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Ritorni –
da Milano ai Colli Euganei e un
po’ più in là
Cristina Vascon
Miei cari Colli,
sui cui pendii tanto io lessi, giocai e dipinsi;
tanto m’immersi, corsi e vagai.
Miei cari Colli che rappresentaste la più
spensierata e dolce mia adolescenza e infanzia; la
verde bandiera a cui volger lo sguardo nei momenti
più difficili e bui; il dolce lenimento che tanta
cura si prese delle mie più audaci abrasioni e
ferite. Ferite incise a fuoco caldo su sensibile
anima calpestata e ingenua. Miei cari Colli, quante
volte, le vostre farfalle, i vostri fiori, la vostra
preziosa e silente alma si fece dipinto nel mio
talvolta malinconico canto; in un pensiero e cuore
rotto; in un incedere lento e talvolta inciampo,
rendendolo meno truce, rendendolo meno incredulo,
sparuto e grigio. Quante volte i vostri silenzi
s’involarono su quell’animo, sempre più solitario ed
etereo; ritrovato e sperso nella sua costante
ricerca di un quid diverso. Miei cari Colli che vi
faceste mia prima veste, mia prima scuola, mia prima
musica e arte; che mi infondeste l’abc della
dolcezza, della sensibilità, della più pura e
candida meraviglia; miei cari Colli com’è inver
ardua la vita quaggiù tra gli uomini.
______
“Sei riuscita finalmente a trovare casa?” mi chiede
mamma dopo un mese trascorso in albergo per lavoro.
“Si, mamma, è un appartamento minuscolo, molto
carino, che ho battezzato col nome di “casa delle
bambole”…”
“???” il viso di mamma si trasforma in un leggero
punto interrogativo.
“Vedi la tua cucina?…bè…potrebbe contenerlo tutto
nel palmo della propria e generosa mano…”
”…però sono fortunata” - aggiungo veloce senza
lasciarle spazio di replica – “perché ai suoi piedi
si erge un piccolo parco trasbordante di profumati
tigli, grazie ai quali mi sembra sempre di essere
qui, tra i nostri amati Colli. Qui, vicinissima a
casa…”
“A piedi nudi nei tigli dei tramonti[1].”
…sospiro piano al pensiero intenso di quante volte
quel profumo struggente mi avesse fatto toccare con
mano il limite tra la vita e la morte, tra la veglia
e il riposo, tra il credo e non ce la faccio…
Si può morire per un semplice e naturale profumo
intenso di fiori? Si può morire assaporando la
bellezza eterea e coraggiosa di un minuscolo verso
di poesia? Il tramonto mozzafiato di una palla di
fuoco? La trama interiore e sottile di un’opera
d’arte, di uno schizzo, di una musica e suo
interiore dipinto? Si può morire per lo stormire
incessante e verde delle foglie dei pioppi che
origliano i segreti voleri, nell’alto dei cieli più
argentei? Si può morire per tutto questo? O comunque
esser lì, lì per sentirlo forte, quel trapasso, a
cui raramente ci si prepara con adeguato credo e
cura?
”…e poi, mamma, questa bellissima “casa delle
bambole” si affaccia sul cortile interno del nostro
condominio – alveare a me sconosciuto – su cui si
distende col suo minuscolo terrazzino, dove potrò
appendere ad asciugare, sì e no, qualche
stropicciato mio slavato verso” - rido come una
bambina al suo primo giorno di scuola.
“Però, mamma, scherzi a parte, almeno qui di notte
vige il silenzio e ci è data la grazia di riposare”
- cosa mai così scontata e banale nella sonnambula e
chiassosa capitale lombarda, che mai si zittisce e
ferma.
…qui, a Milano, si vive isolati, sia pur immersi in
una folla di corpi…
La sola, forse, salvezza? I ritmi lavorativi che non
lasciano spazio, a volte, neppure per i più
elementari bisogni; figuriamoci quando al balcone
del cuore si affacciano mancanze profonde, umani
sogni e desideri, nostalgiche filosofie e vecchie,
(in)sensibili domande. Quando succede, si deve
essere pronti ad accorrere in fretta e furia a
chiuderne tutti gli scuri e porte a doppia mandata:
non è dato qui di lasciar filtrare simili spiragli
di luce. Qui, a Milano, dove non c’è tempo e spazio
per il nonnulla del cuore; a volte, neppure per
salutare o semplicemente intravedere chi ti abita
accanto, nelle cellette più prossime di questo
immenso alveare che si protende, spossato e stanco,
fino al tetto del cielo: il più coperto, il più
plumbeo e grigio. Qui, dove si sopravvive appesi a
un filo invisibile: uomini sonnambuli che non
conoscono la luce dei giorni, l’andare quotidiano di
semplici e banali passi. Uomini dimenticati in una
notte senza astri. Qui, dove il nuovo arrivato
s’immerge in un torbido fiume sovrastato da
possenti, anonime strutture di cemento e ferro. Qui,
dove quell’uomo, a forza convinto, prova a vivere
senza quel nostalgico rimando al suo essere più
profondo. Qui, tra smog e nebbia, tra solitudine e
folla. Qui, finché non sopraggiunge un
impercettibile, sommesso brivido che precede la
scossa: presagio di un terremoto che vorrebbe
riportar quell’uomo alle sue origini più antiche e
prime; allo sgorgare della fonte; al bandolo che
cerca l’inizio per ricongiungersi nella perfezione
del cerchio. Qui, dove quell’uomo cerca di opporvisi
con tutto se stesso, fosse anche solo trasformandosi
in sordo, muto e cieco. D’altra parte, ha fatto così
tanti sforzi e sacrifici per arrivare a tali e
prestigiosi, decantati siti, che non può certo
abbandonarli per un mero sussulto del cuore. Ma quel
seme diventerà presto germoglio e ahimè virgulto: un
giovane albero che chiede terra, aria e sole; e tu
non puoi che alla fine cedere; tu, tagliato tronco
sul cui ceppo, da tempo – troppo – non medita più
nessuno. Dopo tanto vagare, osi quello che pochi
avrebbero anche solo osato pensare: ti fermi,
errore, per molti, madornale, a meditare.
Inevitabile la conclusione: via da quel coro e dal
suo alveare; via dallo smog pungente; dalle
infinite, sfinite ore di lavoro; dall’ufficio da cui
s’intravedevano le guglie del Duomo, i cui interni
non hai mai avuto il tempo di nuovamente ammirare;
via dagli amici, milanesi sì, ma a ore di strada;
via dal dramma del parcheggio, della macchina
scassinata e perennemente aperta; via dagli autobus
e metropolitane affollate e sporche; via dalle ore
in colonna per raggiungere l’autostrada; dalle ore
in colonna per percorrerla, quell’autostrada, sempre
per lei ora di trasbordante e solenne punta. E alla
fine, con la tua scarna valigia, rientri alla tua
terra. Sono campi sterminati, rigogliosi e ben
tenuti che ti salutano con la mano, tra tessuti e
trame di sorridenti e fioriti giardini tra abitate
case e stanze piene di luce. Il tutto in un
orizzonte di morbidi e tondi, lussureggianti Colli.
I tuoi Colli, che si stagliano come ombrelli,
deposti con tenera dolcezza, ai piedi di nuvole di
panna, tra soli caldi su fiordalisi intensi, per
schizzi di papaveri rossi: tramonti ai più
inaccessibili. Qui, dove si può camminare, per ore e
ore, senza che un pungente, invisibile smog ti si
pianti in gola, impedendoti di ritrovare la strada.
Qui, dove vige la bellezza delle piante, delle
farfalle, dei fiori e di tutti quei nidi che nulla
potrebbero contro l’orrore violento e freddo
dell’acciaio più grigio e sordo; acciaio
imprigionato tra assordanti tubi di scarico che
urlano nella notte o in un mero pomeriggio opaco,
assetato di luce e credo. Qui, dove è un sommesso
fruscio d’alberi che si raccontano in dolci
ninnenanne da commovente culla. Qui, dove è il caldo
buono della stufa che ti raggiunge, il profumo del
pollo, gli aromi delle patate novelle, l’ebbrezza
del mosto; le rincorse dei cani, le fusa dei gatti,
il saltellare degli uccellini; i nidi delle rondini,
la timidezza del riccio e di chissà quanti altri
numerosi animali nascosti. Qui, dove il nettare
della terra è immerso in una coperta di rugiada che
ti accompagna per tutta la giornata, raccontandoti
il vero senso della vita. Sì, proprio qui, ai piedi
dei miei amati Colli Euganei, nido di verità e
certezze per me, oggi, assolute e prime.
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[1] C. Ruffato.
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