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Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a
chiunque voglia inviare testi poetici inediti,
in lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi
morali e di decenza...
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e paesaggi" di Roberto Mosi, nota di
Massimo Acciai
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l'ovest" di Rossella Presicce
Saggi
Filosofia
La filosofia politica di
Platone come filosofia pratica
di Apostolos
Apostolou
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Spuntava dai suoi occhi una lacrima
e dalle mie labbra una frase di perdono;
parlò l'orgoglio e si asciugò il pianto,
e la frase sulle mie labbra spirò.
Io vado per un cammino, lei per un altro;
ma pensando al nostro mutuo amore,
io dico ancora: "Perché tacqui quel giorno?"
E lei dirà: "Perché io non piansi?"
Gustavo Adolfo Bécquer (1836-1870)
Marco mi chiamò con un'ora di ritardo. Le batterie
del suo cellulare si erano scaricate sul più bello,
e lui aveva dovuto comprare una scheda e stava
girando da un bel po' per trovare un telefono. In
periferia le cabine telefoniche sono poche, e quasi
tutte portano i segni visibili dello sfogo di
qualche cretino: nel migliore dei casi le cornette
sono staccate, i fili rotti, e i display sfondati o
resi illeggibili dai chewing-gum attaccati ad arte.
Quando aveva trovato un telefono funzionante, non
aveva ancora fatto i conti con il tipo che lo stava
usando, un uomo di mezza età con una vistosa catena
d'oro al collo, pesante abbastanza per sfamare
qualche tribù affamata del Burundi. Si notava che
stava parlando con la sua amante, perché la
aggrediva con insulti di varia natura ricordandole
di dovergli obbedienza e sottomissione. Marco si
limitò ad ascoltare la conversazione nell'attesa che
il gentiluomo finisse di inveire contro la donna,
dando di tanto in tanto qualche colpetto di tosse
con l'intento di richiamare l'attenzione sul fatto
che stava aspettando già da un bel pezzo, e ne aveva
ormai abbastanza, sia di ascoltare insulti che di
aspettare. Alla fine l'uomo aveva riagganciato
soddisfatto, forse per aver dimostrato a se stesso
di essere ancora un uomo vero, e Marco aveva potuto
chiamarmi. L'appuntamento con Claudio era fissato
per le nove. Il piano era ben congegnato: saremmo
andati a prenderlo in clinica, perché tanto non lo
avrebbero operato prima di martedì, e con la
complicità di mio cugino infermiere non sarebbe
stato difficile farlo uscire e poi rientrare senza
destare sospetti. E di lì via verso la città, per
cercare qualche avventura lontano da questo mortorio
in bianco e nero, dove le vite dei nostri genitori
si sono pazientemente consumate senza scossoni, e
senza mai sentire il desiderio, come noialtri, di
fuggire via verso la grande città, dove nessuno ti
conosce e nessuno se ne frega di te.
-Mamma, io esco. Non aspettarmi alzata, perché
sicuramente farò tardi.-
La vecchia e fedele 127 di Marco era già
parcheggiata vicino al lampione mezzo inclinato che
sta sotto casa mia. Una scena ormai familiare,
poiché si ripeteva tutte le sere ormai da qualche
mese, cioè da quando Marco aveva rotto con Michela,
la sua fidanzata. Quella Michela che una sera
vedemmo scendere da una macchina scura e di grossa
cilindrata, che fino a qualche minuto prima era
parcheggiata nel campetto dove andavano tutte le
coppie che volevano star da sole. Quella stessa
Michela che diceva a tutti di amare Marco alla
follia, e che ciononostante scese dalla macchina
solo dopo aver ripetutamente ed appassionatamente
salutato il suo accompagnatore, che non era Marco,
perché Marco era con me poco distante, che tornavamo
da una partita di calcio con gli amici del paese
vicino. Quella Michela, sempre lei, che una volta mi
aveva invitato a casa sua per parlare di Marco, e
invece mi accorsi che non voleva esattamente
parlare, e allora la chiamai per nome, che non era
proprio Michela, e lui questo non lo sapeva, ma
sapeva che è meglio un amico vero che una fidanzata
finta, perché un amico vero non scende dalle
macchine di grossa cilindrata, a meno che non siano
di sua proprietà, e non accetta proposte delle
ragazze altrui, soprattutto se-
Una pacca sulla spalla mi distolse dallo strano
miscuglio di pensieri in cui mi ero immerso. Non mi
ero neanche accorto che, nel frattempo, eravamo già
arrivati alla clinica, e Marco mi stava invitando a
scendere. Claudio ci aspettava in camera, al terzo
piano, già vestito. Aveva anche appoggiato nel letto
un paio di cuscini con addosso il suo pigiama, tanto
per depistare eventuali controlli, ed evitare che
l'infermiera entrasse in camera e trovasse il letto
vuoto. L'effetto al buio era abbastanza realistico,
anche se estremamente comico per noi che conoscevamo
il trucco e sghignazzavamo senza ritegno mentre
tempestavamo il povero pupazzo di domande su come si
sentisse, e se gli avessero già praticato il
clistere della sera. Ad accrescere la nostra ilarità
ci pensò Claudio aprendo l'armadietto, che era
diventato un vero e proprio arsenale alimentare:
c'era di tutto, dalla cioccolata ai biscotti, dalle
scatolette alle bibite. Si notava che era figlio di
salumiere, e che non si era voluto far mancare
niente neanche da ricoverato, mentre aspettava in
quella clinica che gli operassero la spalla
perennemente lussata. Prendemmo dei biscotti ed un
paio di birre, nascondendo il tutto nello zainetto
che avevo previdentemente portato con me, e ci
avviammo tutti e tre verso l'uscita. Al primo piano
incontrai mio cugino, che aveva già cominciato il
turno di notte. In disparte gli spiegai che stavamo
portando Claudio a fare un giro, perché non ne
poteva più di starsene da solo nel letto a guardare
la televisione. Il suo sorriso tra il compiacente ed
il divertito fu il segnale di via libera, e senza
aspettare ulteriormente uscimmo dalla clinica, con
Claudio che cercava di nascondersi sotto il berretto
che gli avevo regalato qualche tempo prima, mentre
io e Marco cercavamo di non ridere per non
richiamare l'attenzione sulla nostra fuga.
Arrivati alla macchina tirammo un sospiro di
sollievo: ci sembrava che il più difficile ormai
fosse fatto, e adesso ci aspettava qualche ora di
diversione in città.
Il vialone. Una lunga striscia buia che porta dal
nostro paese alla città. Case anonime bagnate dalla
fioca luce di una notte senza luna, inframmezzate
qua e là da vegetazione spontanea, e qualche albero
spogliato dal caldo, o forse dalla noia, e le
montagne scure in lontananza. Su quella strada i
sogni e i desideri viaggiavano insieme a noi, e ogni
tanto cadevano nelle grosse buche del fondo
stradale.
- Oggi è stata un'altra giornataccia al lavoro.
Giuro che uno di questi giorni strappo la lingua a
qualche cliente e ci faccio la spugnetta per i
francobolli -, disse ad un certo punto Marco, mentre
gettava via dal finestrino l'ennesimo mozzicone di
sigaretta. L'anonimo lavoro di cassiere nell'unico
supermercato della zona cominciava a pesargli
davvero, e più volte aveva cercato di convincerci a
scappare via, tutti e tre, per cercare un lavoro in
una città diversa, dove poter vivere, anziché
vegetare. Claudio sorrise: - Non ti preoccupare, ce
ne andiamo in Danimarca, da Majken. Ci ospita e ci
aiuta a trovare un lavoro. Me lo ha detto e ripetuto
tante volte. Basta mettere qualche soldo da parte.-
Majken, la sua fidanzata danese, conosciuta due anni
prima sulla spiaggia dove eravamo andati a passare
il ferragosto. La scommessa era chiara: chi riesce a
farla venire sotto l'ombrellone non paga la benzina.
Era bella, con quella pelle dorata dal sole, e le
cuffie del walkman che la isolavano dal mondo.
Talmente bella che non ebbi il coraggio di
disturbarla. E allora ci andò Claudio, che non
conosceva più di due parole d'inglese, ma
evidentemente l'amore è una forma di comunicazione
animale che prescinde dalle nazioni e dalle lingue,
perché si capirono subito piuttosto bene. Invece di
portarla sotto l'ombrellone la portò sotto la
pinetina dall'altra parte, vincendo una scommessa
ben più grande.
I fari di un'auto che veniva in senso contrario
illuminarono per un attimo il finestrino dal quale
stavo guardando fuori. - Ma avete mai pensato a come
sarebbe il mondo se non ci fosse l'Italia in mezzo
al Mediterraneo? Ci pensavo stamattina. Niente
impero romano, niente lingue neolatine, niente
sonetto, niente Rinascimento, niente scoperta
dell'America, niente pizza. Gli uomini sarebbero
ancora dei barbari se non ci fosse l'Italia.- E
Claudio cominciò a ridere e sghignazzare: - Ma pensa
il punto positivo se non ci fosse l'Italia: niente
mafia e camorra, niente disoccupazione, niente
Juventus e niente bambini delinquenti nella casa
sopra la mia. Che meraviglia!-
Da lontano si intravedevano le prime luci della
città, e le macchine per strada erano aumentate.
Erano le dieci di sera, eppure c'era tanta gente e
tanta luce che sembrava fosse giorno. Ormai eravamo
nel centro storico della città, dove la
concentrazione di locali e di gente era altissima.
Parcheggiammo nei pressi di una bella chiesa gotica,
e ci avviammo tutti e tre verso il punto da cui
veniva un vago rumore di musica jazz. Camminare per
i vicoli del centro era affascinante per noi, e
ormai li conoscevamo a memoria. Chissà quante volte
li avevamo percorsi, con le mani nelle tasche,
abbassando lo sguardo se incrociavamo qualcuno, e
alzandolo immediatamente dopo, per goderci l'altezza
dei palazzi, le statue messe lì apposta per noi, i
muri che odorano di storia e le strade pavimentate
di pietre che sanno di vita vissuta.
La musica si fece subito più forte e distinta. Nel
locale stavano suonando una jam-session scatenata.
Fuori c'erano alcuni ragazzi che discutevano della
destinazione da prendere, perché una ragazza tra
loro si lamentava e preferiva andare da qualche
altra parte. Con quella minigonna avrebbe potuto
farsi seguire in capo al mondo. Noi tre ci
scambiammo uno sguardo di intesa, ed entrammo senza
attendere lo sviluppo della discussione. Il locale
era molto carino. Sembrava di essere in uno di quei
pub che si vedono nei film americani, dove hai la
sensazione che è possibile far succedere qualsiasi
cosa in qualunque momento. Ai lati dell'ampia sala
c'erano due file di tavolini gremiti di avventori,
in fondo si era sistemato il trio jazz, ed al centro
c'era un bel bancone con gli sgabelli, dove mi
diressi facendomi seguire dai miei amici.
"Katia, non è possibile, è proprio lei!", dissi ad
alta voce.
Avevamo preso posto sugli sgabelli del bancone e
sorseggiavamo le nostre birre gelate, scambiandoci
di tanto in tanto qualche bisbiglio, avvolti
com'eravamo dal volume della musica. Tra un sorso e
l'altro dal capiente calice di vetro spostavo lo
sguardo nella penombra all'interno della sala. Mi
sono sorpreso tante volte a scrutare con lo sguardo
la gente assiepata nei locali notturni della città,
forse per scorgervi qualche faccia amica, o solo per
cercare di capire cosa hanno da dire gli occhi di
chi si nasconde in mezzo a tanti altri occhi. Facce
assonnate, annoiate o divertite, ironiche o ciniche,
ma tutte perse, come noi, dietro a una vita che ti
sfugge dalle mani.
Seduti attorno ad un tavolino poco distante da noi
c'erano sei persone, quattro ragazzi e due ragazze.
Cominciai a fissarne una perché mi sembrava di
conoscerla. I lunghi capelli scuri, il modo di
sorridere e di muovere le mani, quelle labbra rosse
e carnose: sembrava proprio lei, anche se non sapevo
ancora cosa ci facesse in quel locale.
"Katia? Ma di che parli adesso? Ti sei innamorato di
una di quelle ragazze, per caso?", mi disse Claudio
ridacchiando. Era alto e grosso, di una simpatia
innata. Non ricordo di averlo mai visto triste. Ogni
volta che stavamo insieme mi sentivo sereno. Indicai
con un cenno della testa nella direzione dove sedeva
lei: "Non ne sono ancora sicuro, ma quella lì mi
sembra una mia vecchia amica del liceo." Avevamo
sedici anni. Credo di non essere mai più stato
innamorato da allora in poi. Sedevamo allo stesso
banco, e a volte per timidezza non riuscivo neanche
ad alzare lo sguardo verso di lei. Aspettavo che si
allontanasse per scriverle delle frasi dolcissime
sul diario, ma non avevo mai il coraggio di
firmarle, per paura che scoprisse i miei sentimenti.
E invece alla festa di fine anno mi chiese di
ballare. Era un pezzo lento dei Queen. Stringerla a
me e sentirmi venir meno fu tutt'uno. Ero
emozionatissimo. Il fruscio dell'orlo del suo lungo
vestito mi suscitava desideri più grandi della mia
età, e la scarica di adrenalina, o la pazzia, mi
diedero il coraggio necessario per guardarla negli
occhi. Piangeva. Piangeva a calde lacrime. Per un
anno intero non aveva trovato il coraggio, neanche
lei, di confessarmi il suo amore. Sapeva che ero io
a scriverle le frasi d'amore, sapeva che l'amavo
teneramente e mi ricambiava con tutto l'ardore dei
suoi sedici anni. Ma era troppo tardi. Il padre
aveva trovato lavoro come ingegnere aerospaziale
alla Nasa, e si sarebbe trasferito in America con
tutta la famiglia la settimana dopo la fine della
scuola. Non ci baciammo mai. Lei scappò via dopo
avermi stretto più forte che poteva. Si fece negare
al telefono nei giorni seguenti, ed io non ebbi mai
il coraggio di andare a casa sua per parlarle. Il
giorno della sua partenza tenni tra le mani il
fazzoletto che avevo usato per asciugarle le
lacrime. Lo bagnai di nuovo…
"Hai solo un modo per scoprirlo. Vacci!". Marco
aveva ragione. Bevvi l'ultimo sorso di birra,
guardai i miei amici mentre scendevo dallo sgabello,
cercando di abbozzare un sorriso, e mi avvicinai al
tavolino. Mentre avanzavo sentivo una strana
sensazione di stretta alla bocca dello stomaco, come
quella che sentivo quando entravo in aula per
sostenere gli esami all'università. "Katia?". La
voce mi uscì dalle labbra tremolante e a fatica. Era
proprio lei. Era ancora più bella di come la
ricordavo. Mi riconobbe subito, e mi sorrise come se
non ci fossimo mai persi di vista. Chiese scusa agli
amici che la accompagnavano e si alzò per venire
verso di me: "Sono passati otto anni da allora, vero
?". Era tornata in città per qualche giorno, in
visita da alcuni parenti, e i cugini l'avevano
portata in quel locale. La città non le mancava
affatto. In America stava benissimo e frequentava
l'ultimo anno di college. Aveva intenzione di
diventare giornalista per una testata nazionale
piuttosto importante. Credo che restammo in piedi a
parlare per cinque o sei minuti, ma stavolta la
guardai negli occhi per tutto il tempo. Ormai ero
cresciuto. Le chiesi di vederci il giorno dopo, per
fare una passeggiata e ricordare i vecchi tempi. Lei
accettò. Mi avrebbe chiamato l'indomani pomeriggio a
casa. Marco e Claudio si avvicinarono. Era tardi e
dovevamo ritornare in clinica prima che si
accorgessero dell'assenza di Claudio. Feci le
presentazioni, e dentro di me avevo un senso di
orgoglio, come chi vince una lunga, lunghissima
corsa. Katia fu molto socievole anche con loro.
Mentre si scambiavano qualche convenevole, io mi
allontanai alla ricerca del bagno. Forse l'emozione,
o più probabilmente la birra aveva fatto il suo
effetto. Quando tornai, Katia era di nuovo seduta in
mezzo ai suoi cugini, mentre Marco e Claudio mi
aspettavano sulla soglia dell'ingresso. Le feci un
cenno di saluto con la mano, e mi avviai con loro
verso la macchina.
La mattina dopo mi svegliai più presto del solito.
Tornando a casa in macchina la sera prima, sia Marco
che Claudio erano stati piuttosto silenziosi. Anzi,
Claudio sembrava addirittura contrariato, forse
perché non voleva tornare in clinica. Mio cugino,
precedentemente avvisato, ci aspettava all'ingresso
fumando una sigaretta. Prese Claudio sotto braccio e
lo portò in camera. Senza aspettare, Marco ingranò
la seconda e ripartì subito, e in pochi minuti
arrivammo sotto casa mia. Non scambiammo neanche una
parola, e la cosa mi sorprese alquanto. Di solito
restavamo in macchina a parlare di sogni e di
speranze e di ricordi, fino a notte fonda, e ci si
lasciava solo quando si sapeva cosa avremmo fatto il
giorno dopo. Invece quella sera Marco disse che era
stanco e preferiva andare di filato a casa. Lo
lasciai fare, tanto anche io avevo qualche altra
cosa a cui pensare.
Feci colazione, ascoltai un po' di musica dal mio
lettore cd mezzo scassato, accesi la tv e guardai
l'orologio. Erano soltanto le 10 di mattina, e Katia
non mi avrebbe chiamato che per le 5 del pomeriggio.
Ero talmente impaziente che non riuscivo a trovare
niente che mi distraesse. Fortunatamente mamma mi
chiese di andare al supermercato a fare la spesa.
Prima, quando c'era ancora papà, ci andavano sempre
insieme al supermercato. Ma ormai, da quasi due
anni, lei non era riuscita più a tornarci. Diceva
che i ricordi la assalivano mentre cercava le mele
migliori nel bancone della frutta, o mentre faceva
la fila per pagare, e non le andava di farsi vedere
in lacrime dalla gente del paese. Allora ci mandava
me, un giorno si ed uno no. La lista era sempre la
stessa: non potevamo permetterci follie, con quella
benedetta pensione. Mamma aspettava con impazienza
che l'unico figlio avuto da un matrimonio povero ma
felice finisse gli studi e trovasse un lavoro che
gli permettesse di vivere senza tante
preoccupazioni. A volte pensavo addirittura che
tenesse duro solo perché io avevo bisogno di lei.
Presi i soldi e scesi. L'idea non mi dispiaceva
affatto: al supermercato avrei incontrato di certo
Marco, mi sarei distratto un poco facendo due
chiacchiere, e magari gli avrei pure raccontato la
mia eccitazione per la serata che dovevo trascorrere
con Katia. Con mia sorpresa, Marco non era al suo
posto di lavoro quella mattina. Una ragazza che lo
sostituiva mi disse che si era dato ammalato per
qualche giorno. La cosa era piuttosto strana: Marco
non faceva mai festa al lavoro, e la sera prima
stava benissimo. Tornai a casa con le buste della
spesa che mi sembravano più vuote del solito. Mi
misi subito al telefono: il cellulare di Marco era
spento, e a casa sua mi risposero che era sceso
molto presto senza dire niente a nessuno.
Pensai che si sarebbe fatto sentire prima o poi, e
doveva avere una buona ragione per comportarsi così.
Guardai di nuovo l'orologio, e mezzogiorno era
passato da pochi minuti. Mi stesi sul divano, accesi
la radio e scelsi dalla vecchia libreria di mio
padre un libro sulla conquista dell'America da parte
degli spagnoli. Lessi per poco, poi mi venne
improvvisamente sonno. Il tempo di chiudere gli
occhi e mamma mi chiamò per il pranzo. Alle due del
pomeriggio mi ritrovai di nuovo solo con me stesso e
con la smania tremenda dell'attesa. Mancavano tre
ore alla telefonata di Katia. Da un cassetto
raccolsi alcune foto del periodo liceale. Non le
guardavo da anni. Mi fece uno strano effetto
rivedermi in quel ragazzo occhialuto, più piccolo
degli altri, con un vistoso maglione di lana rossa
che mamma mi aveva fatto con le sue mani quell'inverno.
Tante sensazioni si affollarono dentro di me, tanto
che non riuscivo più a distinguerle. La macchina del
tempo è stata inventata già da secoli: i ricordi ci
portano indietro e ci fanno rivivere le stesse
passioni e le stesse emozioni che vivemmo in
passato. E basta un niente per farla funzionare: una
fotografia, un odore, un sapore, un fazzoletto, un
libro con qualche pagina staccata…
Ad un tratto lo squillo del telefono: senza neanche
accorgermene portai lo sguardo all'orologio. Erano
le quattro meno cinque, non poteva essere Katia.
Risposi. Era zio Pasquale che voleva salutare mamma.
Tornai nella stanza e rimisi a posto le fotografie
nel cassetto dei ricordi. Dovevo attendere ancora
un'ora, poi avrei sentito Katia e ci saremmo messi
d'accordo per vederci quella sera. Per me sarebbe
stata una rivincita. L'avrei trattata proprio come
se quegli otto anni non fossero mai passati. Le
avrei dato dolcezza e attenzioni, l'avrei fatta
sentire desiderata e vezzeggiata, avrei trovato il
coraggio di dirle che non l'avevo mai dimenticata,
che mi era bastato il suo sorriso per capire che
l'amavo ancora teneramente come al liceo, e che per
amor suo, se lei voleva, sarei partito per l'America
insieme a lei. Avrei fatto di tutto per non perderla
un'altra volta, adesso che l'avevo ritrovata.
Mi chiusi in bagno, mi feci una doccia e cominciai a
radermi. Sapevo già cosa indossare: un bel pantalone
classico ed una camicia mi avrebbero fatto sembrare
più carino ai suoi occhi. E intanto erano le cinque
meno dieci. Ormai da un momento all'altro avrei
sentito la sua voce. Guardavo il telefono, guardavo
l'orologio, guardavo lo specchio e tornavo con gli
occhi al telefono. Ecco le cinque, finalmente!
Pensai che al primo squillo la tensione si sarebbe
sciolta in lacrime calde e singhiozzi. Camminavo
come un forsennato da una stanza all'altra, un
marasma di emozioni contrastanti mi toglieva il
respiro. E intanto il telefono restava muto. E restò
muto anche dopo le sei, e dopo le sette. Mi sentivo
disperato, deluso, incapace. Avrei voluto gridare,
piangere, colpire tutti gli oggetti che mi erano
cari. Ma Katia non aveva chiamato. E non chiamò mai
più. A dire il vero, avrei voluto distruggere anche
il telefono, ma mentre stavo per scaraventarlo a
terra per la rabbia, squillò. Non mi illusi. Era
Claudio. E aveva qualcosa da dirmi che non mi
sarebbe piaciuto.
Ci misi tempo a rispondere al telefono che
squillava. Sapevo che non poteva essere Katia, anzi
ormai non ci speravo affatto. Mi avrebbe addirittura
dato fastidio. Alla fine presi in mano la cornetta
più per non sentirla squillare oltre, che per sapere
effettivamente chi fosse a interrompere il mio stato
di prostrazione. "Pronto?". La voce mi uscì fuori
dalla gola come un grido smorzato di rabbia, quella
che stavo provando a reprimere dalle cinque del
pomeriggio. Era la voce calda e baritonale di
Claudio. Ma sembrava preoccupato e nervoso. "Non
dovevi essere con Katia?". Quelle parole mi
risvegliarono dal torpore. Lui sapeva esattamente
cosa era successo, e perché ero ancora a casa alle
nove di sera. Gli risposi con poche, precise parole.
Katia non aveva chiamato, e ne ignoravo la ragione.
E Marco non era andato al lavoro, e non rispondeva
alle mie chiamate. Claudio abbozzò un rumore sordo,
come di chi si schiarisce la gola, ma non per
richiamare l'attenzione del pubblico, bensì nel
tentativo smorzato di trovare le parole adatte a
sopportare un carico pesante, molto pesante. Non
disse altro. Capii tutto. Era chiaro. Mi sorprendeva
il fatto di non esserci arrivato prima. "E' come
penso io?". Gli chiesi. Un secco e lapidario "Si" fu
la risposta, temuta ma certa. Un terremoto che
distrugge tutte le costruzioni intorno nel raggio di
chilometri e chilometri. Mi domando che senso abbia
ricostruire tutto da capo dove non c'è più niente
che rimanga in piedi, neppure la voglia di vivere.
"Come è andata esattamente? Tu lo sai, dimmelo!".
Quasi glielo ordinai, dimenticando che mi stava
chiamando apposta. Il modo era stato talmente
semplice da risultare addirittura offensivo. Ero
talmente affascinato e perso dall'idea di aver
ritrovato Katia, da non accorgermi che lei di tanto
in tanto lanciava sguardi all'indirizzo del bancone,
dove erano seduti Marco e Claudio. E i suoi occhi si
erano fermati su di lui, e i suoi pensieri pure.
Quando li presentai e mi allontanai per andare in
bagno, ebbero tutto il tempo di guardarsi meglio, di
sorridersi, come sorride chi si è compreso bene. Si
scambiarono i numeri di telefono sotto gli occhi di
Claudio, senza dirsi nient'altro. Lei tornò al
tavolo con i suoi amici prima che io uscissi dal
bagno, e ormai ero già stato iscritto, mio malgrado,
a un gioco dalle regole crudeli. Ma soltanto per me.
Per questo Claudio e Marco non dissero una parola
durante il viaggio di ritorno. Per questo Marco non
volle fermarsi con me a parlare ancora un po'. Si
sentiva in colpa, o forse gli facevo solo pena. La
pena che ti ispirano le persone a cui fai del male.
Salutai Claudio e lo ringraziai. Posai il ricevitore
del telefono con una calma che mi sorprese. Mamma
dalla cucina mi disse che era pronto a tavola. Era
meglio andare. Marco non mi ha mai più cercato, nè
io a lui. Forse qualche volta ha sentito la mia
mancanza. Ti mancano sempre le persone che ti hanno
voluto bene.
Ma sono forte. Sono il più forte di tutti. A due
anni di distanza ho terminato gli studi e
nell'attesa di un lavoro gratificante mi sono
impiegato presso uno studio notarile del paese, dove
ho conosciuto Francesca. Da cinque mesi ogni sera
vado a trovarla a casa sua, e sogniamo di trovarci
una casa e sposarci. Con il suo stipendio di donna
delle pulizie ed il mio di impiegato di terzo
livello possiamo soltanto pregare e sperare in un
futuro migliore, e che arrivi presto. A volte non
sono così sicuro che voglio sposarla. Preferirei
andare ancora in giro con Marco e Claudio e pensare
che fra un paio d'anni tutto sarà diverso. Ma ormai
sono tornato a casa, e meno male: l'inverno quest'anno
è freddo come non mai, e camminare da solo per una
strada buia fa sentire ancora più freddo. Quasi
quasi domani sera non ci vado da Francesca. Mamma
dorme già. Speriamo che si sia ricordata di prendere
le medicine. Mi stendo sul letto e riapro la lettera
di Claudio. Fra due settimane si sposa con Majken.
Ormai parla danese perfettamente, ed il posto in
banca che gli ha trovato il suocero gli permette di
realizzare tutti i suoi sogni. Dice che vorrebbe che
andassi a trovarlo, ma con mamma malata non credo
che potrò arrivare in Danimarca. Ha notizie pure di
Marco. Ha avuto un bambino da Katia. Lo hanno
chiamato Michael. Hanno preso la cittadinanza
americana. Ripiego la lettera e la getto sulla
scrivania. Mi rialzo. Getto un'occhiata fuori dalla
finestra. Il lampione sotto casa mia è sempre mezzo
inclinato. Mi sembra di vederci sotto la 127 verde
di Marco.
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