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Narrativa
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi narrativi inediti,
purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
Dialogo con un testimone di
geova sotto un tiglio di Massimo Acciai
Baggiani, La fortuna di
Sciaborda di Siro Baggiani,
Il ragazzo interrotto
di Caterina Pardi, Oggetti
di Michele Protopapas
Poesia in italiano
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai
Baggiani,
Teresa Bucca,
Emanuela Ferrari
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia
inviare testi poetici inediti, purché rispettino
i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai
Baggiani, Lucia
Dragotescu
Recensioni
In questo numero
segnaliamo:
- "La compagnia dei viaggiatori del tempo" di
Massimo Acciai
- "La lingvovendejo", di Massimo Acciai,
recensione di Davide Zingone
(esperanto/italiano)
- "Il sogno del ragno" di Carlo Menzinger di
Preussenthal
- "Mozart e lo Gnomo Saggio" di Simonetta
Biserni
- "Alla conquista del Brasile" di Ferruccio
Macola
- "Colosimo's café" di Roberto Disma
- "Italiani in Scozia e a Londra"
- "La colonia italiana in New York 1908" di
Ausonio Franzoni
- "L'altro italoamericano"
- "L'oca della neve" di Vittorio Bocchi
- "Mais" di Vittorio Bocchi
- "Nicolò" di Francis Sgambelluri
- "Rotta su Cuba" di Domenico Capolongo
Articoli
Interviste
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La fortuna di Sciaborda
Siro Baggiani
In una vecchia stanza in campagna
viveva un uomo solo, molto povero. Da giovane faceva
il colono insieme ai genitori e ad una sorella più
giovane di lui, ma con la guerra fu sfortunato
perché uccisero genitori e sorella. Rimase così
solo.
Non potendo più lavorare il podere il padrone lo
volle mandar via. Questo povero uomo, che si
chiamava Gino, era disperato: non aveva più nessuno,
neanche un parente che potesse aiutarlo.
Il padrone, vedendolo disperato, lo sistemò in una
vecchia stanza al centro del podere dove, quando era
colono, ci teneva gli attrezzi da lavoro. Ma per
vivere doveva arrangiarsi come meglio poteva,
aiutando gli altri contadini per avere in cambio
qualcosa da mangiare.
Gino aveva 65 anni ma ne dimostrava 80 per come era
malandato. Aveva la barba lunga, i capelli sporchi e
lunghi che gli coprivano le orecchie, indossava una
giacca marrone che in qualche punto era diventata
lucida, quasi nera, per lo sporco accumulato durante
molti anni.
I contadini del vicinato lo chiamavano Sciaborda
perché era sempre ubriaco. Quando si incontrava con
gli amici, al circolo della zona, spesso gli
pagavano da bere finché non si ubriacava. Lo
facevano per divertirsi vedendolo ballare e cantare,
insomma tutte quelle cose che può fare un uomo
imbottito di vino.
Sciaborda passava le giornate elemosinando qua e là,
cercando qualcosa da mettere sotto i denti. Molte
volte si addormentava su una panchina, in un paesino
a qualche chilometro di distanza dalla sua misera
casa. un giorno, mentre stava sonnecchiando, si
avvicinarono due suoi conoscenti e si sedettero
sulla stessa panchina chiacchierando di fortuna.
Sciaborda alzò la testa e disse: - Ah, io non
conosco la fortuna! Sono sempre stato sfortunato
nella vita.
Uno di loro lo guardò e sorridendo disse: - Perché
non vai a buttarti in cameraccia? Uno come te la
fortuna la troverà sicuramente! Come si direbbe a
uno che soffre continuamente a causa di una grave
malattia, sarebbe meglio morire che vivere così,
almeno avresti finito di patire.
Il pover'uomo si alzò e disse: - Sarà meglio che
vada a casa, sono troppo stanco.
Lo fece per non litigare per quelle brutte parole
che gli erano entrate nelle orecchie.
Così, appoggiandosi sul suo vecchio bastone di
ginepro che aveva fatto lui stesso tanto tempo fa,
si avviò lentamente verso la sua stanza che chiamava
casa, ma per strada pensava alla cameraccia. Sapeva
dov'era perché in quel bosco andava a cercare i
funghi da giovane.
Il giorno dopo Sciaborda si mise i suoi vecchi
stivali, un pezzo di pane in tasca e appoggiandosi
al suo vecchio bastone andò verso quella cameraccia.
Mentre raggiungeva il bosco non pensava di buttarsi
dentro quella cameraccia ma di andare a vedere di
cosa si trattava. Infatti appena arrivò, andò dalla
parte di sopra e vi si avvicinò lentamente e,
reggendosi ad un querciolo, si affacciò guardando
verso il basso. Si trattava di una grande buca,
profonda una decina di metri, formatasi da una
cascata del ruscello che scorreva tra due valli.
Al centro si era riempito di grandi caspe di alberi
di varie specie, intrecciate da macchie di rovi e di
altre erbe di fosso.
Sciaborda pensò di scendere a valle e risalire il
ruscello finché non fosse arrivato in cima. Era
l'unico modo, ma quando fu vicino si accorse che era
impossibile entrare a causa di tutte le corde
spinose dei rovi, alte più di lui, che si
incrociavano fra di loro per tutta la buca.
L'uomo, ormai perso di coraggio, andò via ma per la
strada pensava a come fare per raggiungere
l'interno.
Il giorno dopo rese una falce, un vecchio pennato e
una forbice da giardino che adoprava per potare le
piante quand'era contadino. Per la strada si mise a
masticare un pezzo di pane vecchio di giorni,
datogli dal contadino per averlo aiutato, che aveva
preparato bagnandolo con acqua e qualche goccia
d'olio d'oliva. Arrivato sul posto cominciò a
tagliare i rovi e le caspe degli alberi. Aprì un
passaggio, rotolò tutto dentro un fossetto inumidito
dalla poca acqua che scendeva dalla cascata e
formava qualche pozzanghera durante il suo corso.
Così faticando l'uomo riuscì a sfondare quella
barriera spinosa e si trovò in mezzo ad una buca
dove c'era un laghetto formato dalla cascata, la
quale lasciava una striscia argentata che luccicava
al sole.
L'acqua che scendeva era poca ma, colpendo dall'alto
le rocce calcaree da essa accumulate, si
polverizzava formando una nebbia gelida che valeva
proprio la pena di essere vista.
Sciaborda volle andare dietro la cascata e si
presentò a lui una grotta. A destra c'era una parete
tutta decorata da tante barbicine di alberi,
scalzate dall'acqua e ricoperte di calcare, le quali
intrecciandosi fra loro formavano un ricamo.
L'uomo allungò una mano per prendere un pezzo di
questa composizione ma gli si frantumò tra le dita.
In quel momento sentì un rumore che proveniva dalla
grotta. Quasi impaurito si soffermò un attimo, poi
affacciandosi meglio vide una grossa talpa che
usciva dalla grotta, poi un'altra e un'altra ancora.
Insomma ne contò cinque mentre scappavano.
Sciaborda non si lasciò intimidire anche perché
nella sua stanza arrangiata da mini-appartamento di
talpe ne aveva viste tante, anzi non le uccideva
neanche perché gli facevano compagnia.
Sciaborda andò verso il centro della grotta e rimase
incantato da una grande bellezza naturale.
L'acqua calcarea gocciolando aveva formato tanti
piccoli cumoli calcare con strutture diverse che
assomigliavano a varie cose. Fra queste ce n'era una
molto più grande che assomigliava a una Madonna.
Sciaborda si inchinò davanti a questa scultura e
passando dalla parte opposta continuò a vedere
ciondoli luccicanti attaccati al soffitto della
grotta, inumiditi da una lacrima che scendeva in
corrispondenza della statua sottostante, nascosta da
qualche filo di borraccina e muschio.
Uscendo dall'altra parte fece qualche passo fuori
dalla grotta quando vide un bel cespuglio di
ciclamini di bosco. I fiori erano piccoli ma molto
colorati e di ottimo profumo.
L'uomo per curiosità si chinò a contarli: erano 38,
tutti in un cespuglio che cresceva sull'argine del
fosso. Provò a prenderli per portarli davanti alla
sua misera abitazione ma le radici erano profonde e
si sarebbero schiantate, così li lasciò per
prenderli un altro giorno.
Sciaborda era ormai stanco. Si mise a bere un sorso
d'acqua sotto la cascata e ritornò verso casa
passando per il sentiero che si era aperto. Quando
arrivò a casa oltre ad essere stanco aveva molta
fame, allora mie a bagno un pezzo di pane con un po'
di cipolla con sopra un po' di pomodoro, un po'
d'olio e sale. Mangiò tutto in un momento.
Seduto a tavola si mise a pensare alla sua
avventura. Pensò a quelle cinque talpe, poi alla
stata di calcare assomigliante a una Madonna e ai 38
fiori del ciclamino.
Questi numeri lo fecero riflettere un attimo, allora
pensò di giocarli al lotto. Ma l'uomo non aveva una
lira, non sapeva come fare. Guardando qua e là vide
un vecchio orologio a pendolo che gli aveva regalato
suo nonno: l'unico pezzo di valore che possedeva.
Sciaborda lo prese e andò in paese per venderlo.
Quando lo tirò fuori i compratori non mancarono:
ognuno gli offriva più dell'altro per via della sua
bellezza ed antichità. Chi gli offriva 5000, chi
10.000, infine lo diede per 20.000 lire: forse più
del suo valore a quei tempi. Dopo aver riscosso
questa somma andò diretto al bar, comprò due paste
di cui non ricordava neanche più che sapore
avessero, tanto era che non ne mangiava, poi bevve
un bicchiere di vino e andò a giocare al lotto.
Sciaborda volle giocare con metà della somma
riscossa su una ruota i tre numeri della cameraccia,
poi andò a comprare un po' di pasta, del formaggio e
qualche scatoletta di tonno.
Questo poveraccio, avendo in mano quei soldi e la
spesa per qualche giorno, sembrava che si fosse
risvegliato da un incubo.
Così canticchiando tornò a casa.
Due giorni dopo ci fu l'estrazione del lotto. Quando
vide che aveva vinto gli caddero le lacrime dalla
gioia. dopo aver riscosso così tanto denaro si
comprò una casa piccola ma nuova e con tutti i
servizi, senza bisogno di andare nel campo o alla
fontana per prendere l'acqua.
Dopo qualche mese si comprò un poderino e una
ventina di pecore che ogni mattina poteva mungere e
finalmente fare una colazione a caffellatte come gli
altri. Si era ripulito e comprato ciò che gli
mancava.
Sciaborda era diventato un uomo più ricco degli
altri e quando incontrava quelle persone che prima
lo prendevano in giro, ora era lui a fare
altrettanto.
Quelli che lo conoscevano come un mendicante ora
erano loro ad avvicinarsi per farsi amici.
La domenica successiva l'uomo prese una zappa e del
pane, ritornò in cameraccia passando per il solito
sentiero, arrivò alla grotta, rese il pane e lo posò
dolcemente alla tana delle talpe, poi andò dalla
parte opposta con la zappa, estirpò dal ciglio
l'intera caspa di ciclamino e la portò nella grotta.
Si inchinò ai piedi di quella statua di calcare che
chiamava Madonna, fece una piccola buca, la posò
dentro con tutte le sue barbe, la rincalzò con la
terra e le diede un po' d'acqua.
Sciaborda si inchinò di nuovo e ringraziò con una
preghiera, poi posò un bacio sulla fronte umida e
brillante di quella statua. Uscendo dalla grotta con
gli occhi bagnati da qualche lacrima passò alla
cascata, bevve un sorso di acqua fresca e tornò a
casa.
Dopo qualche tempo conobbe una donna vedova che
accettò di andare a vivere con lui, insieme al suo
gregge, un cane pastore e un gatto per compagnia e
passarono il resto dei loro giorni felici e
contenti.
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