise a fuoco caldo su sensibile anima calpestata e ingenua. Miei cari Colli, quante volte, le vostre farfalle, i vostri fiori, la vostra preziosa e silente alma si fece dipinto nel mio talvolta malinconico canto; in un pensiero e cuore rotto; in un incedere lento e talvolta inciampo, rendendolo meno truce, rendendolo meno incredulo, sparuto e grigio. Quante volte i vostri silenzi s’involarono su quell’animo, sempre più solitario ed etereo; ritrovato e sperso nella sua costante ricerca di un quid diverso. Miei cari Colli che vi faceste mia prima veste, mia prima scuola, mia prima musica e arte; che mi infondeste l’abc della dolcezza, della sensibilità, della più pura e candida meraviglia; miei cari Colli com’è inver ardua la vita quaggiù tra gli uomini.

______


“Sei riuscita finalmente a trovare casa?” mi chiede mamma dopo un mese trascorso in albergo per lavoro.



“Si, mamma, è un appartamento minuscolo, molto carino, che ho battezzato col nome di “casa delle bambole”…”



“???” il viso di mamma si trasforma in un leggero punto interrogativo.

“Vedi la tua cucina?…bè…potrebbe contenerlo tutto nel palmo della propria e generosa mano…”

”…però sono fortunata” - aggiungo veloce senza lasciarle spazio di replica – “perché ai suoi piedi si erge un piccolo parco trasbordante di profumati tigli, grazie ai quali mi sembra sempre di essere qui, tra i nostri amati Colli. Qui, vicinissima a casa…”

“A piedi nudi nei tigli dei tramonti[1].”

…sospiro piano al pensiero intenso di quante volte quel profumo struggente mi avesse fatto toccare con mano il limite tra la vita e la morte, tra la veglia e il riposo, tra il credo e non ce la faccio…

Si può morire per un semplice e naturale profumo intenso di fiori? Si può morire assaporando la bellezza eterea e coraggiosa di un minuscolo verso di poesia? Il tramonto mozzafiato di una palla di fuoco? La trama interiore e sottile di un’opera d’arte, di uno schizzo, di una musica e suo interiore dipinto? Si può morire per lo stormire incessante e verde delle foglie dei pioppi che origliano i segreti voleri, nell’alto dei cieli più argentei? Si può morire per tutto questo? O comunque esser lì, lì per sentirlo forte, quel trapasso, a cui raramente ci si prepara con adeguato credo e cura?

”…e poi, mamma, questa bellissima “casa delle bambole” si affaccia sul cortile interno del nostro condominio – alveare a me sconosciuto – su cui si distende col suo minuscolo terrazzino, dove potrò appendere ad asciugare, sì e no, qualche stropicciato mio slavato verso” - rido come una bambina al suo primo giorno di scuola.

“Però, mamma, scherzi a parte, almeno qui di notte vige il silenzio e ci è data la grazia di riposare” - cosa mai così scontata e banale nella sonnambula e chiassosa capitale lombarda, che mai si zittisce e ferma.

…qui, a Milano, si vive isolati, sia pur immersi in una folla di corpi…



La sola, forse, salvezza? I ritmi lavorativi che non lasciano spazio, a volte, neppure per i più elementari bisogni; figuriamoci quando al balcone del cuore si affacciano mancanze profonde, umani sogni e desideri, nostalgiche filosofie e vecchie, (in)sensibili domande. Quando succede, si deve essere pronti ad accorrere in fretta e furia a chiuderne tutti gli scuri e porte a doppia mandata: non è dato qui di lasciar filtrare simili spiragli di luce. Qui, a Milano, dove non c’è tempo e spazio per il nonnulla del cuore; a volte, neppure per salutare o semplicemente intravedere chi ti abita accanto, nelle cellette più prossime di questo immenso alveare che si protende, spossato e stanco, fino al tetto del cielo: il più coperto, il più plumbeo e grigio. Qui, dove si sopravvive appesi a un filo invisibile: uomini sonnambuli che non conoscono la luce dei giorni, l’andare quotidiano di semplici e banali passi. Uomini dimenticati in una notte senza astri. Qui, dove il nuovo arrivato s’immerge in un torbido fiume sovrastato da possenti, anonime strutture di cemento e ferro. Qui, dove quell’uomo, a forza convinto, prova a vivere senza quel nostalgico rimando al suo essere più profondo. Qui, tra smog e nebbia, tra solitudine e folla. Qui, finché non sopraggiunge un impercettibile, sommesso brivido che precede la scossa: presagio di un terremoto che vorrebbe riportar quell’uomo alle sue origini più antiche e prime; allo sgorgare della fonte; al bandolo che cerca l’inizio per ricongiungersi nella perfezione del cerchio. Qui, dove quell’uomo cerca di opporvisi con tutto se stesso, fosse anche solo trasformandosi in sordo, muto e cieco. D’altra parte, ha fatto così tanti sforzi e sacrifici per arrivare a tali e prestigiosi, decantati siti, che non può certo abbandonarli per un mero sussulto del cuore. Ma quel seme diventerà presto germoglio e ahimè virgulto: un giovane albero che chiede terra, aria e sole; e tu non puoi che alla fine cedere; tu, tagliato tronco sul cui ceppo, da tempo – troppo – non medita più nessuno. Dopo tanto vagare, osi quello che pochi avrebbero anche solo osato pensare: ti fermi, errore, per molti, madornale, a meditare. Inevitabile la conclusione: via da quel coro e dal suo alveare; via dallo smog pungente; dalle infinite, sfinite ore di lavoro; dall’ufficio da cui s’intravedevano le guglie del Duomo, i cui interni non hai mai avuto il tempo di nuovamente ammirare; via dagli amici, milanesi sì, ma a ore di strada; via dal dramma del parcheggio, della macchina scassinata e perennemente aperta; via dagli autobus e metropolitane affollate e sporche; via dalle ore in colonna per raggiungere l’autostrada; dalle ore in colonna per percorrerla, quell’autostrada, sempre per lei ora di trasbordante e solenne punta. E alla fine, con la tua scarna valigia, rientri alla tua terra. Sono campi sterminati, rigogliosi e ben tenuti che ti salutano con la mano, tra tessuti e trame di sorridenti e fioriti giardini tra abitate case e stanze piene di luce. Il tutto in un orizzonte di morbidi e tondi, lussureggianti Colli. I tuoi Colli, che si stagliano come ombrelli, deposti con tenera dolcezza, ai piedi di nuvole di panna, tra soli caldi su fiordalisi intensi, per schizzi di papaveri rossi: tramonti ai più inaccessibili. Qui, dove si può camminare, per ore e ore, senza che un pungente, invisibile smog ti si pianti in gola, impedendoti di ritrovare la strada. Qui, dove vige la bellezza delle piante, delle farfalle, dei fiori e di tutti quei nidi che nulla potrebbero contro l’orrore violento e freddo dell’acciaio più grigio e sordo; acciaio imprigionato tra assordanti tubi di scarico che urlano nella notte o in un mero pomeriggio opaco, assetato di luce e credo. Qui, dove è un sommesso fruscio d’alberi che si raccontano in dolci ninnenanne da commovente culla. Qui, dove è il caldo buono della stufa che ti raggiunge, il profumo del pollo, gli aromi delle patate novelle, l’ebbrezza del mosto; le rincorse dei cani, le fusa dei gatti, il saltellare degli uccellini; i nidi delle rondini, la timidezza del riccio e di chissà quanti altri numerosi animali nascosti. Qui, dove il nettare della terra è immerso in una coperta di rugiada che ti accompagna per tutta la giornata, raccontandoti il vero senso della vita. Sì, proprio qui, ai piedi dei miei amati Colli Euganei, nido di verità e certezze per me, oggi, assolute e prime.

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[1] C. Ruffato.
 

 
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