|
|
Intervista a Enrica Zunic
Ci sono tanti modi per raccontare l’irraccontabile,
per raccontare la tortura. Enrica Zunic ha cercato di farlo...
a cura di Massimo Acciai
...che tu sia per me il coltello (Kafka e le avventure del pensiero)
Narrativa
Poesia italiana
Poesia in lingua
Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici, in una lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza... poesie in lingua esperanto, volapük, ungherese, napoletano
Aforismi
|
|
Narrativa
1
Era alla deriva nel nero. Vagava ormai da ore che forse non erano più neanche ore. Esistevano le ore, là, nel buio stellato? Molto probabilmente no. Chissà che cosa esisteva. Non certo le misere e convenzionali nozioni terrene, non certo le glorie intellettuali a cui era abituato, né i locali con le signore di mezza età in cerca di semiavventure, né i suoi idoli quotidiani. Ormai non doveva restargli molta aria. La cosa peggiore era l’attesa soffocante della morte. In una situazione del genere sarebbe forse stato auspicabile essere in preda alla follia, una follia anestetica che, dolcemente ed inconsapevolmente, sarebbe stata capace di condurlo nel baratro della morte facendoglielo sembrare il paese dei balocchi. Forse. Ma quell’attesa di morte, quel conto alla rovescia scandito da quella specie di ticchettio elettronico, sembrava già tanto folle da impedire alla mente di crollare tra le dolci coltri dell’incoscenza, come se quell’inferno di silenzi avesse già avidamente assorbito tutta la follia esistente nell’universo, o negli universi, o negli universi di universi, e avesse lasciato l’umano miserabile a corto di anestesia. Prego,
proceda con l’anestesia. Mi dispiace, signore, l’anestesia è finita, è finita, finita, fi-ni-ta-ta... Maledizione, maledizione se l’è bevuta tutta l’universo, l’universo, l’universo, l’u-ni-ver-so-so... O forse l’attesa della morte aveva in sé qualcosa di così grande, di così solenne, che era impossibile distrarsi una volta tra le sue braccia.
Non vedeva l’ora che tutto finisse. Tutto? In
quel nero non sembrava proprio esserci niente che potesse minimamente
essere soggetto a finire, a sparire, a svanire, a decomporsi. Niente.
Niente se non lui stesso e la sua carne, ormai da macello, avvolta in
quei tanto declamati materiali speciali, bandiera di un progresso che di fronte
a quell’universo nero pareva un miserabile e microscopico circo di provincia. Gli echi dei respiri sempre più affannati, amplificati dal casco, sembravano trasformarsi in strani dialoghi tra macchine più o meno pensanti, tra orribili e minacciose entità informatiche che tramavano una loro non ben precisata riscossa. L’aria era ormai alla fine. Finalmente.
Il ticchettio si fece più frequente fino a diventare un suono continuo, assordante. "Riserva d’aria in esaurimento. Ripristinare, ripristinare, ripristinare..." si mise a ripetere una suadente voce femminile computerizzata. Bella
scoperta, cretina! Vatti a ripristinare all’inferno!
Fu in quel momento, quando ormai stava per perdere i
sensi, che notò le contrazioni del nero. Era come se quell’infinito, accortosi improvvisamente della tragica ed estrema condizione del miserabile umano, avesse sussultato. L’oscurità si mise a ondeggiare, e quello che fino ad un attimo prima era stato nero sconfinato cominciò apparentemente a restringersi. L’umano, ormai quasi inghiottitito dall’assenza mentale, in un barlume di lucidità ormai di altri mondi pensò che forse il luogo in cui si trovava non era quello in cui credeva di trovarsi. Man mano che quel nero si contraeva, le luci lontane delle stelle scomparivano, una dopo l’altra, come lampadine fulminate da una devastante epidemia elettrica. Soltanto una stella, o semplicemente una luce, o chissà cosa, continuava a rimanere visibile mentre a folle velocità incombeva sull’umano. L’aria era tornata. Miracolo? L’euforia che si impossessò dell’umano fu così grande che questi riuscì, anche se solo per un attimo, a dimenticare tutti gli sconvolgimenti che gli infuriavano intorno. Solo per un attimo. Quando la mente sconvolta riaffiorò alla realtà, in quella luce dai contorni indefiniti, che si faceva sempre più grande, gli parve di intravedere il ghigno di contorti ed ondeggianti lineamenti umanoidi. Anche il nero gli era sempre più addosso. Tutto ormai gli era addosso, inesorabilmente addosso. Istintivamente l’umano cercò di coprirsi il volto ma le braccia si scontrarono con la visiera del casco. Dovette per forza guardare. Sembrava ormai che il nero animato e il lucente volto umanoide stessero per travolgerlo. Ma
perché diavolo mi è tornata l’aria? Un tonfo sordo sembrò accompagnare una violenta e accecante esplosione che inondò il
nero di luce biancastra.
2
Il buio aveva assunto
contorni definiti. Era una gigantesca creatura, in ginocchio. L’intero spazio
che lo circondava si era trasformato in un’unica creatura in ginocchio dal volto
di luce, quella luce che l’umano aveva visto precipitarglisi ed esplodergli
addosso appena pochi istanti prima.
3
Non galleggiava più
nello spazio, non era più alla deriva. Di colpo si era ritrovato, o forse vi era
caduto, su una squallida superficie piastrellata di bianco. Tutto era
piastrellato di bianco. Era come trovarsi in un’immensa sala autoptica formata
da innumerevoli corridoi ad arco che, ben illuminati da centinaia di neon,
davano l’impressione di un universo di labirinti travolto da una soffocata
asetticità mortale. L’umano, benché intontito dal terrore, riuscì inconsciamente
a racimolare dentro di sé una microscopica parte di coscienza che gli
permettesse di rallegrarsi almeno per il fatto di non aver perduto la protezione
dell’involucro della sua tuta spaziale. Ma fu un sollievo effimero, ironico,
immediatamente travolto dalla sgargiante asetticità bianca di quelle terribili
piastrelle.
Lo spazio era ancora
lì, davanti a lui, inginocchiato in mezzo ad un’enorme pozza di liquido azzurro.
Decapitato. La testa giaceva ad un paio di metri dal gigante, lorda del liquido
della pozza, e non aveva più volto. L’umano contemplò tutto ciò come
dall’oltretomba.
"Ti prego, aiutami!"
La voce non sembrava
venire da un punto preciso, dava piuttosto l’impressione di essere un’eco.
"Ti ho salvato perché
tu possa aiutarmi."
L’umano guardava
freneticamente in tutte le direzioni cercando di individuare la fonte di quella
voce e forse sperando di non trovarla, sperando che non esistesse.
"Sono qui! Nella
pozza!"
L’umano fissò
immediatamente la pozza azzurra che circondava il gigantesco corpo inginocchiato
ed immobile dello spazio e la sua testa staccata e notò, tra l’altro, che al
gigante era ora caduta anche una mano, un altro pezzo umanoide andato ad
incrementare quell’umido reliquiario stellare. La mano, anch’essa lorda di
azzurro, sembrava percorsa da leggeri sussulti. L’umano si avvicinò con
circospezione.
"Aiutami!"
Non comprese subito
l’invocazione, il suo cervello dovette farla rimbalzare per qualche secondo da
una parete all’altra prima di poterla riconoscere. Quel suono confuso lo fece
pensare a quando, da bambino, cercava di parlare tenendo la testa sott’acqua.
Proprio mentre la parola veniva pronunciata aveva infatti notato, nel liquido
che circondava immediatamente la mano, un forte gorgoglio blu. L’astronauta,
ormai ridotto ad un pupazzo asettico in un mondo asettico, in un irreale slancio
di coraggio si avvicinò ulteriormente alla mano, che fino a quel momento era
rimasta con il palmo rivolto verso il basso, e con un tocco rapido e furtivo del
piede la rovesciò. Qualcosa, sul palmo imbrattato di azzurro, tremava e si
agitava in sussulti febbrili. Era una bocca, una piccola bocca carnosa.
"Aiutami!" disse la
mano tossendo violentemente e rigurgitando schizzi di azzurro sulla visiera
dell’umano.
"Chi sei?" domandò
l’umano "e come potrei mai aiutarti?"
Il pupazzo asettico
rimase colpito dalla razionalità delle sue stesse parole. Come posso riuscire
a dialogare così, come se niente fosse, con una mano, o una bocca, o una bocca
in una mano o qualunque cosa sia? Non lo so! Non voglio saperlo! Voglio solo
uscire di qui, e non credo proprio di poterlo fare aprendo una porta. Tanto vale
cercare di interagire con l’unico stimolo che mi si presenta e vedere se la
situazione cambia. "Sono l’universo," cominciò la mano "o forse dovrei dire
"ero", visto che la mia fine è ormai prossima se tu non mi aiuterai. Come vedi
mi sto sfaldando, sto cadendo a pezzi, le mie parti si mescolano e si
liquefanno. Sto perdendo la mia eternità, il mio infinito, la mia essenza è
squarciata. Una volta ero io il regolatore del cosmo, dei suoi spazi, delle sue
interazioni. Poi i Khürs furono attaccati."
"Ma cos’è Khürs, e
dov’è? Sulla Terra non è mai giunta voce di nessuna guerra", domandò l’umano.
"Khürs, che in lingua
Qomblu’ significa cervello, è anche il nome del popolo che parla, o meglio, che
pensa questa lingua. I Khürs non sono veri esseri viventi, ma soltanto entità
pensanti il cui mondo è irraggiungibile perché non è compatto, non ha né
superficie né volume ma è diluito in tutto l’universo, in tutto me stesso. Si
tratta certamente del popolo più potente in assoluto, visto che ha la facoltà di
potersi trovare dappertutto e di essere il dappertutto. I Khürs erano
sempre stati il popolo garante della stabilità dell’universo. Grazie alla loro
tendenza ad una totale unità infinitamente distribuita, si erano fin dall’inizio
dei tempi quasi spontaneamente assunti il compito del mantenimento del mio
equilibrio totale. Poi c’è stato il Grande Squarcio asettico ed il mondo mentale
dei Khürs ha cominciato a vacillare e a disgregarsi. Ed io mi sto disgregando
con lui."
"Che cos’è il Grande
Squarcio asettico?", domandò l’umano.
"Il Grande Squarcio
asettico", riprese la mano-bocca sanguinante dell’universo, "è la morte dei
colori che tengono insieme il mondo dei Khürs. A questi colori si sta
gradualmente sostituendo un’asettica luce giallastra, come quella di questi
neon, che ha cominciato a corrodere il potere mentale di questo popolo, la cui
esistenza è vitale per tutto me stesso. Quando la luce asettica avrà totalmente
distrutto i colori mentali di Khürs, allora per me sarà la fine, tutto diventerà
pallidamente accecante, la magia della penombra e dell’oscurità scompariranno
per sempre, i colori non saranno mai esistiti. La vita nell’universo degenererà,
ogni creatura diventerà un miserabile pupazzo asettico, ed eserciti di pupazzi
asettici e di mummie flaccide e biancastre marceranno in tutti i mondi ed
adoreranno la luce dei neon, i disinfettanti, le pianificazioni globali, le
miserie di una mente morta e soggiogata a schiamazzanti limiti comuni per
tutti."
Ora l’umano capiva il
significato di quell’orribile mondo di neon piastrellato di bianco. Tutto
avrebbe assunto quell’aspetto e sarebbe veramente stata la morte.
"Tu puoi
intervenire", disse la bocca ansimante distogliendo l’umano dal martellare
confusionale dei suoi pensieri.
"Il mondo dei Khürs
non ha esistenza oggettiva, non può essere in nessun modo percepito
dall’esterno, esso esiste solo nel cervello di ognuno degli esseri Khürs, che
può liberamente entrarvi e uscirvi. Tu dovrai andare là ed io posso fartici
arrivare."
"Ma... ma che cosa
dovrò fare?", interruppe l’umano allarmato.
"Lo capirai", rispose
la mano, "ora vai, altrimenti sarà troppo tardi."
"No... No... Aspetta
un attimo... Ma dove... Come..."
La bocca non sembrò
ascoltare e riprese, invece, a tossire violentemente, tanto che qualche goccia
di liquido azzurro schizzò di nuovo sulla visiera del casco dell’umano, il quale
reagì con una quasi impercettibile smorfia di disgusto. La tosse si fece più
profonda e cavernosa, come se la bocca stesse cercando di sputare o rigurgitare
qualcosa. E così fu. La bocca grottesca dell’universo morente rigurgitò due
densi, voluminosi ed umidi fasci di nervi, uno da ognuno dei suoi due angoli.
Man mano che i fasci uscivano dalla bocca, i singoli nervi che li componevano
andavano separandosi l’uno dall’altro formando una rosa sempre più ampia.
L’umano si vide così aggredito da un’infinità di terminazioni nervose che,
gocciolando di umori gelatinosi, lentamente si dirigevano verso tutte le parti
del suo corpo asettico avvolto nel bianco della tuta spaziale. Il pupazzo
asettico, terrorizzato da quella minacciosa marcia anatomo-fisiologica, cominciò
ad indietreggiare.
"Non aver paura",
cercò di tranquillizzarlo la bocca che, ormai stracolma di nervi, articolava i
suoni a fatica, "è l’unico modo per farti arrivare in quel mondo. Lasciami fare,
non ti farò del male."
L’umano smise di
indietreggiare, si irrigidì, chiuse gli occhi e lasciò che la bocca-universo
facesse il suo lavoro. In pochi secondi migliaia di terminazioni nervose lo
raggiunsero e gli ricoprirono la quasi totalità del corpo, che ormai non era più
quello di un pupazzo asettico ma quello di un ricostruttore. Forse. I suoni male
articolati della bocca gli giunsero da dietro lo strato biologico che gli
ricopriva la visiera impedendogli di vedere ciò che stava succedendo.
"Ed ora vai!", disse
la bocca ormai in modo quasi incomprensibile.
L’umano sentì i fasci
di nervi che cominciavano a tendersi. Mi stanno ritrascinando verso la bocca.
Le carni della mano cominciarono a schiantarsi sotto la tensione della bocca
che, sofferente, cercava di spalancarsi molto oltre i limiti che le normali
leggi anatomiche le consentivano (ma quale anatomia per l’universo?). Poi uno
strattone violento e l’umano, ormai ridotto ad una semianimata, grottesca e
quasi informe scultura fisiologica, fu ingurgitato.
4
Gli umori che in gran
quantità continuavano a colare dalla tuta avevano formato una sorta di
pozzanghera viscida ai piedi del ricostruttore. Non vedeva niente. La visiera
del casco era totalmente ricoperta da quei liquidi vischiosi che lasciavano
trasparire soltanto uno strano ed inquietante gioco di riflessi indefiniti.
Passandosi a più riprese la mano sulla visiera, l’umano riuscì poco a poco ad
avere una visuale accettabile di quello che gli si trovava intorno. I riflessi
erano molto forti ed in un primo momento fu costretto a distogliere lo sguardo.
Quando gli occhi si furono abituati alla luce, il ricostruttore si rese conto di
trovarsi in una specie di deserto di roccia nera, quasi del tutto immerso nella
penombra. L’origine dei riflessi sembrava piuttosto lontana, oltre l’orizzonte
nero, e la loro intensità riusciva solo in parte ad illuminare quella lugubre
pianura. Si guardò intorno e si rese conto di trovarsi esattamente sul confine
tra la penombra ed il buio totale. Alla sua destra, alla sua sinistra e dietro
di lui, c’era solo il nero.
"Capirai", gli aveva
detto l’universo prostrato dal logorio della fine, ma cosa, e come, avrebbe
dovuto capire? Capire significa forse seguire l’istinto? Se capire
significava seguire l’istinto, e così l’umano aveva deciso, l’istinto (o la
paura?) gli diceva di dirigersi verso la luce. Fin dal suo primo, cauto passo
capì di non essere soggetto ad una forza di gravità diversa da quella della
terra. Per un attimo gli tornarono in mente i vecchi telefilm di fantascienza
che vedeva sempre da ragazzo, nei quali i protagonisti, in qualunque parte
dell’universo mettessero piede, si muovevano sempre come se fossero sulla terra.
Era il momento in cui la magia dell’avventura dei variopinti astronauti che
facevano parte della storia si rompeva, e il telefilm si rivelava per quello che
era: una misera finzione piena di plastica e cartapesta.
Quando lo sfolgorio
gli fu più vicino, il ricostruttore si rese conto che quello che inizialmente
gli era sembrato un deserto di aridità nera, dava in realtà l’impressione di
essere cosparso di oggetti la cui forma appariva però ancora incerta. Erano
centinaia, forse migliaia, disseminati su tutta la superficie visibile. E chissà
quanti altri oltre il buio. Alcuni di loro sembravano tremare, agitarsi,
sussultare. L’umano pensò che quei movimenti fossero in realtà un’illusione
ottica prodotta da quel continuo carosello di riflessi che gli balenavano
davanti. Qualcosa gli sfiorò la gamba appena sotto il ginocchio. A causa
dell’ingombro della tuta e del casco, l’umano dovette fare un passo indietro per
poter vedere chiaramente il punto esatto in cui la sua gamba si trovava nel
momento in cui aveva percepito quella strana sensazione. Si accorse allora che,
proprio mentre cercava di distinguere a distanza la forma di qualcuno di quegli
oggetti che costellavano il suolo, senza accorgersene ne aveva quasi calpestato
uno. Era un qualcosa che non assomigliava a niente di familiare, che non
richiamava alla mente niente di già visto. Per poterlo osservare bene da vicino
senza volerlo toccare, l’umano, a fatica e con movimenti goffi, si inginnocchiò
e si chinò poi cautamente in avanti. L’oggetto aveva la forma di un triangolo
isoscele con gli angoli stondati. L’altezza misurava più o meno una trentina di
centimetri mentre la base doveva misurarne quasi venti. Base per altezza
diviso due, o qualcosa del genere. Lo spessore di tutto l’oggetto arrivava
forse a dieci centimetri e la sua consistenza appariva (l’umano non si azzardò a
toccarlo) piuttosto molle, pressappoco come quella di un fegato. Il colore era
un azzurro intenso con striature fuxia ai margini. L’umano provò una strana
sensazione, un misto di terrore, nausea e compassione, nel momento in cui quella
cosa parve essere scossa da una scarica di forti fremiti. Tremava, ma non era un
tremito continuo. Brevi crisi si alternavano ad altrettanto brevi momenti di
quiete, come se l’essere venisse di tanto in tanto scosso da un brivido violento
che riscatenasse i suoi sconvolgimenti interni. Quella massa azzurra era in fin
di vita, se mai ne avesse avuta una, e in merito a quest’ultimo fatto l’umano
non aveva, stranamente, nessun dubbio. Come, del resto, era anche sicuro di
trovarsi di fronte ad un qualcosa che avrebbe finalmente dovuto chiarirgli quali
fossero i compiti che l’universo gli aveva così vagamente affidato. Ma come? In
qualche modo avrebbe pur dovuto comunicare con quella cosa, comunicare o
qualcosa di simile. Almeno. Messo in agitazione da questo pensiero, si mise a
scrutare quel triangolo variopinto con grande attenzione, cercando di scoprire
neanche lui sapeva cosa.
5
La scarica era stata
forte. L’umano aveva lanciato un grido che era paurosamente rimbombato nel
plastico e rotondo mondo del suo casco e si era improvvisamente ritrovato
disteso su quel suolo al limite di tutto. La cosa, con un piccolo ma fulmineo
balzo, gli si era attaccata alla parte anteriore della coscia destra e non
sembrava per nulla intenzionata a distaccarsene.
"E’ l’unico modo per
comunicare. Non temere, ti abituerai in fretta alle scariche." E nel momento in
cui gli parve di udire queste parole l’umano fu attravesato da una seconda,
violentissima scarica elettrica che lo fece di nuovo sussultare.
"Chi sei?", disse
l’umano.
" Sono i Khürs."
La scarica elettrica fu questa volta molto meno intensa. "Non importa che tu
pronunci le tue frasi, basta che tu le pensi. La comunicazione avviene per mezzo
di impulsi elettrici che attraversano il tuo sistema nervoso, al quale ci
siamo direttamente collegati. Quello che noi ti diciamo e che tu
percepisci come elementi appartenenti alla tua lingua sono in realtà semplici
impulsi concettuali che il tuo cervello trasforma e riordina secondo le
regole di un codice a te comprensibile.
Tu sei qui, nel
nostro mondo concretamente inesistente, nella nostra mente, per
ristabilire, per ricostruire, tu sei il ricostruttore. Il nostro
sistema di interazione che tiene insieme l’universo doveva essere così perfetto
che l’eventualità di imperfezioni o di disfunzioni non era mai stata
contemplata, non era mai esistita. Ma non è andata così. L’imperfezione si è
verificata e noi non siamo in grado di intervenire in qualcosa che non
dovrebbe esistere, qualcosa come il Grande Squarcio asettico. Siamo dei
perfetti che rischiano la normalizzazione asettica dell’universo a causa
di una minuscola imperfezione. I nostri colori mentali stanno
scomparendo, inghiottiti dal mondo giallastro. Per questo abbiamo bisogno
di un umano, di un miserabile ed imperfetto umano. Gli umani sono gli imperfetti
per eccellenza ed hanno perciò imparato ad intervenire per rimediare alle loro
imperfezioni. L’imperfezione che ha fatto sì che tu venissi fiondato nello
spazio per un piccolo errore tecnico, questo è ciò di cui abbiamo
bisogno."
"Ma che cosa devo
fare?", disse, ansi, pensò l’umano.
"Dovrai calarti nello
Squarcio. Fai in fretta, o morirai con noi."
Il Khürs era ricaduto
a terra capovolto, la parte inferiore rivolta verso l’alto, e i tre angoli
stondati si agitavano in un pietoso e vano tentativo di riportare la creaturina
azzurra nella giusta posizione. L’umano pensò ancora una volta ad un programma
televisivo che aveva visto anni prima, un documentario sulle testuggini. I
cacciatori le tiravano in secco e poi, prima di allontanarsi per andare a
cercare qualcosa per trasportarle, le capovolgevano per impedire loro di tornare
in acqua. Gli animali restavano così capovolti ad agonizzare sulla spiaggia, in
attesa del ritorno dei loro carnefici, agitando convulsamente le loro quattro
piccole pinne, ormai tristemente simili a quattro grotteschi moncherini in preda
allo sgomento. Si stupì di aver potuto pensare alle testuggini in una situazione
simile. La mente ha bisogno di "staccare" ogni tanto, che lo si voglia o no:
telefilm di fantascienza, testuggini...
A fatica si rimise in
ginocchio. Con cautela e con entrambe le mani, raccolse quell’essere azzurro in
fin di vita, lo girò e, delicatamente, lo ridepose a terra, quasi con tenerezza,
nella posizione in cui lo aveva trovato ed in cui si trovavano anche tutti gli
altri triangoli. Sulla convessa superficie azzurra comparve, per un attimo, un
baluginio indefinito di figure fuxia e l’umano, miserabile e pieno di difetti,
accennò un sorriso a quell’estremo e drammatico gesto di riconoscenza.
6
La temperatura
sembrava essersi notevolmente alzata. Lo Squarcio era ormai molto vicino. Il
ricostruttore si sentiva sempre più immerso in quella follia accecante che lo
stava strappando da un mondo governato dal delirio per proiettarlo in un oceano
urlante e palpitante di schizofrenia cieca.
Il baratro giallastro
sembrava sputare fuori la sua luce putrida ma, prima che questa venisse
proiettata verso l’alto, solo a pochi metri dal suolo, si espandeva per poi
ricadere occupando una superficie più grande di quella da cui era appena uscita.
Ogni volta che l’onda di luce ricadeva si mangiava una parte di suolo e l’umano
capì che era in quel modo che l’universo sarebbe stato ingoiato. Quel giallastro
accecante si vomitava e tornava ad ingoiarsi, si trasformava in vomito ed il
vomito si rimangiava il proprio vomito. All’interno di quel marciume
sfolgorante, di tanto in tanto balenavano strani brandelli multicolori che, nel
momento in cui il giallastro si espandeva, cominciavano a sbriciolarsi fino a
dissolversi completamente. Ma i brandelli colorati non erano i soli a
volteggiare nel turbinio dello Squarcio. C’erano anche delle strane sfere nere
che, nello stesso momento in cui i colori si disfacevano, scoppiavano con un
colpo sordo e soffocato trasformandosi in una specie di sciroppo, anch’esso
luridamente giallognolo, che colava e scompariva nel baratro. Catarro nel
vomito.
7
Tutto era scomparso.
Il buio, il suolo disseminato di triangoli azzurri agonizzanti, tutto svanito
oltre la muraglia biancastra. Il ricostruttore si trovava ormai sull’orlo del
baratro, immerso nel delirio asettico color neon, alle porte della fucina dei
pupazzi asettici. Era una sensazione insopportabile, maledettamente
insopportabile. Sentiva la mente sfuggirgli, inquadrarsi nell’asettico. L’odore
di disinfettante lo nauseava e gli ricordava insistentemente il labirinto di
piastrelle bianche e neon in cui aveva incontrato l’universo morente. Fu un
attimo. L’ondata di vomito giallastro lo colpì in pieno e gli mangiò il terreno
sotto i piedi. Il ricostruttore-pupazzo asettico, eletto dall’universo per le
sue miserie, precipitò nel pallore ghignante dell’abisso.
8
La luce sporca gli
sfrecciava intorno a velocità vertiginosa e le sfere nere gli esplodevano sulla
visiera del casco inondandola ed oscurandola con il loro contenuto vischioso. In
quella pioggia nauseante l’umano pensò se davvero sarebbe riuscito a capire
quello che doveva fare, come gli aveva detto il triangolo azzurro.
D’un tratto la sua
caduta terminò, se ne accorse non tanto per una variazione della velocità del
turbinio luminoso che aveva intorno, rimasta ai suoi occhi inalterata, quanto
per il fatto che sotto i piedi sentiva di nuovo un punto di appoggio. Dato che
intorno a lui non sembrava essere cambiato niente, cercò di guardare in basso
per vedere che cosa avesse interrotto la sua caduta. Una superficie multicolore
dalla forma e dai contorni indefiniti lo sosteneva al di sopra dell’abisso
vorace. Osservando meglio, l’umano si rese conto che quell’inusuale rete da
acrobati era formata da una grande quantità di quei brandelli multicolori che
aveva visto disintegrarsi nei getti di luce prima di scivolare nell’abisso.
Riassociò quello che gli era stato detto dall’universo in merito alla morte dei
colori mentali dei Khürs. Sì, i brandelli colorati erano ciò che restava di quei
colori mentali morenti e quel piedistallo dall’aria carnevalesca che questi
avevano faticosamente messo insieme doveva servire a tutelare, per quanto
possibile, l’incolumità di colui che avrebbe dovuto salvarli dal quel marciume
biancastro. L’umano si sentì finalmente più sollevato: finalmente aveva trovato
qualcuno, o qualcosa, che lo avrebbe, forse, guidato in quell’impresa. D’un
tratto, dalla superficie colorata, uno dei numerosi brandelli verdi cominciò a
contrarsi e ad allungarsi come se volesse preparasi ad uno slancio. E lo slancio
ci fu. Il brandello verde riuscì a saltare fino alla visiera del casco del
ricostruttore e vi si attaccò in modo da lasciare comunque libera la visuale del
suo nuovo ospite.
"Mi chiamo Redz. Tu
non hai scelto me, io non ho scelto te. Tu non saresti dovuto precipitare qui,
ti sei avvicinato troppo all’orlo dell’abisso. Hai fatto un errore e l’errore ci
ha uniti nella battaglia per la nostra sopravvivenza. Ricordi? Saranno i tuoi
errori a salvare l’universo."
9
Di Redz l’umano
sapeva già moltissime cose. Non sapeva come, ma le sapeva. Certo, i telefilm
di fantascienza, le testuggini, tutto chiaro! Redz era l’essenza verde
dell’universo, colui al quale, nella distribuzione dei ruoli di equilibrio
universale dei Khürs, era stato assegnato il compito di tutelare ed armonizzare
la pace, le emozioni, i sentimenti, la poesia, l’arte e tutto ciò che aveva a
che fare con le essenze creative del cosmo. Era il poeta la cui poesia
dipingeva e vivificava gli atti della necessità quotidiana, il creatore delle
pulsioni artistiche, il comandante dei vascelli di fuga dalla geometria
ripetitiva della morte. L’umano pensò alla Terra e a come Redz vi si
manifestava. Pensò ai boschi splendenti di verde, alla natura rigogliosa, agli
artisti. Pensò ai poeti ed al loro riedificarsi nella malinconia e pensò che
tutto ciò era verde, verde vita, verde pace, verde arte, verde riposo, verde
splendore, verde profumo, verde oceano, verde creazione. Anche il silenzio
stellare era verde, quel silenzio che tanto lo opprimeva mentre, alla deriva
nello spazio, aspettava la morte. Sì, la morte, perfino lei è verde.
10
Vagavano nel marciume
luminoso. L’umano non si domandava dove stessero andando (era forse possibile
"andare"?), aveva l’impressione che Redz e gli altri colori sapessero il fatto
loro. Si sentiva smarrito ma non se ne preoccupava: lo stavano trasportando. In
piedi sullo scudo di colori come Abraracourcix, il capo della tribù di Asterix.
"Ecco il nucleo dello
squarcio, è là che dobbiamo arrivare" comunicò Redz.
Dapprima, a causa dei
riflessi fortissimi che gli causava la visiera, l’umano non riuscì a distinguere
niente. Solo dopo qualche minuto cominciò ad intravedere una grande massa
grigiastra di forma romboidale che sembrava galleggiare in quel marciume
accecante.
"Non sarà facile
arrivare all’interno del nucleo, l’entrata è sorvegliata da un esercito di Glar,
i sentenziatori asettici del putridume. Non attaccano fisicamente, ma le loro
sentenze ti bloccherebbero il sistema nervoso, tu ti trasformeresti in un blocco
vivo di carne morta e noi e l’universo saremmo finiti per sempre. Cercherò di
interrompere le tue facoltà uditive per impedirti di udire le sentenze, ma sarà
per me uno sforzo enorme che, date le condizioni in cui mi trovo, non so se sarò
in grado di sostenere a lungo. Te la senti di provarci?"
"Senti, Redz, o come
cavolo ti chiami", disse l’umano senza pensare che sarebbe stato sufficiente
pensarlo, "dove diavolo hai imparato a fare domande così intelligenti, sensate e
opportune? Forse dai film americani? Ti sembra che possa esistere una
possibilità di scelta? Forza, facciamo quello che dobbiamo fare e togliamoci di
qui!"
Si avvicinarono
ancora al rombo, ormai ben distinguibile anche se continuamente agitato da
quella bufera biancastra. Il ricostruttore scrutò attentamente il suo obiettivo
e per un attimo si dimenticò anche di Redz e dello scudo di Abraracourcix che lo
scarrozzava qua e là. Individuò una potenziale entrata nel rombo, certo non
concepito come eventuale meta turistica per gli umani. I due estremi aguzzi di
quella roccaforte romboidale avevano un foro da cui sembravano entrare ed uscire
i flussi della tempesta in un intercambio continuo di marciume biancastro.
Sarebbe stato necessario lasciarsi risucchiare dentro, ma poi?
"Il poi non esiste in
questa schifosa dimensione," rispose Redz ai suoi pensieri "tutto ciò vive ed
agisce in una totale assenza di... come lo chiamate sulla Terra? Futuro? L’asetticità
non ha futuro perché questo si annulla nella ripetitività incessante del
presente che, essendo sempre esattamente lo stesso, rende totalmente obsoleta la
potenzialità di un futuro. Un futuro implica un’evoluzione, un cambiamento o
quanto meno una tendenza a questi. Ma non qui. Qui tutto è morto di indolente ed
ignorante ripetizione."
"Ti formulerò la
domanda in un altro modo" disse allora l’umano. "Quale sarà l’azione successiva
a quella di farsi risucchire nel nucleo?"
"Dovrai estinguere la
luminescenza del marciume asettico, ma non chiedermi come."
11
Aveva ormai smesso di
comunicare con Redz. Tutto il suo essere era concentrato su quella terrificante
apertura da cui doveva lasciarsi risucchiare, l’umano era ormai
l’apertura. Poche decine di metri lo separavano dalla bocca vorace e feroce
dell’inferno biancastro mangiacolori. Abraracourcix, volteggiando, andava
solennemente a farsi ingoiare e, certo, l’impresa sembrava essere molto più
ardua delle sue normali scorrerie al di fuori del suo piccolo villaggio, quando
andava a prendere a schiaffi i romani.
Cercò di calcolare a
occhio le misure dell’apertura per non essere costretto a ripetere due volte il
tentativo di entrarvi. Chissà se avrebbe avuto il coraggio di provare una
secondo volta. Magari avrebbe preferito buttarsi giù dallo scudo e dissolversi
per sempre in quell’oceano giallo.
12
I Glar si erano
accorti dell’arrivo degli intrusi e si erano immediatamente radunati nei pressi
dell’apertura del rombo. Il loro aspetto ricordava quello dei ricci marini.
Dovevano avere più o meno le dimensioni di un essere umano, il loro colore
biancastro, un biancastro viscido attraversato da un fittissimo groviglio di
capillari rossi e pulsanti, e il liquido vischioso che colava dai loro aculei li
rendevano ributtanti oltre che terrificanti. L’umano percepì una fortissima
fitta nei condotti uditivi e capì che Redz aveva messo in atto la sua tattica di
protezione. Vide che quella specie di aculei che ricoprivano la massa delle
creature cominciavano freneticamente ad agitarsi ed a riversare nel biancastro
viscido un’escrezione scura che lentamente cominciò a diffondersi creando,
intorno alla schiera nauseabonda dei Glar, una fluttuante e vischiosa nube di
grigio.
"Ecco," comunicò Redz,
"l’escrezione grigia significa che hanno cominciato a lanciare le sentenze che,
almeno per il momento, posso riuscire a non farti udire. Ma bisogna fare presto,
non potrò resistere a lungo, non possiamo permetterci di ripetere il tentativo
una seconda volta." L’umano si ripeté mentalmente la ultime tre parole della
frase di Redz "...una seconda volta...", "...una seconda volta...", e ripensò
anche a quello a cui aveva pensato pochi istanti prima: avrebbe avuto la voglia
di provare una seconda volta?
Erano sempre più
vicini, la grande nube grigia creata dai Glar li avvolgeva totalmente e
l’apertura del rombo doveva essere ormai a pochi metri: nel biancastro offuscato
dal grigio l’umano ne intravedeva i contorni. Era pronto. "Pronti? Dai, John,
ce la farai, noi ti saremo sempre vicini, sarà dura ma ce la farai! Il tuo paese
non ti dimenticherà!" Scempiaggini da film americani. Ma John non ce la
fece. Non centrò l’apertura. I tuoi errori salveranno l’universo. Quando
si scontrò con violenza contro la superficie solida del rombo, il ricostruttore
(ricostruttore?) non seppe se doveva rallegrarsene, ma certo non decise di
buttarsi nel vuoto. Non lo decise, ma ci cadde ugualmente. Precipitò fuori dalla
nube grigia, precipitò lontano dai Glar e dai loro affannati aculei
sputasentenze. Lo scudo di colori, che fino a quel momento lo aveva sostenuto,
non era infatti riuscito a mantenersi compatto e gli elementi che lo
componevano, anch’essi vivi come Redz, si erano separati e dispersi nelle
correnti del fluido biancastro che li avrebbero trascinati alla distruzione.
L’umano aveva avuto, nel momento della collisione e negli attimi immediatamente
successivi, l’impressione di udire le loro folli grida mentali di terrore. Morte
dei colori. E proprio quelle urla di chissà quale specie di morte, quegli echi
ormai seppelliti in chissà quale oltretomba cosmica, avevano fatto sì che
l’umano dimenticasse di colpo le sue precedenti ed effimere smanie suicide. Non
voleva gridare come i colori, no, non in quel modo. Ma poi era caduto lo stesso.
13
Redz c’era ancora,
sempre al solito posto, attaccato alla visiera del suo casco. Ma c’era anche
qualcos’altro, qualcun’altro. C’era un essere di forma simile ai Glar, ma decine
e decine di volte più grande. A differenza dei Glar, quest’enorme globo di carne
e di flaccidi aculei colanti, presentava un’apertura rotonda del diamentro di
tre o quattro metri, all’interno della quale si intravedeva quello che sembrava
essere un intenso lampeggiare multicolore. In quel momento l’umano si rese conto
che l’effetto anestetico di Redz sulle sue capacità uditive si era ormai
esaurito. Man mano che la massa gli si avvicinava, il ricostruttore udiva sempre
più chiaramente un continuo schioccare intervallato a forti sbuffi, quasi
grugniti. I rumori seguivano il ritmo del lampeggiare multicolore del foro
rotondo, dal quale anch’essi sembravano provenire.
"E’ un Gigante
Massacracolori. Il suo compito è quello di eliminare i colori mentali
sopravvissuti al turbine biancastro. I colori finiscono tutti in un complicato
sistema linfatico, all’interno del quale viene tolta loro ogni potenzialità
creativa, la quale viene poi raccolta in una sorta di grande deposito. Il
Massacracolori fornirà poi la creatività rubata ed immagazzinata al nucleo
centrale, il rombo in cui non siamo riusciti ad entrare, che a sua volta la
utilizzerà per incrementare la produzione del suo luridume e per rafforzare
tutto il sistema asettico che governa."
L’umano aveva nel
frattempo continuato a fissare il Gigante che, sospeso nel fluido biancastro,
avanzava lento e minaccioso. Gli occhi stralunati dal terrore, non aveva neanche
ascoltato la breve spiegazione di Redz.
"Togliamoci di qui,
Redz! Ingoierà anche noi!"
Così dicendo l’umano,
come un sommozzatore in un mare di bostik, prese ad arrancare con braccia e
gambe per cercare di allontanarsi, ma il Gigante era nel suo proprio elemento e
si muoveva molto più agevolmente di lui. Gli schiocchi e gli sbuffi che
provenivano dal foro si erano improvvisamente fatti assordanti e il lampeggiare
multicolore, che a tratti rischiarava quell’enorme grotta flaccida, fece venire
in mente all’umano, anche se solo per un attimo, un tremendo temporale notturno.
Sarebbe stato meglio! Il biancastro scomparve e il ricostruttore udì il
tonfo sommesso del suo corpo che cadeva sul morbido.
14
Il frastuono era
cessato ma l’umano non aveva ancora avuto il coraggio di muoversi. Redz c’era
ancora. Ma che santo sei?
"Non mi ha potuto
prendere", comunicò l’essenza verde dell’universo, "questa maledetta bestiaccia
panciuta non mi ha potuto prendere! Il fatto di essere attaccato al tuo casco mi
ha evitato di finire nel suo sistema di disattivazione. Se fossi stato travolto
sarebbe stata una tragedia, il verde è l’elemento principale della gamma dei
colori mentali dei Khürs, per questo è stato il primo ad essere attaccato dalle
creature asettiche, ed ormai ne è rimasto pochissimo. Una volta esaurito il
verde non ci sarà più possibilità di ripresa."
L’umano osservò Redz,
piccolo brandello verdolino appiccicato al suo casco. Redz non aveva polmoni che
lo facessero ansimare per la tensione, né occhi che permettessero di coglierne
l’angoscia, né membra che potessero mettersi a tremare, ma ciò non impediva
all’umano di percepirne l’esaurirsi, la decadenza. Sì, quel povero e misero
brandello verde, abituato ad essere la linfa vitale dell’universo, stava
morendo, e con lui sarebbe morto tutto il resto.
L’universo si sarebbe
sgonfiato e ripiegato su sé stesso, come una mongolfiera precipitata. Dalla
mongolfiera si sarebbe poi originato un altro mondo, ma questa volta senza i
Khürs e sprattutto senza i loro colori mentali. L’infinito spettro dei colori
mentali dei Khürs sarebbe stato sostituito da metropoli popolate da milioni di
asettiche bare d’acciaio stracolme di grovigli di trasparenti tubi sintetici,
all’interno dei quali sarebbe scorso l’ormai celeberrimo marciume biancastro.
Poi le bare si sarebbero spalancate, ed eserciti di mummie flaccide, giallognole
e senza volto, nutrite e cresciute per mezzo dei tubi sintetici, avrebbero
invaso il nuovo universo di morte. Biancastro, bianco neon, bianco ospedale.
Pensò agli ospedali che gli era capitato di vedere. Dovunque bianco ingiallito,
dovunque quell’acutissimo e nauseante odore di disinfettante che a fatica
cercava di compensare il disagio causato dalle macchie scure sulle pareti
scrostate, dagli orribili vetri opachi montati su porte di metallo coperte da
una sfaticata vernice grigia costellata da una miriade di punti di ruggine. E i
cannelli pieni di liquido baincastro avrebbero preteso di ripulire,
disinfettare, ricostruire per mezzo dei loro automi generati da montagne di
gelatina vischiosa debitamente filtrata nei tubi asettici e quindi plasmata dai
metallici sarcofagi modellatori, a loro volta circondati da una fitta nebbia
gassosa e da sistemi bioconservatori elettronici stracolmi di disinfettante.
"Hai visto la nostra
fine." Lo riscossero le parole di Redz. "Sì, è proprio così che andrà se non ce
la faremo. Ma c’è una cosa su cui ti sbagli, miserabile umano, e anche di
grosso: io non sto assolutamente morendo, non sto morendo, non sto morendo!" A
queste parole l’umano rabbrividì. Il pensiero di Redz aveva tremato.
15
Non era buio come
sarebbe dovuto essere. Eppure quella specie di enorme tubo digerente da cui
erano entrati si era immediatamente richiuso dietro di loro, sigillato da una
spessa membrana carnosa suddivisa in tre grossi lembi di forma triangolare che
non lasciavano filtrare il benché minimo raggio di luce. Come le porte
meccaniche delle stazioni orbitanti dei film di fantascienza. Ma non era
buio come sarebbe dovuto essere. Una luce azzurrognola, anche se molto fievole,
rischiarava quell’enorme antro animalesco quanto bastava per potervi almeno
distinguere i contorni delle cose. L’umano era immerso fino all’inguine in una
massa gelatinosa di cui però non riusciva a distingure il colore. Quella luce
azzurrognola gli piaceva. Per un attimo si rallegrò di non essere più là fuori,
in quel putridume giallo, ma poi pensò che forse si era trasformato nella
dimostrazione vivente della validità del proverbio "dalla padella nella brace".
Ma no. Quella luce azzurra gli piaceva, ed era anche fonte della prima
sensazione veramente positiva che aveva provato dall’inizio della sua avventura.
Era come se quell’azzurro gli permeasse tutto il corpo e lo ripulisse, almeno in
parte, da tutte le angherie dello Squarcio Asettico. Aveva l’impressione di
volteggiare in una bolla di sapone azzurro che lo stesse proteggendo da quell’enorme
ventre viscido in cui si trovava. Il suo spirito si era sdraiato sull’oceano, su
un letto galleggiante di fresche foglie verdi, su un letto fresco tra mare e
cielo.
"E’ la forza della
creatività."
"Cosa?" L’umano fu
ancora una volta richiamato all’ordine dalla creaturina verde.
"L’azzurro. La pace e
la serenità che stai provando."
"Creatività nel
ventre di questo spazzino assassino? Com’è possibile?"
"Questo spazzino è
stracolmo di brandelli colorati in stato di semincoscienza."
"Come, non sono
morti, distrutti?"
"No. Lo Squarcio ha
bisogno di loro per potersi evolvere. Il Massacracolori ha solo il compito di
raccogliere i brandelli che poi dovrà immettere nel nucleo, ma può solo
disattivarli, non ucciderli. Una volta nel nucleo, invece, i colori dei
brandelli saranno definitivamente assorbiti e la loro energia creativa snaturata
e convertita in riserva di alimentazione per le centinaia di migliaia di
gelatinose mummie bianche racchiuse nei sarcofagi d’acciaio che hai percepito
poco fa."
"Ora capisco il
perché di tutti quei cannelli."
"In realtà esistono
due sistemi di cannelli. Il primo, che non comunica con l’esterno della bara, ha
il compito di aspirare e rigurgitare, in un ciclo continuo, la materia
gelatinosa al fine di modellarla e di darle consistenza, mentre il secondo, che
invece mette in comunicazione il sarcofago con il sistema di alimentazione
esterno, ha il compito di nutrire le creature in fase di formazione."
"Dobbiamo fermare
tutto questo!" riprese bruscamente l’umano.
"Noi non possiamo
fermare proprio niente, ne sono sempre più convinto. Se c’è qualcuno che può
farlo è solo la creatività. L’unica cosa che possiamo fare è aiutare la
creatività a risvegliarsi. Guardati intorno, sei immerso fino all’inguine in
centinaia di migliaia di brandelli colorati il cui potenziale potrebbe essere
enorme. La luce azzurra che emettono testimonia che in loro c’è ancora un alito
di vita e la sensazione di serenità che hai provato prima e che forse stai
ancora provando è dovuta ai barlumi di creatività che i brandelli riescono
ancora ad emettere. Come ti avevo accennato prima, la loro creatività è
definitivamente annullata solo nel momento in cui vengono trasmessi al nucleo.
Finché si trovano nel Massacracolori sono soltanto disattivati, come drogati,
per usare un termine che più si confà a voi terrestri. E’ vero che la
potenzialità creativa di un singolo brandello colorato come me non potrebbe mai
aggredire il sistema asettico. Ma è anche vero che, se solo potessimo riattivare
la grande quantità di brandelli che sono qui dentro, forse potremmo avere
qualche speranza di riuscire a contrattaccare lo Squarcio."
"Guarda!" quasi lo
interruppe l’umano, indicando la parte opposta della piccola palude in cui era
immerso. Un fievole barlume di verde risaltava sulla superficie grigiastra.
"Un altro residuo
verde! Un altro che è sfuggito al sistema di disattivazione!" Dalle parole di
Redz sembrava trasparire un nuovo vigore. "Ti rendi conto della sua importanza?"
L’umano tacque.
"Posso fondermi con
lui ed acquistare energia creativa. Posso salvarmi e forse anche tentare di
riattivare l’energia di tutti gli altri brandelli. Portami più vicino."
L’umano, senza dire
niente, si diresse verso la parte opposta della palude di brandelli e si fermò a
pochi centimetri dal riflesso verde. Per qualche istante non ci furono
comunicazioni tra Redz e l’umano ma solo immobilità e silenzio. Poi Redz
cominciò ad agitarsi ed a contrarsi spasmodicamente. La sua parte inferiore
cominciò lentamente ad allungarsi verso il basso divenendo sempre più sottile,
un filamento verde fluorescente che si affannava per raggiungere la superficie
grigiastra. Quando finalmente la raggiunse, la punta del filamento verde si
scompose in quattro parti a loro volta ramificate che all’umano fecero
immediatamente ripensare ai nervi rigurgitati dalla bocca che lo aveva condotto
nel mondo dei Khürs. I quattro filamenti ramificati calarono, con grande
cautela, sull’altro frammento vivo, parzialmente coperto da altri brandelli dal
colore indistinguibile e, cercando di non toccare i residui disattivati,
arrivarono alla superficie verde, con la quale le punte ramificate si fusero
immediatamente. Il filamento principale ricominciò ad accorciarsi ed a sollevare
il frammento ripescato riavvicinandolo al corpo di Redz. La fusione tra i due
brandelli fu istantanea e Redz raddoppiò le sue dimensioni.
La visiera del casco
dell’umano era ora oscurata per più di metà.
"Sono pronto!" disse
Redz, "Ora ho abbastanza energia per poter fare un tentativo." Cominciò
gradualmente a distaccarsi dal casco.
"Aspetta..." disse
l’umano allarmato da tanta decisione, "ma io che devo..." Ma Redz si era già
tuffato nella palude, in mezzo ai suoi compagni inerti.
Non lo vedeva già da
alcuni minuti, né riusciva a percepirne segnali. Ha bisogno di tutta
l’energia possibile.
"Sto cercando di
trasmettere energia creativa a tutti i frammenti inerti, ma è più dura di quanto
pensassi. Se continuo così finirò col disperdere tutta l’energia senza ottenere
risultati. Sono veramente troppi, devo assolutamente trovare un altro modo."
Redz era davanti a lui, sulla superficie della palude, il suo verde fluorescente
meno intenso di quando si era tuffato. Rimase visibile per alcuni istanti e poi
riscomparve. L’umano pensò che ormai era finita. Redz sarebbe morto. Ripensò
alle bare d’acciaio, ai cannelli e alle asettiche mummie gelatinose ed anche,
miseramente, ai cari idoli che avrebbe perduto.
Questa volta erano in
tre, e Redz aveva riacquistato la sgargiante fluorescenza che lo aveva
caratterizzato dopo la fusione con l’altro brandello verde. Era riaffiorato
insieme ad altri tre frammenti di colori mentali, uno azzurro, uno fuxia e uno
arancio.
"Invece di sprecare
l’energia cercando di riattivare tutti i frammenti da solo, ho preferito
concentrarmi soltanto su tre di loro. In questo modo ora siamo in quattro a fare
il lavoro. Ognuno di noi riattiverà ora altrettanti frammenti che a loro volta
ne riattiveranno altri ancora e più saremo più ci riforniremo a vicenda di
energia.
16
L’altissima volta del
ventre del Massacracolori era ormai quasi totalmente rischiarata dal baluginio
multicolore dei brandelli riattivati che andavano moltiplicandosi. L’umano
osservò quegli esseri tanto piccoli immergersi, riemergere, sguazzare, saltare,
precipitarsi ad aiutare i frammenti ancora deboli. Tutto questo avveniva nel più
assoluto silenzio, condizione che certo contrastava con quella carnevalata di
lanci, tuffi, capriole, scontri. In quella festa di colori l’umano sentì che
stava cominciando a rilassarsi. Rilassamento motivato da un obiettivo
miglioramento della situazione o da una semplice e spontanea rivolta
psico-fisiologica contro la continua tensione?
"Abbiamo finito,
siamo tutti riattivati!" Come gli era già successo più di una volta, la voce di
Redz lo riscosse dalla produzione più o meno intensa di pensieri più o meno
negativi.
"E ora?" L’umano
pronunciò questa parola come se stesse rispondendo ad un barista che gli avesse
appena comunicato di aver terminato la cedrata e che comunque era ormai ora di
chiusura.
"E ora manca l’idea
che possa scatenare lo slancio di creatività capace di aggredire il nucleo dello
Squarcio e tutto il suo sistema biancastro. E questo slancio deve essere tuo.
Noi non siamo abbastanza numerosi per poter creare un mondo che possa
distruggere e sostituire questo marasma schifoso, e poi non abbiamo abbastanza
forza, non in questo momento. Ciò che possiamo fare è solo potenziare ed
amplificare quello che tu sarai capace di creare. Aiuteremo la tua
creazione a realizzarsi e ad affermarsi come realtà positiva dalla quale poi
tutto potrà essere riorganizzato, o meglio, salvato. Questa volta tocca a te,
terrestre, elabora una grande idea, concentrati su un grande sogno, una grande
fuga, un impero della fantasia, sii una poesia, sii un romanzo, sii un poema,
sii un dramma romantico, sii l’arte, sii la creazione, trasformati in creazione
artistica, mangiala, bevila, iniettatela sottopelle, sii un nuovo mondo, crea,
crea, salvaci..."
La scossa violenta
scaraventò l’umano quasi dalla parte opposta della palude gastrica ed interruppe
la comunicazione di Redz. Per un attimo scomparve sotto il livello dei flutti
neri provocati dalla scossa e certo il casco gli evitò di ingoiare una gran
boccata di quei succhi acidi di altri mondi. Quando riemerse vide che quei
liquidi torbidi si agitavano come l’acqua in un secchio trasportato di corsa
attraverso un campo arato. Come diavolo mi è venuto in mente un paragone del
genere? Notò come i tre grandi lembi di carne della valvola attraverso la
quale lui e Redz erano precedentemente entrati cominciassero a fremere,
lasciando filtrare, a brevi intervalli, l’ormai familiare colore biancastro
dell’ambiente esterno. Redz, schiacciato con i suoi compagni contro la parete
opposta all’apertura minacciosa, ricominciò a comunicare ma l’umano, che con
terrore fissava la valvola con i suoi tre triangoli frementi, aveva già capito.
Ma non aveva capito tutto. Sì, aveva capito che il Massacracolori era arrivato
al nucleo romboidale e che stava per rigurgitarvi dentro tutto il contenuto del
suo lurido ventre. L’umano pensò che sarebbe stato trasformato in nutrimento
semiliquido per quelle flaccide e umide mummie biancastre che, più o meno
indirettamente, aveva già più volte incontrato. Quello che non aveva capito, o
meglio, quello che forse aveva dimenticato erano le disposizioni che gli aveva
dato Redz pochi attimi prima. Sì, forse sentiva qualcosa che bussava alle porte
sprangate del suo cervello quasi cementato dal terrore, qualcosa che cercava di
insinuarsi attraverso le serrature e i grimaldelli ormai attaccati dalla ruggine
di un’angosciosa assenza. "...ea..." Che diavolo è? "...rea..." Dicono
a me? "Creaaaaaa, bastardo terrestre, creaaaa..." Sì, dannazione, dicono
proprio a me. I tre triangoli carnosi si spalancarano di colpo e tutto il
contenuto gastrico, l’umano, Redz e i suoi compagni, fu travolto da un a sorta
di appiccicosa tromba d’aria. L’umano, allora, creò.
17
Volle essere un
poeta, un poeta del futuro. E fuggì nel futuro. Pensò a un maniero di vetro ed
acciaio circondato da sconfinate foreste vergini, su un pianeta lontano.
Lavorava giorno e notte ad interminabili poemi che cantavano il futuro. Sì,
aveva sentito che, in altri mondi e migliaia di anni prima, l’arte cantava le
grandi imprese del passato e ci aveva provato anche lui all’inizio della sua
carriera, così, per vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Ma non aveva
funzionato, Dham Ghekdlo’ voleva il futuro, era ossessionato dal futuro, dalla
sua tecnologia, dalle sue imprese interplanetarie. I suoi versi indugiavano
sempre sugli spazi siderali, sul cosmo, sui colori delle stelle, su epiche
fantasie di pianeti sconosciuti, sulle scie di fantastici velivoli argentei.
18
Per l’umano non era
facile mantenere il ruolo di Dham. Sì, gli piaceva molto ed era anche stupito
della rapidità con cui lo aveva creato, ma quella schifosa tromba d’aria gli
impediva di concentrarsi sulla sua creazione. Redz e gli altri erano per il
momento riusciti ad attaccarsi alla parete superiore del grande stomaco per
risentire il meno possibile degli effetti dell’aria (ma c’era forse aria?)
turbinante ed un forte sgolgorio intermittente di ognuno di loro lasciava
intendere che stavano raccogliendo e organizzando le loro forze.
19
Conosceva bene la
leggenda delle foreste meccaniche, l’aveva spesso cantata nei suoi poemi ed
aveva anche sognato e desiderato ardentemente il suo realizzarsi. In fondo era
un poeta, che c’era di strano che sperasse nella realizzazione di una leggenda?
Un poeta può farlo, un poeta può permettersi di sperare tutto, di cantare tutto,
di credere in tutto, di voler rinascere in tutto. Certo, può permetterselo, ma
può permettersi anche il contrario. Ma quest’ultimo non era il caso di Dham. Lui
era per tutto.
Nuoto in un oceano
di spicchi di pianeti
verdi
e mi ricostruisco
l’anima e il corpo
con frammenti argentei
di foreste stellari.
Aveva voglia di
foreste, tutte quelle che aveva intorno al suo palazzo non gli bastavano.
Guardarle, respirarle, viverci in mezzo non era sufficiente: la contemplazione è
separazione. Dham era stanco di contemplare, voleva essere parte di quelle
foreste, impastarsi con loro, farsele crescere dentro, superare i confini
impostigli dal suo corpo sfrecciando e scivolando da una foglia all’altra,
fondersi con le linfe verdi...
Dall’alto scenderanno
le foreste meccaniche,
tremerà la terra al loro avanzare,
eserciti di foreste
riedificatrici della fusione
verde;
il metallo maeccanico non sarà metallo
ma legno impastato
di grida e bramosie verdi
da pianeti-cervello-
anima cosmica.
Dham conosceva a memoria i versi della Leggenda delle Foreste Meccaniche. Molte volte, durante le sue giornate di lavoro, gli tornavano in mente, quasi a costellare la sua interminabile e infaticabile ginnastica poetica.
20
Forse Redz aveva
ragione a proposito dell’importanza del creare. Il risucchio, nello stomaco del
Massacracolori, sembrava aver perso di intensità. L’umano notò che Redz e i suoi
compagni multicolori stavano ricominciando a discendere dall’enorme volta della
parete superiore dello stomaco dell’essere, dove si erano rifugiati per
risentire di meno del turbinio che si sprigionava dalla carnosa valvola
circolare aperta. Qundo furono a mezz’aria, Redz smise di lampeggiare, e quello
fu il segnale. L’eroica squadra di brandelli colorati si dispose allora in
cerchio ed il cerchio cominciò a girare. Girò sempre più veloce, finché la
differenza tra i colori dei diversi brandelli che lo componevano sembrò essersi
annullata. Sì, il cerchio di brandelli si trasformò in un anello verde
fluorescente. Verde, il colore dei colori, il colore di Redz, il colore della
creatività. L’anello cominciò a volteggiare in tutti i sensi fino a che,
avvicinatosi all’umano, gli scomparve sotto la tuta, come se ne venisse
lentamente assorbito. Si erano fusi insieme.
Una strana luce
sembrava fendere, seppur debolmente, quell’enorme risacca bestiale. Non era la
luce che veniva dalla valvola spalancata, l’umano ebbe piuttosto l’impressione
che stesse filtrando attraverso le pareti dello stomaco del Massacracolori, come
se queste stessero perdendo di consistenza, come se si stessero assottigliando.
21
La parte della Leggenda che Dham amava di più era la descrizione della scelta dell’eletto che avrebbe dovuto condurre l’esercito di foreste meccaniche verso la fusione con le foreste naturali, fusione che avrebbe dato la facoltà, a chiunque lo avesse voluto ed avesse avuto la sensibilità per meritare un tale privilegio, di potersi dissolvere nella linfa vitale di quelle enormi querce, di viaggiare attraverso le loro foglie, di nutrirsi fisicamente della loro essenza e di rinascere continuamente in essa.
Quando l’esercito celeste delle foreste
sarà appieno giunto ai confini del nostro verde,
allora dalle foglie meccaniche
si innalzerà una tempesta di esseri azzurri
che adorneranno i cieli e li renderanno
drappi preziosi di poesia universale;
intoneranno poi l’inno
vivificatore delle foglie,
in cerchio danzeranno
intorno al verde,
ed un’euforia di altri mondi
trasuderà dai loro riti.
Ma soltanto uno di noi
godrà delle sfarzose feste,
soltanto uno ne udrà il richiamo,
soltanto uno comprenderà
le litanie festose dei reggenti del cosmo
e i loro multicolori canti propiziatori.
Colui che udrà sarà l’eletto,
colui che vedrà guiderà la rinascita.
Condurre le foreste meccaniche verso la loro meta, filtrare e diluire il pianeta nelle loro linfe. Dham si vedeva alla testa di quell’esercito, vedeva gli esseri azzurri, sentinelle ultracosmiche, fluttuare, inquieti ed euforici, su quell’immensa distesa verde marciante nel verde, vedeva l’armata delle foreste che si era messa ai suoi ordini e vedeva sé stesso, potente condottiero mille volte rinato, unico detentore di una leggenda realizzata, unico padrone della salvezza.
22
L’umano pensò che, in
fondo, la storia di Dham aveva qualcosa in comune con la missione che egli
stesso doveva compiere. Certo, Dham non stava rischiando quello che stava
rischando lui, non era solo contro un universo in rivolta e sull’orlo del
collasso psico-fisiologico. La missione del poeta era voluta e sostenuta da
forze cosmiche positive che chiedevano solo di essere guidate in una missione il
cui esito non sembrava rischiare di essere compromesso.
La luce, là nello
stomaco della bestia, si era fatta più intensa. Il risucchio era cessato, ma in
compenso le pareti della creatura avevano cominciato ad agitarsi convulsamente.
"Si sta collassando,
si sta collassando!" La voce mentale di Redz gli giunse inaspettata. Fin da
prima che cominciasse il processo che avrebbe portato alla fusione dei brandelli
colorati con il corpo dell’umano, Redz non si era più fatto sentire, ed ora quel
silenzio veniva interrotto da un grido di allarme. L’umano ebbe voglia di
mandarlo al diavolo con tutti i suoi allarmismi. Ma poi si accorse che, come
sempre, non si trattava di un semplice e gratuito allarmismo. Le pareti laterali
e quella superiore gli erano molto più vicine di quanto non lo fossero solo
pochi istanti prima.
"Si sta collassando,
si sta collassando!" gridò il povero umano detto anche ricostruttore. Le pareti
molli, che fino a pochi istanti prima avevano racchiuso lo stomaco della grande
bestia virulenta, lentamente si ripiegarono su loro stesse e, come piatti di
plastica gettati nel fuoco, si accartocciarono sul loro contenuto, l’umano,
trasformandolo in una sorta di mummia marroncina. Sì, quell’essere enorme si era
ridotto ad una sottile membrana che ora fasciava il corpo dell’umano fuso con
una parte di colori mentali dei Khürs. La mummia marrone volteggiò per qualche
istante nel liquido biancastro, poi, dato che niente ormai lo impediva, fu
risucchiata nel rombo grigio.
"Continua, terrestre,
continua, è l’unica speranza!"
23
Il cielo aveva
assunto un inusuale colore violetto, ampie fasce luminose di color arancio lo
attraversavano proiettandosi solenni oltre l’orizzonte. Le grandi facciate di
cristallo delle torri del maniero di Dham accoglievano il violetto e l’arancio,
li impastavano sulle loro superfici multifaccia e li riflettevano sotto forma di
lembi luminosi semoventi che andavano ad estinguersi nel fresco della
vegetazione lussureggiante. Dham era già da più di un’ora sulla grande terrazza
del suo studio, assorto nella contemplazione del cielo. Ma contemplazione è
separazione.
Violetto e arancio
tra le nubi a vicenda si orneranno,
possenti sentieri di luce
diverranno solenni piste di atterraggio
per sinfonici universi di rinascita,
e sul violetto si libreranno
sinfoniche danze azzurre
detentrici dell’oro cosmico.
24
Il baluginio, là, al
limite della visibilità delle fasce di luce arancio, sembrava generato da
continui cicli di esplosioni dalle quali si liberavano piogge di frammenti color
smeraldo che parevano restare sospesi a mezz’aria. Era il momento, a questo
punto Dham non riusciva più a dubitarne. Ce l’aveva messa tutta per convincersi
che si trattava solo di una serie di coincidenze dovuta agli influssi del
complesso sistema di lune che orbitavano intorno al pianeta. Ma era assurdo.
Perfino per un poeta. Quando mai i satelliti sarebbero capaci di creare un
effetto simile? Dham mandò al diavolo tutti i suoi dubbi forzati e spalancò il
suo cuore all’attesa. Mano a mano che nuovi fenomeni si verificavano, Dham si
ripeteva mentalmente i versi della Leggenda e si rendeva conto che la
descrizione poetica corrispondeva perfettamente a quello che stava accadendo non
lontano da lui. I frammenti verdi divennero poi azzurri e quindi cominciarono ad
allungarsi, a dilatarsi. Da ogni frammento, ogni volta che si dilatava, si
sprigionava una sequenza di suoni e più il frammento si dilatava, più i suoni si
facevano lunghi e suadenti. Quando la serie di contrazioni e di dilatazioni
terminava, i frammenti non erano ormai più frammenti ma qualcosa di ben più
inquietante ed affascinante. Dham si ritrovò di fronte ad un esercito di
affusolate creature azzurre. Dal loro corpo sottile si dipartivano quattro
appendici dalle estremità sfilacciate e indistinte e apparentemente inerti, che
sembravano totalmente in balia delle correnti d’aria; la testa era semplicemente
costituita dall’estremità probabilmente superiore del corpo affusolato, il suo
contorno era completamente stondato e sembrava non avere traccia del
restringimento del collo (creando questo particolare, l’umano si era
inconsciamente rifatto alla testa coperta da un lenzuolo dei fantasmi dei
cartoni animati). Le creature, come in preda ad una magica euforia, si agitavano
senza posa sullo sfondo violetto del cielo, si rincorrevano, volteggiavano,
formavano cerchi, si afferravano l’un l’altro, si riunivano e tornavano a
schizzare via in ogni direzione. I suoni intanto si erano trasformati in una
musica soave che colmava l’immensa distesa di verde ed accompagnava le danze
degli esseri volanti.
In quel momento Dham
seppe che tutto ciò che stava accadendo era visibile solo per lui, era rivolto a
lui, l’eletto a condottiero delle foreste meccaniche. Si precipitò in casa,
accennò a una goffa piroetta e, a tutta velocità, attraversò lo studio, imboccò
l’ampio e luminoso corridoio e, cantando a squarciagola brani sconnessi di
solenni inni improvvisati, si fiondò verso l’ascensore. Quando le porte si
furono richiuse, ansimando, regolò al massimo la velocità della cabina e si
lanciò verso il settantacinquesimo piano, l’ultimo, della torre più alta del suo
maniero.
25
La membrana non gli
permetteva di distinguere le forme di ciò che lo circondava ma solo la presenza
o meno di luce. Certo, l’umano sapeva che stava precipitando, ma non era sicuro
di essere finito nel rombo, non ne era sicuro per il semplice fatto che non lo
aveva potuto distinguere. Ma aveva però distinto il passaggio dalla luce al
buio, sufficiente da permettergli di intuire il resto. Buona intuizione. Ma si
era anche sforzato di continuare a creare. Buona idea. E fu proprio mentre Dham
sfrecciava verso la cima della sua torre che un rumore distolse per un attimo
l’umano dalla sua frenesia creativa alla quale si era ormai disperatamente
aggrappato. Uno strappo? La vischiosa membrana marrone di colpo si
squarciò e dal corpo dell’umano, come da un seme, germogliò violento un nuovo
mondo. Dalle sue membra si dipartirono immense foreste verdi che, lanciate in
una folle corsa verso nuove conquiste, si fiondarono in ogni direzione, a
colmare ogni vuoto, a riempire ogni spazio. Querce millenarie esplodevano di
verde dal terreno fresco con una furia tale che sembravano voler arrivare a
squarciare il cielo che si andava formando sopra di loro. Il corpo dell’umano fu
invece stravolto dall’aprirsi di un’enorme voragine rivestita di terra nera che
subito prese a vomitare strutture geometriche di vetro e cemento, anch’esse
lanciate verso l’alto, in una folle competizione con le querce, in una corsa
vertiginosa al limite tra visione e ironia cosmica. Così dal corpo del povero
umano esplose un mondo nuovo, un mondo impazzito dalla brama di salvezza,
assetato di vita, di colori, di sogni da imporre a chi li rifiuta e li
disprezza. Quel mondo esplose nello Squarcio Asettico, ne frantumò le vischiose
ossature e i soffocanti sbarramenti e ridusse il buio biodistruttivo del rombo e
il grigio delle sue pareti ad una minuscola tana di vermi sprofondata tra le
radici di querce secolari e l’oceano di marciume biancastro ad una volgare
pozzanghera fangosa perduta tra le foreste rigogliose. Intanto le forme
geometriche di vetro e metallo continuavano la loro corsa verso il cielo ma non
competevano più contro la cima delle querce, ormai definitivamente superata,
bensì con il velocissimo ascensore di Dham. Sì, la torre dell’umano-bosco-maniero
si era insinuata nella torre del castello di Dham e ne stava raggiungendo la
vetta, o meglio, vi si stava fondendo dentro, le stava infondendo vita, la stava
trasformando in mondo reale.
26
Il visualizzatore
indicò che l’ascensore era arrivato al settantacinquesimo piano. L’umano-foresta-maniero-poeta
Dham schizzò sulla terrazza e fu estasiato dal saluto solenne delle foreste
meccaniche. Sospese nell’aria, di fronte al lui, due enormi distese di alberi
tra il rosa-violetto e l’indaco-fuxia, i cui tronchi e chiome, di un materiale
che ricordava il cristallo, riflettevano i colori del cielo, quasi impastandoli
con i riflessi verdi delle foreste sottostanti. Intorno a quelle foreste aeree
aleggiavano, sempre più presi dal vortice delle loro danze sbarazzine, gli
sterminati eserciti di fantasmi azzurri che, tra una piroetta e l’altra e tra
una corsa folle in mille direzioni e un salto che li faceva scomparire per un
attimo oltre le nubi, si soffermavano di fronte a Dham, gli indirizzavano un
gran sorriso con la loro bocca a metà strada tra l’inesistente e lo sconfinato,
e gli rivolgevano poi un profondo inchino prima di ricominciare a schizzare
follemente per ogni dove.
27
Galleggiava
nell’aria, ma questa volta sostenuto da due fantasmi azzurri che lo conducevano
verso le foreste aeree. Nel momento in cui Dham-umano toccò quel suolo
cristallino e sgargiante sentì le membra rilassarglisi completamente. Tutto
intorno a lui si fece senza fine.
"Ce l’hai fatta!
Tutto questo è tuo!" Redz era seminascosto dalle foglie violette di un degli
alberi e Dham-umano stentò qualche istante ad individuarne il colore verde.
"Tutto è salvo ora e tu sei Dham. Vedi quella foglia?" L’attenzione di Dham fu
richiamata da una grande foglia color indaco particolarmente ricca di nervature
se confrontata con quelle che le stavano vicine.
"Tu potrai essere
quella foglia ogni volta che lo vorrai. Potrai essere quelle nervature, fonderti
in loro e rinascere e rigenerarti infinite volte perché grazie a te tutte le
foreste dell’universo apriranno le loro nervature a tutti coloro che ne saranno
degni, a tutti coloro che avranno creato, che creeranno e che fremeranno per il
desiderio di creare, a tutti coloro che rifiuteranno lo Squarcio asettico, il
marciume biancastro, i Glar, i Massacracolori, i rombi grigi, le mummie in
ibernazione gelatinosa. Ma ricorda, non è l’immortalità che vi è concessa,
mortali di tutti i mondi, ma la possibilità di essere arte e natura fuse
insieme.
Ora devo lasciarti,
la mia esistenza come entità indipendente è fortunatamente finita. Torno ad
essere parte dei colori mentali dei Khürs e con loro a tutelare la stabilità
creativa dell’universo mentre tu tornerai nel tuo mondo, sulla tua cara Terra.
Ma ora guarda, guarda laggiù, tra le foreste, sul tuo maniero, tutta la festa è
per te."
Dham guardò oltre il
limite del suolo su cui si trovava, verso il basso. Vide il verde della foresta
costellato da un’infinità di luminosi punti colorati che aumentavano e
diminuivano la loro intensità come per salutare. Erano i compagni di Redz
salvati nel Massacracolori. Il Ricostruttore (ora sì, Ricostruttore) sorrise. In
una radura, poco distante dal maniero, Dham riconobbe una moltitudine di piccoli
triangoli azzurri, anche loro lampeggianti di riconoscenza. Poi guardò verso il
maniero. Non c’era più. Al suo posto un gigante argenteo, della stessa altezza
della torre di settantacinque piani. Certo, la differenza era notevole rispetto
all’enorme creatura smembrata e semiputrefatta con cui si era incontrato dopo
essere finito tra le arcate piastrellate di bianco, ma ciò nonostante
Dham-Ricostruttore non ebbe alcun dubbio: quel gigante era l’Universo. Questo
non disse niente, accennò soltanto un sorriso di riconoscenza, si portò una mano
al petto e con la testa accennò un inchino. Fu un saluto a Dham, ma anche un
segnale affinché la grande macchina universale si rimettesse in funzione. Allora
i compagni di Redz schizzarono via dalle loro posizioni sparse nella foresta, si
gettarono sui Khürs e vi scomparvero. Tutto il mondo aereo, compresi i fantasmi
azzurri, si fuse con le foreste verdi, i Khürs si levarono in volo, raggiunsero
il gigante e vi si dissolsero. E l’Universo, il povero Universo, finalmente solo
e stanco di tante traversie, si distese sul suo letto stellato e si rimise a
sognare.
Finito il 3 luglio 1997
|
|