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Intervista a Enrica Zunic

Ci sono tanti modi per raccontare l’irraccontabile, per raccontare la tortura. Enrica Zunic ha cercato di farlo... a cura di Massimo Acciai

...che tu sia per me il coltello (Kafka e le avventure del pensiero)

Intervista a Mario Ajazzi Mancini... a cura di Monica Pintucci e Massimo Acciai

Narrativa

Schizocosmia... di Francesco Felici
Il paesaggio... di Andrea Cantucci
Fiore senza petali... di Miklós Rödzsjer
Lettera sommossa dell’amato consumato... di Monica Pintucci

Poesia italiana

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici inediti, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie di Massimo Acciai, Daniela Adamo, Maria Chiara, Andrea Cantucci, Lorenzo Carpentiero, Francesco Felici, Altèro Lupo, Marco Saya

Poesia in lingua

Questa rubrica è aperta a chiunque voglia inviare testi poetici, in una lingua diversa dall'italiano, purché rispettino i più elementari principi morali e di decenza...
poesie in lingua esperanto, volapük, ungherese, napoletano

Aforismi

Massime... a cura di Lorenzo Carpentiero

 

 

 

 

Narrativa


Schizocosmia

di Francesco Felici

1

Era alla deriva nel nero. Vagava ormai da ore che forse non erano più neanche ore. Esistevano le ore, là, nel buio stellato? Molto probabilmente no. Chissà che cosa esisteva. Non certo le misere e convenzionali nozioni terrene, non certo le glorie intellettuali a cui era abituato, né i locali con le signore di mezza età in cerca di semiavventure, né i suoi idoli quotidiani. Ormai non doveva restargli molta aria. La cosa peggiore era l’attesa soffocante della morte. In una situazione del genere sarebbe forse stato auspicabile essere in preda alla follia, una follia anestetica che, dolcemente ed inconsapevolmente, sarebbe stata capace di condurlo nel baratro della morte facendoglielo sembrare il paese dei balocchi. Forse. Ma quell’attesa di morte, quel conto alla rovescia scandito da quella specie di ticchettio elettronico, sembrava già tanto folle da impedire alla mente di crollare tra le dolci coltri dell’incoscenza, come se quell’inferno di silenzi avesse già avidamente assorbito tutta la follia esistente nell’universo, o negli universi, o negli universi di universi, e avesse lasciato l’umano miserabile a corto di anestesia. Prego, proceda con l’anestesia. Mi dispiace, signore, l’anestesia è finita, è finita, finita, fi-ni-ta-ta... Maledizione, maledizione se l’è bevuta tutta l’universo, l’universo, l’universo, l’u-ni-ver-so-so... O forse l’attesa della morte aveva in sé qualcosa di così grande, di così solenne, che era impossibile distrarsi una volta tra le sue braccia.

Non vedeva l’ora che tutto finisse. Tutto? In quel nero non sembrava proprio esserci niente che potesse minimamente essere soggetto a finire, a sparire, a svanire, a decomporsi. Niente. Niente se non lui stesso e la sua carne, ormai da macello, avvolta in quei tanto declamati materiali speciali, bandiera di un progresso che di fronte a quell’universo nero pareva un miserabile e microscopico circo di provincia. Gli echi dei respiri sempre più affannati, amplificati dal casco, sembravano trasformarsi in strani dialoghi tra macchine più o meno pensanti, tra orribili e minacciose entità informatiche che tramavano una loro non ben precisata riscossa. L’aria era ormai alla fine. Finalmente. Il ticchettio si fece più frequente fino a diventare un suono continuo, assordante. "Riserva d’aria in esaurimento. Ripristinare, ripristinare, ripristinare..." si mise a ripetere una suadente voce femminile computerizzata. Bella scoperta, cretina! Vatti a ripristinare all’inferno!

Fu in quel momento, quando ormai stava per perdere i sensi, che notò le contrazioni del nero. Era come se quell’infinito, accortosi improvvisamente della tragica ed estrema condizione del miserabile umano, avesse sussultato. L’oscurità si mise a ondeggiare, e quello che fino ad un attimo prima era stato nero sconfinato cominciò apparentemente a restringersi. L’umano, ormai quasi inghiottitito dall’assenza mentale, in un barlume di lucidità ormai di altri mondi pensò che forse il luogo in cui si trovava non era quello in cui credeva di trovarsi. Man mano che quel nero si contraeva, le luci lontane delle stelle scomparivano, una dopo l’altra, come lampadine fulminate da una devastante epidemia elettrica. Soltanto una stella, o semplicemente una luce, o chissà cosa, continuava a rimanere visibile mentre a folle velocità incombeva sull’umano. L’aria era tornata. Miracolo? L’euforia che si impossessò dell’umano fu così grande che questi riuscì, anche se solo per un attimo, a dimenticare tutti gli sconvolgimenti che gli infuriavano intorno. Solo per un attimo. Quando la mente sconvolta riaffiorò alla realtà, in quella luce dai contorni indefiniti, che si faceva sempre più grande, gli parve di intravedere il ghigno di contorti ed ondeggianti lineamenti umanoidi. Anche il nero gli era sempre più addosso. Tutto ormai gli era addosso, inesorabilmente addosso. Istintivamente l’umano cercò di coprirsi il volto ma le braccia si scontrarono con la visiera del casco. Dovette per forza guardare. Sembrava ormai che il nero animato e il lucente volto umanoide stessero per travolgerlo. Ma perché diavolo mi è tornata l’aria? Un tonfo sordo sembrò accompagnare una violenta e accecante esplosione che inondò il nero di luce biancastra.

2

Il buio aveva assunto contorni definiti. Era una gigantesca creatura, in ginocchio. L’intero spazio che lo circondava si era trasformato in un’unica creatura in ginocchio dal volto di luce, quella luce che l’umano aveva visto precipitarglisi ed esplodergli addosso appena pochi istanti prima.

3

Non galleggiava più nello spazio, non era più alla deriva. Di colpo si era ritrovato, o forse vi era caduto, su una squallida superficie piastrellata di bianco. Tutto era piastrellato di bianco. Era come trovarsi in un’immensa sala autoptica formata da innumerevoli corridoi ad arco che, ben illuminati da centinaia di neon, davano l’impressione di un universo di labirinti travolto da una soffocata asetticità mortale. L’umano, benché intontito dal terrore, riuscì inconsciamente a racimolare dentro di sé una microscopica parte di coscienza che gli permettesse di rallegrarsi almeno per il fatto di non aver perduto la protezione dell’involucro della sua tuta spaziale. Ma fu un sollievo effimero, ironico, immediatamente travolto dalla sgargiante asetticità bianca di quelle terribili piastrelle.

Lo spazio era ancora lì, davanti a lui, inginocchiato in mezzo ad un’enorme pozza di liquido azzurro. Decapitato. La testa giaceva ad un paio di metri dal gigante, lorda del liquido della pozza, e non aveva più volto. L’umano contemplò tutto ciò come dall’oltretomba.

"Ti prego, aiutami!"

La voce non sembrava venire da un punto preciso, dava piuttosto l’impressione di essere un’eco.

"Ti ho salvato perché tu possa aiutarmi."

L’umano guardava freneticamente in tutte le direzioni cercando di individuare la fonte di quella voce e forse sperando di non trovarla, sperando che non esistesse.

"Sono qui! Nella pozza!"

L’umano fissò immediatamente la pozza azzurra che circondava il gigantesco corpo inginocchiato ed immobile dello spazio e la sua testa staccata e notò, tra l’altro, che al gigante era ora caduta anche una mano, un altro pezzo umanoide andato ad incrementare quell’umido reliquiario stellare. La mano, anch’essa lorda di azzurro, sembrava percorsa da leggeri sussulti. L’umano si avvicinò con circospezione.

"Aiutami!"

Non comprese subito l’invocazione, il suo cervello dovette farla rimbalzare per qualche secondo da una parete all’altra prima di poterla riconoscere. Quel suono confuso lo fece pensare a quando, da bambino, cercava di parlare tenendo la testa sott’acqua. Proprio mentre la parola veniva pronunciata aveva infatti notato, nel liquido che circondava immediatamente la mano, un forte gorgoglio blu. L’astronauta, ormai ridotto ad un pupazzo asettico in un mondo asettico, in un irreale slancio di coraggio si avvicinò ulteriormente alla mano, che fino a quel momento era rimasta con il palmo rivolto verso il basso, e con un tocco rapido e furtivo del piede la rovesciò. Qualcosa, sul palmo imbrattato di azzurro, tremava e si agitava in sussulti febbrili. Era una bocca, una piccola bocca carnosa.

"Aiutami!" disse la mano tossendo violentemente e rigurgitando schizzi di azzurro sulla visiera dell’umano.

"Chi sei?" domandò l’umano "e come potrei mai aiutarti?"

Il pupazzo asettico rimase colpito dalla razionalità delle sue stesse parole. Come posso riuscire a dialogare così, come se niente fosse, con una mano, o una bocca, o una bocca in una mano o qualunque cosa sia? Non lo so! Non voglio saperlo! Voglio solo uscire di qui, e non credo proprio di poterlo fare aprendo una porta. Tanto vale cercare di interagire con l’unico stimolo che mi si presenta e vedere se la situazione cambia. "Sono l’universo," cominciò la mano "o forse dovrei dire "ero", visto che la mia fine è ormai prossima se tu non mi aiuterai. Come vedi mi sto sfaldando, sto cadendo a pezzi, le mie parti si mescolano e si liquefanno. Sto perdendo la mia eternità, il mio infinito, la mia essenza è squarciata. Una volta ero io il regolatore del cosmo, dei suoi spazi, delle sue interazioni. Poi i Khürs furono attaccati."

"Ma cos’è Khürs, e dov’è? Sulla Terra non è mai giunta voce di nessuna guerra", domandò l’umano.

"Khürs, che in lingua Qomblu’ significa cervello, è anche il nome del popolo che parla, o meglio, che pensa questa lingua. I Khürs non sono veri esseri viventi, ma soltanto entità pensanti il cui mondo è irraggiungibile perché non è compatto, non ha né superficie né volume ma è diluito in tutto l’universo, in tutto me stesso. Si tratta certamente del popolo più potente in assoluto, visto che ha la facoltà di potersi trovare dappertutto e di essere il dappertutto. I Khürs erano sempre stati il popolo garante della stabilità dell’universo. Grazie alla loro tendenza ad una totale unità infinitamente distribuita, si erano fin dall’inizio dei tempi quasi spontaneamente assunti il compito del mantenimento del mio equilibrio totale. Poi c’è stato il Grande Squarcio asettico ed il mondo mentale dei Khürs ha cominciato a vacillare e a disgregarsi. Ed io mi sto disgregando con lui."

"Che cos’è il Grande Squarcio asettico?", domandò l’umano.

"Il Grande Squarcio asettico", riprese la mano-bocca sanguinante dell’universo, "è la morte dei colori che tengono insieme il mondo dei Khürs. A questi colori si sta gradualmente sostituendo un’asettica luce giallastra, come quella di questi neon, che ha cominciato a corrodere il potere mentale di questo popolo, la cui esistenza è vitale per tutto me stesso. Quando la luce asettica avrà totalmente distrutto i colori mentali di Khürs, allora per me sarà la fine, tutto diventerà pallidamente accecante, la magia della penombra e dell’oscurità scompariranno per sempre, i colori non saranno mai esistiti. La vita nell’universo degenererà, ogni creatura diventerà un miserabile pupazzo asettico, ed eserciti di pupazzi asettici e di mummie flaccide e biancastre marceranno in tutti i mondi ed adoreranno la luce dei neon, i disinfettanti, le pianificazioni globali, le miserie di una mente morta e soggiogata a schiamazzanti limiti comuni per tutti."

Ora l’umano capiva il significato di quell’orribile mondo di neon piastrellato di bianco. Tutto avrebbe assunto quell’aspetto e sarebbe veramente stata la morte.

"Tu puoi intervenire", disse la bocca ansimante distogliendo l’umano dal martellare confusionale dei suoi pensieri.

"Il mondo dei Khürs non ha esistenza oggettiva, non può essere in nessun modo percepito dall’esterno, esso esiste solo nel cervello di ognuno degli esseri Khürs, che può liberamente entrarvi e uscirvi. Tu dovrai andare là ed io posso fartici arrivare."

"Ma... ma che cosa dovrò fare?", interruppe l’umano allarmato.

"Lo capirai", rispose la mano, "ora vai, altrimenti sarà troppo tardi."

"No... No... Aspetta un attimo... Ma dove... Come..."

La bocca non sembrò ascoltare e riprese, invece, a tossire violentemente, tanto che qualche goccia di liquido azzurro schizzò di nuovo sulla visiera del casco dell’umano, il quale reagì con una quasi impercettibile smorfia di disgusto. La tosse si fece più profonda e cavernosa, come se la bocca stesse cercando di sputare o rigurgitare qualcosa. E così fu. La bocca grottesca dell’universo morente rigurgitò due densi, voluminosi ed umidi fasci di nervi, uno da ognuno dei suoi due angoli. Man mano che i fasci uscivano dalla bocca, i singoli nervi che li componevano andavano separandosi l’uno dall’altro formando una rosa sempre più ampia. L’umano si vide così aggredito da un’infinità di terminazioni nervose che, gocciolando di umori gelatinosi, lentamente si dirigevano verso tutte le parti del suo corpo asettico avvolto nel bianco della tuta spaziale. Il pupazzo asettico, terrorizzato da quella minacciosa marcia anatomo-fisiologica, cominciò ad indietreggiare.

"Non aver paura", cercò di tranquillizzarlo la bocca che, ormai stracolma di nervi, articolava i suoni a fatica, "è l’unico modo per farti arrivare in quel mondo. Lasciami fare, non ti farò del male."

L’umano smise di indietreggiare, si irrigidì, chiuse gli occhi e lasciò che la bocca-universo facesse il suo lavoro. In pochi secondi migliaia di terminazioni nervose lo raggiunsero e gli ricoprirono la quasi totalità del corpo, che ormai non era più quello di un pupazzo asettico ma quello di un ricostruttore. Forse. I suoni male articolati della bocca gli giunsero da dietro lo strato biologico che gli ricopriva la visiera impedendogli di vedere ciò che stava succedendo.

"Ed ora vai!", disse la bocca ormai in modo quasi incomprensibile.

L’umano sentì i fasci di nervi che cominciavano a tendersi. Mi stanno ritrascinando verso la bocca. Le carni della mano cominciarono a schiantarsi sotto la tensione della bocca che, sofferente, cercava di spalancarsi molto oltre i limiti che le normali leggi anatomiche le consentivano (ma quale anatomia per l’universo?). Poi uno strattone violento e l’umano, ormai ridotto ad una semianimata, grottesca e quasi informe scultura fisiologica, fu ingurgitato.

4

Gli umori che in gran quantità continuavano a colare dalla tuta avevano formato una sorta di pozzanghera viscida ai piedi del ricostruttore. Non vedeva niente. La visiera del casco era totalmente ricoperta da quei liquidi vischiosi che lasciavano trasparire soltanto uno strano ed inquietante gioco di riflessi indefiniti. Passandosi a più riprese la mano sulla visiera, l’umano riuscì poco a poco ad avere una visuale accettabile di quello che gli si trovava intorno. I riflessi erano molto forti ed in un primo momento fu costretto a distogliere lo sguardo. Quando gli occhi si furono abituati alla luce, il ricostruttore si rese conto di trovarsi in una specie di deserto di roccia nera, quasi del tutto immerso nella penombra. L’origine dei riflessi sembrava piuttosto lontana, oltre l’orizzonte nero, e la loro intensità riusciva solo in parte ad illuminare quella lugubre pianura. Si guardò intorno e si rese conto di trovarsi esattamente sul confine tra la penombra ed il buio totale. Alla sua destra, alla sua sinistra e dietro di lui, c’era solo il nero.

"Capirai", gli aveva detto l’universo prostrato dal logorio della fine, ma cosa, e come, avrebbe dovuto capire? Capire significa forse seguire l’istinto? Se capire significava seguire l’istinto, e così l’umano aveva deciso, l’istinto (o la paura?) gli diceva di dirigersi verso la luce. Fin dal suo primo, cauto passo capì di non essere soggetto ad una forza di gravità diversa da quella della terra. Per un attimo gli tornarono in mente i vecchi telefilm di fantascienza che vedeva sempre da ragazzo, nei quali i protagonisti, in qualunque parte dell’universo mettessero piede, si muovevano sempre come se fossero sulla terra. Era il momento in cui la magia dell’avventura dei variopinti astronauti che facevano parte della storia si rompeva, e il telefilm si rivelava per quello che era: una misera finzione piena di plastica e cartapesta.

Quando lo sfolgorio gli fu più vicino, il ricostruttore si rese conto che quello che inizialmente gli era sembrato un deserto di aridità nera, dava in realtà l’impressione di essere cosparso di oggetti la cui forma appariva però ancora incerta. Erano centinaia, forse migliaia, disseminati su tutta la superficie visibile. E chissà quanti altri oltre il buio. Alcuni di loro sembravano tremare, agitarsi, sussultare. L’umano pensò che quei movimenti fossero in realtà un’illusione ottica prodotta da quel continuo carosello di riflessi che gli balenavano davanti. Qualcosa gli sfiorò la gamba appena sotto il ginocchio. A causa dell’ingombro della tuta e del casco, l’umano dovette fare un passo indietro per poter vedere chiaramente il punto esatto in cui la sua gamba si trovava nel momento in cui aveva percepito quella strana sensazione. Si accorse allora che, proprio mentre cercava di distinguere a distanza la forma di qualcuno di quegli oggetti che costellavano il suolo, senza accorgersene ne aveva quasi calpestato uno. Era un qualcosa che non assomigliava a niente di familiare, che non richiamava alla mente niente di già visto. Per poterlo osservare bene da vicino senza volerlo toccare, l’umano, a fatica e con movimenti goffi, si inginnocchiò e si chinò poi cautamente in avanti. L’oggetto aveva la forma di un triangolo isoscele con gli angoli stondati. L’altezza misurava più o meno una trentina di centimetri mentre la base doveva misurarne quasi venti. Base per altezza diviso due, o qualcosa del genere. Lo spessore di tutto l’oggetto arrivava forse a dieci centimetri e la sua consistenza appariva (l’umano non si azzardò a toccarlo) piuttosto molle, pressappoco come quella di un fegato. Il colore era un azzurro intenso con striature fuxia ai margini. L’umano provò una strana sensazione, un misto di terrore, nausea e compassione, nel momento in cui quella cosa parve essere scossa da una scarica di forti fremiti. Tremava, ma non era un tremito continuo. Brevi crisi si alternavano ad altrettanto brevi momenti di quiete, come se l’essere venisse di tanto in tanto scosso da un brivido violento che riscatenasse i suoi sconvolgimenti interni. Quella massa azzurra era in fin di vita, se mai ne avesse avuta una, e in merito a quest’ultimo fatto l’umano non aveva, stranamente, nessun dubbio. Come, del resto, era anche sicuro di trovarsi di fronte ad un qualcosa che avrebbe finalmente dovuto chiarirgli quali fossero i compiti che l’universo gli aveva così vagamente affidato. Ma come? In qualche modo avrebbe pur dovuto comunicare con quella cosa, comunicare o qualcosa di simile. Almeno. Messo in agitazione da questo pensiero, si mise a scrutare quel triangolo variopinto con grande attenzione, cercando di scoprire neanche lui sapeva cosa.

5

La scarica era stata forte. L’umano aveva lanciato un grido che era paurosamente rimbombato nel plastico e rotondo mondo del suo casco e si era improvvisamente ritrovato disteso su quel suolo al limite di tutto. La cosa, con un piccolo ma fulmineo balzo, gli si era attaccata alla parte anteriore della coscia destra e non sembrava per nulla intenzionata a distaccarsene.

"E’ l’unico modo per comunicare. Non temere, ti abituerai in fretta alle scariche." E nel momento in cui gli parve di udire queste parole l’umano fu attravesato da una seconda, violentissima scarica elettrica che lo fece di nuovo sussultare.

"Chi sei?", disse l’umano.

" Sono i Khürs." La scarica elettrica fu questa volta molto meno intensa. "Non importa che tu pronunci le tue frasi, basta che tu le pensi. La comunicazione avviene per mezzo di impulsi elettrici che attraversano il tuo sistema nervoso, al quale ci siamo direttamente collegati. Quello che noi ti diciamo e che tu percepisci come elementi appartenenti alla tua lingua sono in realtà semplici impulsi concettuali che il tuo cervello trasforma e riordina secondo le regole di un codice a te comprensibile.

Tu sei qui, nel nostro mondo concretamente inesistente, nella nostra mente, per ristabilire, per ricostruire, tu sei il ricostruttore. Il nostro sistema di interazione che tiene insieme l’universo doveva essere così perfetto che l’eventualità di imperfezioni o di disfunzioni non era mai stata contemplata, non era mai esistita. Ma non è andata così. L’imperfezione si è verificata e noi non siamo in grado di intervenire in qualcosa che non dovrebbe esistere, qualcosa come il Grande Squarcio asettico. Siamo dei perfetti che rischiano la normalizzazione asettica dell’universo a causa di una minuscola imperfezione. I nostri colori mentali stanno scomparendo, inghiottiti dal mondo giallastro. Per questo abbiamo bisogno di un umano, di un miserabile ed imperfetto umano. Gli umani sono gli imperfetti per eccellenza ed hanno perciò imparato ad intervenire per rimediare alle loro imperfezioni. L’imperfezione che ha fatto sì che tu venissi fiondato nello spazio per un piccolo errore tecnico, questo è ciò di cui abbiamo bisogno."

"Ma che cosa devo fare?", disse, ansi, pensò l’umano.

"Dovrai calarti nello Squarcio. Fai in fretta, o morirai con noi."

Il Khürs era ricaduto a terra capovolto, la parte inferiore rivolta verso l’alto, e i tre angoli stondati si agitavano in un pietoso e vano tentativo di riportare la creaturina azzurra nella giusta posizione. L’umano pensò ancora una volta ad un programma televisivo che aveva visto anni prima, un documentario sulle testuggini. I cacciatori le tiravano in secco e poi, prima di allontanarsi per andare a cercare qualcosa per trasportarle, le capovolgevano per impedire loro di tornare in acqua. Gli animali restavano così capovolti ad agonizzare sulla spiaggia, in attesa del ritorno dei loro carnefici, agitando convulsamente le loro quattro piccole pinne, ormai tristemente simili a quattro grotteschi moncherini in preda allo sgomento. Si stupì di aver potuto pensare alle testuggini in una situazione simile. La mente ha bisogno di "staccare" ogni tanto, che lo si voglia o no: telefilm di fantascienza, testuggini...

A fatica si rimise in ginocchio. Con cautela e con entrambe le mani, raccolse quell’essere azzurro in fin di vita, lo girò e, delicatamente, lo ridepose a terra, quasi con tenerezza, nella posizione in cui lo aveva trovato ed in cui si trovavano anche tutti gli altri triangoli. Sulla convessa superficie azzurra comparve, per un attimo, un baluginio indefinito di figure fuxia e l’umano, miserabile e pieno di difetti, accennò un sorriso a quell’estremo e drammatico gesto di riconoscenza.

6

La temperatura sembrava essersi notevolmente alzata. Lo Squarcio era ormai molto vicino. Il ricostruttore si sentiva sempre più immerso in quella follia accecante che lo stava strappando da un mondo governato dal delirio per proiettarlo in un oceano urlante e palpitante di schizofrenia cieca.

Il baratro giallastro sembrava sputare fuori la sua luce putrida ma, prima che questa venisse proiettata verso l’alto, solo a pochi metri dal suolo, si espandeva per poi ricadere occupando una superficie più grande di quella da cui era appena uscita. Ogni volta che l’onda di luce ricadeva si mangiava una parte di suolo e l’umano capì che era in quel modo che l’universo sarebbe stato ingoiato. Quel giallastro accecante si vomitava e tornava ad ingoiarsi, si trasformava in vomito ed il vomito si rimangiava il proprio vomito. All’interno di quel marciume sfolgorante, di tanto in tanto balenavano strani brandelli multicolori che, nel momento in cui il giallastro si espandeva, cominciavano a sbriciolarsi fino a dissolversi completamente. Ma i brandelli colorati non erano i soli a volteggiare nel turbinio dello Squarcio. C’erano anche delle strane sfere nere che, nello stesso momento in cui i colori si disfacevano, scoppiavano con un colpo sordo e soffocato trasformandosi in una specie di sciroppo, anch’esso luridamente giallognolo, che colava e scompariva nel baratro. Catarro nel vomito.

7

Tutto era scomparso. Il buio, il suolo disseminato di triangoli azzurri agonizzanti, tutto svanito oltre la muraglia biancastra. Il ricostruttore si trovava ormai sull’orlo del baratro, immerso nel delirio asettico color neon, alle porte della fucina dei pupazzi asettici. Era una sensazione insopportabile, maledettamente insopportabile. Sentiva la mente sfuggirgli, inquadrarsi nell’asettico. L’odore di disinfettante lo nauseava e gli ricordava insistentemente il labirinto di piastrelle bianche e neon in cui aveva incontrato l’universo morente. Fu un attimo. L’ondata di vomito giallastro lo colpì in pieno e gli mangiò il terreno sotto i piedi. Il ricostruttore-pupazzo asettico, eletto dall’universo per le sue miserie, precipitò nel pallore ghignante dell’abisso.

8

La luce sporca gli sfrecciava intorno a velocità vertiginosa e le sfere nere gli esplodevano sulla visiera del casco inondandola ed oscurandola con il loro contenuto vischioso. In quella pioggia nauseante l’umano pensò se davvero sarebbe riuscito a capire quello che doveva fare, come gli aveva detto il triangolo azzurro.

D’un tratto la sua caduta terminò, se ne accorse non tanto per una variazione della velocità del turbinio luminoso che aveva intorno, rimasta ai suoi occhi inalterata, quanto per il fatto che sotto i piedi sentiva di nuovo un punto di appoggio. Dato che intorno a lui non sembrava essere cambiato niente, cercò di guardare in basso per vedere che cosa avesse interrotto la sua caduta. Una superficie multicolore dalla forma e dai contorni indefiniti lo sosteneva al di sopra dell’abisso vorace. Osservando meglio, l’umano si rese conto che quell’inusuale rete da acrobati era formata da una grande quantità di quei brandelli multicolori che aveva visto disintegrarsi nei getti di luce prima di scivolare nell’abisso. Riassociò quello che gli era stato detto dall’universo in merito alla morte dei colori mentali dei Khürs. Sì, i brandelli colorati erano ciò che restava di quei colori mentali morenti e quel piedistallo dall’aria carnevalesca che questi avevano faticosamente messo insieme doveva servire a tutelare, per quanto possibile, l’incolumità di colui che avrebbe dovuto salvarli dal quel marciume biancastro. L’umano si sentì finalmente più sollevato: finalmente aveva trovato qualcuno, o qualcosa, che lo avrebbe, forse, guidato in quell’impresa. D’un tratto, dalla superficie colorata, uno dei numerosi brandelli verdi cominciò a contrarsi e ad allungarsi come se volesse preparasi ad uno slancio. E lo slancio ci fu. Il brandello verde riuscì a saltare fino alla visiera del casco del ricostruttore e vi si attaccò in modo da lasciare comunque libera la visuale del suo nuovo ospite.

"Mi chiamo Redz. Tu non hai scelto me, io non ho scelto te. Tu non saresti dovuto precipitare qui, ti sei avvicinato troppo all’orlo dell’abisso. Hai fatto un errore e l’errore ci ha uniti nella battaglia per la nostra sopravvivenza. Ricordi? Saranno i tuoi errori a salvare l’universo."

9

Di Redz l’umano sapeva già moltissime cose. Non sapeva come, ma le sapeva. Certo, i telefilm di fantascienza, le testuggini, tutto chiaro! Redz era l’essenza verde dell’universo, colui al quale, nella distribuzione dei ruoli di equilibrio universale dei Khürs, era stato assegnato il compito di tutelare ed armonizzare la pace, le emozioni, i sentimenti, la poesia, l’arte e tutto ciò che aveva a che fare con le essenze creative del cosmo. Era il poeta la cui poesia dipingeva e vivificava gli atti della necessità quotidiana, il creatore delle pulsioni artistiche, il comandante dei vascelli di fuga dalla geometria ripetitiva della morte. L’umano pensò alla Terra e a come Redz vi si manifestava. Pensò ai boschi splendenti di verde, alla natura rigogliosa, agli artisti. Pensò ai poeti ed al loro riedificarsi nella malinconia e pensò che tutto ciò era verde, verde vita, verde pace, verde arte, verde riposo, verde splendore, verde profumo, verde oceano, verde creazione. Anche il silenzio stellare era verde, quel silenzio che tanto lo opprimeva mentre, alla deriva nello spazio, aspettava la morte. Sì, la morte, perfino lei è verde.

10

Vagavano nel marciume luminoso. L’umano non si domandava dove stessero andando (era forse possibile "andare"?), aveva l’impressione che Redz e gli altri colori sapessero il fatto loro. Si sentiva smarrito ma non se ne preoccupava: lo stavano trasportando. In piedi sullo scudo di colori come Abraracourcix, il capo della tribù di Asterix.

"Ecco il nucleo dello squarcio, è là che dobbiamo arrivare" comunicò Redz.

Dapprima, a causa dei riflessi fortissimi che gli causava la visiera, l’umano non riuscì a distinguere niente. Solo dopo qualche minuto cominciò ad intravedere una grande massa grigiastra di forma romboidale che sembrava galleggiare in quel marciume accecante.

"Non sarà facile arrivare all’interno del nucleo, l’entrata è sorvegliata da un esercito di Glar, i sentenziatori asettici del putridume. Non attaccano fisicamente, ma le loro sentenze ti bloccherebbero il sistema nervoso, tu ti trasformeresti in un blocco vivo di carne morta e noi e l’universo saremmo finiti per sempre. Cercherò di interrompere le tue facoltà uditive per impedirti di udire le sentenze, ma sarà per me uno sforzo enorme che, date le condizioni in cui mi trovo, non so se sarò in grado di sostenere a lungo. Te la senti di provarci?"

"Senti, Redz, o come cavolo ti chiami", disse l’umano senza pensare che sarebbe stato sufficiente pensarlo, "dove diavolo hai imparato a fare domande così intelligenti, sensate e opportune? Forse dai film americani? Ti sembra che possa esistere una possibilità di scelta? Forza, facciamo quello che dobbiamo fare e togliamoci di qui!"

Si avvicinarono ancora al rombo, ormai ben distinguibile anche se continuamente agitato da quella bufera biancastra. Il ricostruttore scrutò attentamente il suo obiettivo e per un attimo si dimenticò anche di Redz e dello scudo di Abraracourcix che lo scarrozzava qua e là. Individuò una potenziale entrata nel rombo, certo non concepito come eventuale meta turistica per gli umani. I due estremi aguzzi di quella roccaforte romboidale avevano un foro da cui sembravano entrare ed uscire i flussi della tempesta in un intercambio continuo di marciume biancastro. Sarebbe stato necessario lasciarsi risucchiare dentro, ma poi?

"Il poi non esiste in questa schifosa dimensione," rispose Redz ai suoi pensieri "tutto ciò vive ed agisce in una totale assenza di... come lo chiamate sulla Terra? Futuro? L’asetticità non ha futuro perché questo si annulla nella ripetitività incessante del presente che, essendo sempre esattamente lo stesso, rende totalmente obsoleta la potenzialità di un futuro. Un futuro implica un’evoluzione, un cambiamento o quanto meno una tendenza a questi. Ma non qui. Qui tutto è morto di indolente ed ignorante ripetizione."

"Ti formulerò la domanda in un altro modo" disse allora l’umano. "Quale sarà l’azione successiva a quella di farsi risucchire nel nucleo?"

"Dovrai estinguere la luminescenza del marciume asettico, ma non chiedermi come."

11

Aveva ormai smesso di comunicare con Redz. Tutto il suo essere era concentrato su quella terrificante apertura da cui doveva lasciarsi risucchiare, l’umano era ormai l’apertura. Poche decine di metri lo separavano dalla bocca vorace e feroce dell’inferno biancastro mangiacolori. Abraracourcix, volteggiando, andava solennemente a farsi ingoiare e, certo, l’impresa sembrava essere molto più ardua delle sue normali scorrerie al di fuori del suo piccolo villaggio, quando andava a prendere a schiaffi i romani.

Cercò di calcolare a occhio le misure dell’apertura per non essere costretto a ripetere due volte il tentativo di entrarvi. Chissà se avrebbe avuto il coraggio di provare una secondo volta. Magari avrebbe preferito buttarsi giù dallo scudo e dissolversi per sempre in quell’oceano giallo.

12

I Glar si erano accorti dell’arrivo degli intrusi e si erano immediatamente radunati nei pressi dell’apertura del rombo. Il loro aspetto ricordava quello dei ricci marini. Dovevano avere più o meno le dimensioni di un essere umano, il loro colore biancastro, un biancastro viscido attraversato da un fittissimo groviglio di capillari rossi e pulsanti, e il liquido vischioso che colava dai loro aculei li rendevano ributtanti oltre che terrificanti. L’umano percepì una fortissima fitta nei condotti uditivi e capì che Redz aveva messo in atto la sua tattica di protezione. Vide che quella specie di aculei che ricoprivano la massa delle creature cominciavano freneticamente ad agitarsi ed a riversare nel biancastro viscido un’escrezione scura che lentamente cominciò a diffondersi creando, intorno alla schiera nauseabonda dei Glar, una fluttuante e vischiosa nube di grigio.

"Ecco," comunicò Redz, "l’escrezione grigia significa che hanno cominciato a lanciare le sentenze che, almeno per il momento, posso riuscire a non farti udire. Ma bisogna fare presto, non potrò resistere a lungo, non possiamo permetterci di ripetere il tentativo una seconda volta." L’umano si ripeté mentalmente la ultime tre parole della frase di Redz "...una seconda volta...", "...una seconda volta...", e ripensò anche a quello a cui aveva pensato pochi istanti prima: avrebbe avuto la voglia di provare una seconda volta?

Erano sempre più vicini, la grande nube grigia creata dai Glar li avvolgeva totalmente e l’apertura del rombo doveva essere ormai a pochi metri: nel biancastro offuscato dal grigio l’umano ne intravedeva i contorni. Era pronto. "Pronti? Dai, John, ce la farai, noi ti saremo sempre vicini, sarà dura ma ce la farai! Il tuo paese non ti dimenticherà!" Scempiaggini da film americani. Ma John non ce la fece. Non centrò l’apertura. I tuoi errori salveranno l’universo. Quando si scontrò con violenza contro la superficie solida del rombo, il ricostruttore (ricostruttore?) non seppe se doveva rallegrarsene, ma certo non decise di buttarsi nel vuoto. Non lo decise, ma ci cadde ugualmente. Precipitò fuori dalla nube grigia, precipitò lontano dai Glar e dai loro affannati aculei sputasentenze. Lo scudo di colori, che fino a quel momento lo aveva sostenuto, non era infatti riuscito a mantenersi compatto e gli elementi che lo componevano, anch’essi vivi come Redz, si erano separati e dispersi nelle correnti del fluido biancastro che li avrebbero trascinati alla distruzione. L’umano aveva avuto, nel momento della collisione e negli attimi immediatamente successivi, l’impressione di udire le loro folli grida mentali di terrore. Morte dei colori. E proprio quelle urla di chissà quale specie di morte, quegli echi ormai seppelliti in chissà quale oltretomba cosmica, avevano fatto sì che l’umano dimenticasse di colpo le sue precedenti ed effimere smanie suicide. Non voleva gridare come i colori, no, non in quel modo. Ma poi era caduto lo stesso.

13

Redz c’era ancora, sempre al solito posto, attaccato alla visiera del suo casco. Ma c’era anche qualcos’altro, qualcun’altro. C’era un essere di forma simile ai Glar, ma decine e decine di volte più grande. A differenza dei Glar, quest’enorme globo di carne e di flaccidi aculei colanti, presentava un’apertura rotonda del diamentro di tre o quattro metri, all’interno della quale si intravedeva quello che sembrava essere un intenso lampeggiare multicolore. In quel momento l’umano si rese conto che l’effetto anestetico di Redz sulle sue capacità uditive si era ormai esaurito. Man mano che la massa gli si avvicinava, il ricostruttore udiva sempre più chiaramente un continuo schioccare intervallato a forti sbuffi, quasi grugniti. I rumori seguivano il ritmo del lampeggiare multicolore del foro rotondo, dal quale anch’essi sembravano provenire.

"E’ un Gigante Massacracolori. Il suo compito è quello di eliminare i colori mentali sopravvissuti al turbine biancastro. I colori finiscono tutti in un complicato sistema linfatico, all’interno del quale viene tolta loro ogni potenzialità creativa, la quale viene poi raccolta in una sorta di grande deposito. Il Massacracolori fornirà poi la creatività rubata ed immagazzinata al nucleo centrale, il rombo in cui non siamo riusciti ad entrare, che a sua volta la utilizzerà per incrementare la produzione del suo luridume e per rafforzare tutto il sistema asettico che governa."

L’umano aveva nel frattempo continuato a fissare il Gigante che, sospeso nel fluido biancastro, avanzava lento e minaccioso. Gli occhi stralunati dal terrore, non aveva neanche ascoltato la breve spiegazione di Redz.

"Togliamoci di qui, Redz! Ingoierà anche noi!"

Così dicendo l’umano, come un sommozzatore in un mare di bostik, prese ad arrancare con braccia e gambe per cercare di allontanarsi, ma il Gigante era nel suo proprio elemento e si muoveva molto più agevolmente di lui. Gli schiocchi e gli sbuffi che provenivano dal foro si erano improvvisamente fatti assordanti e il lampeggiare multicolore, che a tratti rischiarava quell’enorme grotta flaccida, fece venire in mente all’umano, anche se solo per un attimo, un tremendo temporale notturno. Sarebbe stato meglio! Il biancastro scomparve e il ricostruttore udì il tonfo sommesso del suo corpo che cadeva sul morbido.

14

Il frastuono era cessato ma l’umano non aveva ancora avuto il coraggio di muoversi. Redz c’era ancora. Ma che santo sei?

"Non mi ha potuto prendere", comunicò l’essenza verde dell’universo, "questa maledetta bestiaccia panciuta non mi ha potuto prendere! Il fatto di essere attaccato al tuo casco mi ha evitato di finire nel suo sistema di disattivazione. Se fossi stato travolto sarebbe stata una tragedia, il verde è l’elemento principale della gamma dei colori mentali dei Khürs, per questo è stato il primo ad essere attaccato dalle creature asettiche, ed ormai ne è rimasto pochissimo. Una volta esaurito il verde non ci sarà più possibilità di ripresa."

L’umano osservò Redz, piccolo brandello verdolino appiccicato al suo casco. Redz non aveva polmoni che lo facessero ansimare per la tensione, né occhi che permettessero di coglierne l’angoscia, né membra che potessero mettersi a tremare, ma ciò non impediva all’umano di percepirne l’esaurirsi, la decadenza. Sì, quel povero e misero brandello verde, abituato ad essere la linfa vitale dell’universo, stava morendo, e con lui sarebbe morto tutto il resto.

L’universo si sarebbe sgonfiato e ripiegato su sé stesso, come una mongolfiera precipitata. Dalla mongolfiera si sarebbe poi originato un altro mondo, ma questa volta senza i Khürs e sprattutto senza i loro colori mentali. L’infinito spettro dei colori mentali dei Khürs sarebbe stato sostituito da metropoli popolate da milioni di asettiche bare d’acciaio stracolme di grovigli di trasparenti tubi sintetici, all’interno dei quali sarebbe scorso l’ormai celeberrimo marciume biancastro. Poi le bare si sarebbero spalancate, ed eserciti di mummie flaccide, giallognole e senza volto, nutrite e cresciute per mezzo dei tubi sintetici, avrebbero invaso il nuovo universo di morte. Biancastro, bianco neon, bianco ospedale. Pensò agli ospedali che gli era capitato di vedere. Dovunque bianco ingiallito, dovunque quell’acutissimo e nauseante odore di disinfettante che a fatica cercava di compensare il disagio causato dalle macchie scure sulle pareti scrostate, dagli orribili vetri opachi montati su porte di metallo coperte da una sfaticata vernice grigia costellata da una miriade di punti di ruggine. E i cannelli pieni di liquido baincastro avrebbero preteso di ripulire, disinfettare, ricostruire per mezzo dei loro automi generati da montagne di gelatina vischiosa debitamente filtrata nei tubi asettici e quindi plasmata dai metallici sarcofagi modellatori, a loro volta circondati da una fitta nebbia gassosa e da sistemi bioconservatori elettronici stracolmi di disinfettante.

"Hai visto la nostra fine." Lo riscossero le parole di Redz. "Sì, è proprio così che andrà se non ce la faremo. Ma c’è una cosa su cui ti sbagli, miserabile umano, e anche di grosso: io non sto assolutamente morendo, non sto morendo, non sto morendo!" A queste parole l’umano rabbrividì. Il pensiero di Redz aveva tremato.

15

Non era buio come sarebbe dovuto essere. Eppure quella specie di enorme tubo digerente da cui erano entrati si era immediatamente richiuso dietro di loro, sigillato da una spessa membrana carnosa suddivisa in tre grossi lembi di forma triangolare che non lasciavano filtrare il benché minimo raggio di luce. Come le porte meccaniche delle stazioni orbitanti dei film di fantascienza. Ma non era buio come sarebbe dovuto essere. Una luce azzurrognola, anche se molto fievole, rischiarava quell’enorme antro animalesco quanto bastava per potervi almeno distinguere i contorni delle cose. L’umano era immerso fino all’inguine in una massa gelatinosa di cui però non riusciva a distingure il colore. Quella luce azzurrognola gli piaceva. Per un attimo si rallegrò di non essere più là fuori, in quel putridume giallo, ma poi pensò che forse si era trasformato nella dimostrazione vivente della validità del proverbio "dalla padella nella brace". Ma no. Quella luce azzurra gli piaceva, ed era anche fonte della prima sensazione veramente positiva che aveva provato dall’inizio della sua avventura. Era come se quell’azzurro gli permeasse tutto il corpo e lo ripulisse, almeno in parte, da tutte le angherie dello Squarcio Asettico. Aveva l’impressione di volteggiare in una bolla di sapone azzurro che lo stesse proteggendo da quell’enorme ventre viscido in cui si trovava. Il suo spirito si era sdraiato sull’oceano, su un letto galleggiante di fresche foglie verdi, su un letto fresco tra mare e cielo.

"E’ la forza della creatività."

"Cosa?" L’umano fu ancora una volta richiamato all’ordine dalla creaturina verde.

"L’azzurro. La pace e la serenità che stai provando."

"Creatività nel ventre di questo spazzino assassino? Com’è possibile?"

"Questo spazzino è stracolmo di brandelli colorati in stato di semincoscienza."

"Come, non sono morti, distrutti?"

"No. Lo Squarcio ha bisogno di loro per potersi evolvere. Il Massacracolori ha solo il compito di raccogliere i brandelli che poi dovrà immettere nel nucleo, ma può solo disattivarli, non ucciderli. Una volta nel nucleo, invece, i colori dei brandelli saranno definitivamente assorbiti e la loro energia creativa snaturata e convertita in riserva di alimentazione per le centinaia di migliaia di gelatinose mummie bianche racchiuse nei sarcofagi d’acciaio che hai percepito poco fa."

"Ora capisco il perché di tutti quei cannelli."

"In realtà esistono due sistemi di cannelli. Il primo, che non comunica con l’esterno della bara, ha il compito di aspirare e rigurgitare, in un ciclo continuo, la materia gelatinosa al fine di modellarla e di darle consistenza, mentre il secondo, che invece mette in comunicazione il sarcofago con il sistema di alimentazione esterno, ha il compito di nutrire le creature in fase di formazione."

"Dobbiamo fermare tutto questo!" riprese bruscamente l’umano.

"Noi non possiamo fermare proprio niente, ne sono sempre più convinto. Se c’è qualcuno che può farlo è solo la creatività. L’unica cosa che possiamo fare è aiutare la creatività a risvegliarsi. Guardati intorno, sei immerso fino all’inguine in centinaia di migliaia di brandelli colorati il cui potenziale potrebbe essere enorme. La luce azzurra che emettono testimonia che in loro c’è ancora un alito di vita e la sensazione di serenità che hai provato prima e che forse stai ancora provando è dovuta ai barlumi di creatività che i brandelli riescono ancora ad emettere. Come ti avevo accennato prima, la loro creatività è definitivamente annullata solo nel momento in cui vengono trasmessi al nucleo. Finché si trovano nel Massacracolori sono soltanto disattivati, come drogati, per usare un termine che più si confà a voi terrestri. E’ vero che la potenzialità creativa di un singolo brandello colorato come me non potrebbe mai aggredire il sistema asettico. Ma è anche vero che, se solo potessimo riattivare la grande quantità di brandelli che sono qui dentro, forse potremmo avere qualche speranza di riuscire a contrattaccare lo Squarcio."

"Guarda!" quasi lo interruppe l’umano, indicando la parte opposta della piccola palude in cui era immerso. Un fievole barlume di verde risaltava sulla superficie grigiastra.

"Un altro residuo verde! Un altro che è sfuggito al sistema di disattivazione!" Dalle parole di Redz sembrava trasparire un nuovo vigore. "Ti rendi conto della sua importanza?"

L’umano tacque.

"Posso fondermi con lui ed acquistare energia creativa. Posso salvarmi e forse anche tentare di riattivare l’energia di tutti gli altri brandelli. Portami più vicino."

L’umano, senza dire niente, si diresse verso la parte opposta della palude di brandelli e si fermò a pochi centimetri dal riflesso verde. Per qualche istante non ci furono comunicazioni tra Redz e l’umano ma solo immobilità e silenzio. Poi Redz cominciò ad agitarsi ed a contrarsi spasmodicamente. La sua parte inferiore cominciò lentamente ad allungarsi verso il basso divenendo sempre più sottile, un filamento verde fluorescente che si affannava per raggiungere la superficie grigiastra. Quando finalmente la raggiunse, la punta del filamento verde si scompose in quattro parti a loro volta ramificate che all’umano fecero immediatamente ripensare ai nervi rigurgitati dalla bocca che lo aveva condotto nel mondo dei Khürs. I quattro filamenti ramificati calarono, con grande cautela, sull’altro frammento vivo, parzialmente coperto da altri brandelli dal colore indistinguibile e, cercando di non toccare i residui disattivati, arrivarono alla superficie verde, con la quale le punte ramificate si fusero immediatamente. Il filamento principale ricominciò ad accorciarsi ed a sollevare il frammento ripescato riavvicinandolo al corpo di Redz. La fusione tra i due brandelli fu istantanea e Redz raddoppiò le sue dimensioni.

La visiera del casco dell’umano era ora oscurata per più di metà.

"Sono pronto!" disse Redz, "Ora ho abbastanza energia per poter fare un tentativo." Cominciò gradualmente a distaccarsi dal casco.

"Aspetta..." disse l’umano allarmato da tanta decisione, "ma io che devo..." Ma Redz si era già tuffato nella palude, in mezzo ai suoi compagni inerti.

Non lo vedeva già da alcuni minuti, né riusciva a percepirne segnali. Ha bisogno di tutta l’energia possibile.

"Sto cercando di trasmettere energia creativa a tutti i frammenti inerti, ma è più dura di quanto pensassi. Se continuo così finirò col disperdere tutta l’energia senza ottenere risultati. Sono veramente troppi, devo assolutamente trovare un altro modo." Redz era davanti a lui, sulla superficie della palude, il suo verde fluorescente meno intenso di quando si era tuffato. Rimase visibile per alcuni istanti e poi riscomparve. L’umano pensò che ormai era finita. Redz sarebbe morto. Ripensò alle bare d’acciaio, ai cannelli e alle asettiche mummie gelatinose ed anche, miseramente, ai cari idoli che avrebbe perduto.

Questa volta erano in tre, e Redz aveva riacquistato la sgargiante fluorescenza che lo aveva caratterizzato dopo la fusione con l’altro brandello verde. Era riaffiorato insieme ad altri tre frammenti di colori mentali, uno azzurro, uno fuxia e uno arancio.

"Invece di sprecare l’energia cercando di riattivare tutti i frammenti da solo, ho preferito concentrarmi soltanto su tre di loro. In questo modo ora siamo in quattro a fare il lavoro. Ognuno di noi riattiverà ora altrettanti frammenti che a loro volta ne riattiveranno altri ancora e più saremo più ci riforniremo a vicenda di energia.

16

L’altissima volta del ventre del Massacracolori era ormai quasi totalmente rischiarata dal baluginio multicolore dei brandelli riattivati che andavano moltiplicandosi. L’umano osservò quegli esseri tanto piccoli immergersi, riemergere, sguazzare, saltare, precipitarsi ad aiutare i frammenti ancora deboli. Tutto questo avveniva nel più assoluto silenzio, condizione che certo contrastava con quella carnevalata di lanci, tuffi, capriole, scontri. In quella festa di colori l’umano sentì che stava cominciando a rilassarsi. Rilassamento motivato da un obiettivo miglioramento della situazione o da una semplice e spontanea rivolta psico-fisiologica contro la continua tensione?

"Abbiamo finito, siamo tutti riattivati!" Come gli era già successo più di una volta, la voce di Redz lo riscosse dalla produzione più o meno intensa di pensieri più o meno negativi.

"E ora?" L’umano pronunciò questa parola come se stesse rispondendo ad un barista che gli avesse appena comunicato di aver terminato la cedrata e che comunque era ormai ora di chiusura.

"E ora manca l’idea che possa scatenare lo slancio di creatività capace di aggredire il nucleo dello Squarcio e tutto il suo sistema biancastro. E questo slancio deve essere tuo. Noi non siamo abbastanza numerosi per poter creare un mondo che possa distruggere e sostituire questo marasma schifoso, e poi non abbiamo abbastanza forza, non in questo momento. Ciò che possiamo fare è solo potenziare ed amplificare quello che tu sarai capace di creare. Aiuteremo la tua creazione a realizzarsi e ad affermarsi come realtà positiva dalla quale poi tutto potrà essere riorganizzato, o meglio, salvato. Questa volta tocca a te, terrestre, elabora una grande idea, concentrati su un grande sogno, una grande fuga, un impero della fantasia, sii una poesia, sii un romanzo, sii un poema, sii un dramma romantico, sii l’arte, sii la creazione, trasformati in creazione artistica, mangiala, bevila, iniettatela sottopelle, sii un nuovo mondo, crea, crea, salvaci..."

La scossa violenta scaraventò l’umano quasi dalla parte opposta della palude gastrica ed interruppe la comunicazione di Redz. Per un attimo scomparve sotto il livello dei flutti neri provocati dalla scossa e certo il casco gli evitò di ingoiare una gran boccata di quei succhi acidi di altri mondi. Quando riemerse vide che quei liquidi torbidi si agitavano come l’acqua in un secchio trasportato di corsa attraverso un campo arato. Come diavolo mi è venuto in mente un paragone del genere? Notò come i tre grandi lembi di carne della valvola attraverso la quale lui e Redz erano precedentemente entrati cominciassero a fremere, lasciando filtrare, a brevi intervalli, l’ormai familiare colore biancastro dell’ambiente esterno. Redz, schiacciato con i suoi compagni contro la parete opposta all’apertura minacciosa, ricominciò a comunicare ma l’umano, che con terrore fissava la valvola con i suoi tre triangoli frementi, aveva già capito. Ma non aveva capito tutto. Sì, aveva capito che il Massacracolori era arrivato al nucleo romboidale e che stava per rigurgitarvi dentro tutto il contenuto del suo lurido ventre. L’umano pensò che sarebbe stato trasformato in nutrimento semiliquido per quelle flaccide e umide mummie biancastre che, più o meno indirettamente, aveva già più volte incontrato. Quello che non aveva capito, o meglio, quello che forse aveva dimenticato erano le disposizioni che gli aveva dato Redz pochi attimi prima. Sì, forse sentiva qualcosa che bussava alle porte sprangate del suo cervello quasi cementato dal terrore, qualcosa che cercava di insinuarsi attraverso le serrature e i grimaldelli ormai attaccati dalla ruggine di un’angosciosa assenza. "...ea..." Che diavolo è? "...rea..." Dicono a me? "Creaaaaaa, bastardo terrestre, creaaaa..." Sì, dannazione, dicono proprio a me. I tre triangoli carnosi si spalancarano di colpo e tutto il contenuto gastrico, l’umano, Redz e i suoi compagni, fu travolto da un a sorta di appiccicosa tromba d’aria. L’umano, allora, creò.

17

Volle essere un poeta, un poeta del futuro. E fuggì nel futuro. Pensò a un maniero di vetro ed acciaio circondato da sconfinate foreste vergini, su un pianeta lontano. Lavorava giorno e notte ad interminabili poemi che cantavano il futuro. Sì, aveva sentito che, in altri mondi e migliaia di anni prima, l’arte cantava le grandi imprese del passato e ci aveva provato anche lui all’inizio della sua carriera, così, per vedere che cosa ne sarebbe venuto fuori. Ma non aveva funzionato, Dham Ghekdlo’ voleva il futuro, era ossessionato dal futuro, dalla sua tecnologia, dalle sue imprese interplanetarie. I suoi versi indugiavano sempre sugli spazi siderali, sul cosmo, sui colori delle stelle, su epiche fantasie di pianeti sconosciuti, sulle scie di fantastici velivoli argentei.

18

Per l’umano non era facile mantenere il ruolo di Dham. Sì, gli piaceva molto ed era anche stupito della rapidità con cui lo aveva creato, ma quella schifosa tromba d’aria gli impediva di concentrarsi sulla sua creazione. Redz e gli altri erano per il momento riusciti ad attaccarsi alla parete superiore del grande stomaco per risentire il meno possibile degli effetti dell’aria (ma c’era forse aria?) turbinante ed un forte sgolgorio intermittente di ognuno di loro lasciava intendere che stavano raccogliendo e organizzando le loro forze.

19

Conosceva bene la leggenda delle foreste meccaniche, l’aveva spesso cantata nei suoi poemi ed aveva anche sognato e desiderato ardentemente il suo realizzarsi. In fondo era un poeta, che c’era di strano che sperasse nella realizzazione di una leggenda? Un poeta può farlo, un poeta può permettersi di sperare tutto, di cantare tutto, di credere in tutto, di voler rinascere in tutto. Certo, può permetterselo, ma può permettersi anche il contrario. Ma quest’ultimo non era il caso di Dham. Lui era per tutto.

Nuoto in un oceano
di spicchi di pianeti verdi
e mi ricostruisco l’anima e il corpo
con frammenti argentei
di foreste stellari.

Aveva voglia di foreste, tutte quelle che aveva intorno al suo palazzo non gli bastavano. Guardarle, respirarle, viverci in mezzo non era sufficiente: la contemplazione è separazione. Dham era stanco di contemplare, voleva essere parte di quelle foreste, impastarsi con loro, farsele crescere dentro, superare i confini impostigli dal suo corpo sfrecciando e scivolando da una foglia all’altra, fondersi con le linfe verdi...

Dall’alto scenderanno
le foreste meccaniche,
tremerà la terra al loro avanzare,
eserciti di foreste
riedificatrici della fusione
verde;
il metallo maeccanico non sarà metallo
ma legno impastato
di grida e bramosie verdi
da pianeti-cervello-
anima cosmica.

Dham conosceva a memoria i versi della Leggenda delle Foreste Meccaniche. Molte volte, durante le sue giornate di lavoro, gli tornavano in mente, quasi a costellare la sua interminabile e infaticabile ginnastica poetica.

20

Forse Redz aveva ragione a proposito dell’importanza del creare. Il risucchio, nello stomaco del Massacracolori, sembrava aver perso di intensità. L’umano notò che Redz e i suoi compagni multicolori stavano ricominciando a discendere dall’enorme volta della parete superiore dello stomaco dell’essere, dove si erano rifugiati per risentire di meno del turbinio che si sprigionava dalla carnosa valvola circolare aperta. Qundo furono a mezz’aria, Redz smise di lampeggiare, e quello fu il segnale. L’eroica squadra di brandelli colorati si dispose allora in cerchio ed il cerchio cominciò a girare. Girò sempre più veloce, finché la differenza tra i colori dei diversi brandelli che lo componevano sembrò essersi annullata. Sì, il cerchio di brandelli si trasformò in un anello verde fluorescente. Verde, il colore dei colori, il colore di Redz, il colore della creatività. L’anello cominciò a volteggiare in tutti i sensi fino a che, avvicinatosi all’umano, gli scomparve sotto la tuta, come se ne venisse lentamente assorbito. Si erano fusi insieme.

Una strana luce sembrava fendere, seppur debolmente, quell’enorme risacca bestiale. Non era la luce che veniva dalla valvola spalancata, l’umano ebbe piuttosto l’impressione che stesse filtrando attraverso le pareti dello stomaco del Massacracolori, come se queste stessero perdendo di consistenza, come se si stessero assottigliando.

21

La parte della Leggenda che Dham amava di più era la descrizione della scelta dell’eletto che avrebbe dovuto condurre l’esercito di foreste meccaniche verso la fusione con le foreste naturali, fusione che avrebbe dato la facoltà, a chiunque lo avesse voluto ed avesse avuto la sensibilità per meritare un tale privilegio, di potersi dissolvere nella linfa vitale di quelle enormi querce, di viaggiare attraverso le loro foglie, di nutrirsi fisicamente della loro essenza e di rinascere continuamente in essa.

Quando l’esercito celeste delle foreste
sarà appieno giunto ai confini del nostro verde,
allora dalle foglie meccaniche
si innalzerà una tempesta di esseri azzurri
che adorneranno i cieli e li renderanno
drappi preziosi di poesia universale;
intoneranno poi l’inno
vivificatore delle foglie,
in cerchio danzeranno
intorno al verde,
ed un’euforia di altri mondi
trasuderà dai loro riti.
Ma soltanto uno di noi
godrà delle sfarzose feste,
soltanto uno ne udrà il richiamo,
soltanto uno comprenderà
le litanie festose dei reggenti del cosmo
e i loro multicolori canti propiziatori.
Colui che udrà sarà l’eletto,
colui che vedrà guiderà la rinascita.

Condurre le foreste meccaniche verso la loro meta, filtrare e diluire il pianeta nelle loro linfe. Dham si vedeva alla testa di quell’esercito, vedeva gli esseri azzurri, sentinelle ultracosmiche, fluttuare, inquieti ed euforici, su quell’immensa distesa verde marciante nel verde, vedeva l’armata delle foreste che si era messa ai suoi ordini e vedeva sé stesso, potente condottiero mille volte rinato, unico detentore di una leggenda realizzata, unico padrone della salvezza.

22

L’umano pensò che, in fondo, la storia di Dham aveva qualcosa in comune con la missione che egli stesso doveva compiere. Certo, Dham non stava rischiando quello che stava rischando lui, non era solo contro un universo in rivolta e sull’orlo del collasso psico-fisiologico. La missione del poeta era voluta e sostenuta da forze cosmiche positive che chiedevano solo di essere guidate in una missione il cui esito non sembrava rischiare di essere compromesso.

La luce, là nello stomaco della bestia, si era fatta più intensa. Il risucchio era cessato, ma in compenso le pareti della creatura avevano cominciato ad agitarsi convulsamente.

"Si sta collassando, si sta collassando!" La voce mentale di Redz gli giunse inaspettata. Fin da prima che cominciasse il processo che avrebbe portato alla fusione dei brandelli colorati con il corpo dell’umano, Redz non si era più fatto sentire, ed ora quel silenzio veniva interrotto da un grido di allarme. L’umano ebbe voglia di mandarlo al diavolo con tutti i suoi allarmismi. Ma poi si accorse che, come sempre, non si trattava di un semplice e gratuito allarmismo. Le pareti laterali e quella superiore gli erano molto più vicine di quanto non lo fossero solo pochi istanti prima.

"Si sta collassando, si sta collassando!" gridò il povero umano detto anche ricostruttore. Le pareti molli, che fino a pochi istanti prima avevano racchiuso lo stomaco della grande bestia virulenta, lentamente si ripiegarono su loro stesse e, come piatti di plastica gettati nel fuoco, si accartocciarono sul loro contenuto, l’umano, trasformandolo in una sorta di mummia marroncina. Sì, quell’essere enorme si era ridotto ad una sottile membrana che ora fasciava il corpo dell’umano fuso con una parte di colori mentali dei Khürs. La mummia marrone volteggiò per qualche istante nel liquido biancastro, poi, dato che niente ormai lo impediva, fu risucchiata nel rombo grigio.

"Continua, terrestre, continua, è l’unica speranza!"

23

Il cielo aveva assunto un inusuale colore violetto, ampie fasce luminose di color arancio lo attraversavano proiettandosi solenni oltre l’orizzonte. Le grandi facciate di cristallo delle torri del maniero di Dham accoglievano il violetto e l’arancio, li impastavano sulle loro superfici multifaccia e li riflettevano sotto forma di lembi luminosi semoventi che andavano ad estinguersi nel fresco della vegetazione lussureggiante. Dham era già da più di un’ora sulla grande terrazza del suo studio, assorto nella contemplazione del cielo. Ma contemplazione è separazione.

Violetto e arancio
tra le nubi a vicenda si orneranno,
possenti sentieri di luce
diverranno solenni piste di atterraggio
per sinfonici universi di rinascita,
e sul violetto si libreranno
sinfoniche danze azzurre
detentrici dell’oro cosmico.

24

Il baluginio, là, al limite della visibilità delle fasce di luce arancio, sembrava generato da continui cicli di esplosioni dalle quali si liberavano piogge di frammenti color smeraldo che parevano restare sospesi a mezz’aria. Era il momento, a questo punto Dham non riusciva più a dubitarne. Ce l’aveva messa tutta per convincersi che si trattava solo di una serie di coincidenze dovuta agli influssi del complesso sistema di lune che orbitavano intorno al pianeta. Ma era assurdo. Perfino per un poeta. Quando mai i satelliti sarebbero capaci di creare un effetto simile? Dham mandò al diavolo tutti i suoi dubbi forzati e spalancò il suo cuore all’attesa. Mano a mano che nuovi fenomeni si verificavano, Dham si ripeteva mentalmente i versi della Leggenda e si rendeva conto che la descrizione poetica corrispondeva perfettamente a quello che stava accadendo non lontano da lui. I frammenti verdi divennero poi azzurri e quindi cominciarono ad allungarsi, a dilatarsi. Da ogni frammento, ogni volta che si dilatava, si sprigionava una sequenza di suoni e più il frammento si dilatava, più i suoni si facevano lunghi e suadenti. Quando la serie di contrazioni e di dilatazioni terminava, i frammenti non erano ormai più frammenti ma qualcosa di ben più inquietante ed affascinante. Dham si ritrovò di fronte ad un esercito di affusolate creature azzurre. Dal loro corpo sottile si dipartivano quattro appendici dalle estremità sfilacciate e indistinte e apparentemente inerti, che sembravano totalmente in balia delle correnti d’aria; la testa era semplicemente costituita dall’estremità probabilmente superiore del corpo affusolato, il suo contorno era completamente stondato e sembrava non avere traccia del restringimento del collo (creando questo particolare, l’umano si era inconsciamente rifatto alla testa coperta da un lenzuolo dei fantasmi dei cartoni animati). Le creature, come in preda ad una magica euforia, si agitavano senza posa sullo sfondo violetto del cielo, si rincorrevano, volteggiavano, formavano cerchi, si afferravano l’un l’altro, si riunivano e tornavano a schizzare via in ogni direzione. I suoni intanto si erano trasformati in una musica soave che colmava l’immensa distesa di verde ed accompagnava le danze degli esseri volanti.

In quel momento Dham seppe che tutto ciò che stava accadendo era visibile solo per lui, era rivolto a lui, l’eletto a condottiero delle foreste meccaniche. Si precipitò in casa, accennò a una goffa piroetta e, a tutta velocità, attraversò lo studio, imboccò l’ampio e luminoso corridoio e, cantando a squarciagola brani sconnessi di solenni inni improvvisati, si fiondò verso l’ascensore. Quando le porte si furono richiuse, ansimando, regolò al massimo la velocità della cabina e si lanciò verso il settantacinquesimo piano, l’ultimo, della torre più alta del suo maniero.

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La membrana non gli permetteva di distinguere le forme di ciò che lo circondava ma solo la presenza o meno di luce. Certo, l’umano sapeva che stava precipitando, ma non era sicuro di essere finito nel rombo, non ne era sicuro per il semplice fatto che non lo aveva potuto distinguere. Ma aveva però distinto il passaggio dalla luce al buio, sufficiente da permettergli di intuire il resto. Buona intuizione. Ma si era anche sforzato di continuare a creare. Buona idea. E fu proprio mentre Dham sfrecciava verso la cima della sua torre che un rumore distolse per un attimo l’umano dalla sua frenesia creativa alla quale si era ormai disperatamente aggrappato. Uno strappo? La vischiosa membrana marrone di colpo si squarciò e dal corpo dell’umano, come da un seme, germogliò violento un nuovo mondo. Dalle sue membra si dipartirono immense foreste verdi che, lanciate in una folle corsa verso nuove conquiste, si fiondarono in ogni direzione, a colmare ogni vuoto, a riempire ogni spazio. Querce millenarie esplodevano di verde dal terreno fresco con una furia tale che sembravano voler arrivare a squarciare il cielo che si andava formando sopra di loro. Il corpo dell’umano fu invece stravolto dall’aprirsi di un’enorme voragine rivestita di terra nera che subito prese a vomitare strutture geometriche di vetro e cemento, anch’esse lanciate verso l’alto, in una folle competizione con le querce, in una corsa vertiginosa al limite tra visione e ironia cosmica. Così dal corpo del povero umano esplose un mondo nuovo, un mondo impazzito dalla brama di salvezza, assetato di vita, di colori, di sogni da imporre a chi li rifiuta e li disprezza. Quel mondo esplose nello Squarcio Asettico, ne frantumò le vischiose ossature e i soffocanti sbarramenti e ridusse il buio biodistruttivo del rombo e il grigio delle sue pareti ad una minuscola tana di vermi sprofondata tra le radici di querce secolari e l’oceano di marciume biancastro ad una volgare pozzanghera fangosa perduta tra le foreste rigogliose. Intanto le forme geometriche di vetro e metallo continuavano la loro corsa verso il cielo ma non competevano più contro la cima delle querce, ormai definitivamente superata, bensì con il velocissimo ascensore di Dham. Sì, la torre dell’umano-bosco-maniero si era insinuata nella torre del castello di Dham e ne stava raggiungendo la vetta, o meglio, vi si stava fondendo dentro, le stava infondendo vita, la stava trasformando in mondo reale.

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Il visualizzatore indicò che l’ascensore era arrivato al settantacinquesimo piano. L’umano-foresta-maniero-poeta Dham schizzò sulla terrazza e fu estasiato dal saluto solenne delle foreste meccaniche. Sospese nell’aria, di fronte al lui, due enormi distese di alberi tra il rosa-violetto e l’indaco-fuxia, i cui tronchi e chiome, di un materiale che ricordava il cristallo, riflettevano i colori del cielo, quasi impastandoli con i riflessi verdi delle foreste sottostanti. Intorno a quelle foreste aeree aleggiavano, sempre più presi dal vortice delle loro danze sbarazzine, gli sterminati eserciti di fantasmi azzurri che, tra una piroetta e l’altra e tra una corsa folle in mille direzioni e un salto che li faceva scomparire per un attimo oltre le nubi, si soffermavano di fronte a Dham, gli indirizzavano un gran sorriso con la loro bocca a metà strada tra l’inesistente e lo sconfinato, e gli rivolgevano poi un profondo inchino prima di ricominciare a schizzare follemente per ogni dove.

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Galleggiava nell’aria, ma questa volta sostenuto da due fantasmi azzurri che lo conducevano verso le foreste aeree. Nel momento in cui Dham-umano toccò quel suolo cristallino e sgargiante sentì le membra rilassarglisi completamente. Tutto intorno a lui si fece senza fine.

"Ce l’hai fatta! Tutto questo è tuo!" Redz era seminascosto dalle foglie violette di un degli alberi e Dham-umano stentò qualche istante ad individuarne il colore verde. "Tutto è salvo ora e tu sei Dham. Vedi quella foglia?" L’attenzione di Dham fu richiamata da una grande foglia color indaco particolarmente ricca di nervature se confrontata con quelle che le stavano vicine.

"Tu potrai essere quella foglia ogni volta che lo vorrai. Potrai essere quelle nervature, fonderti in loro e rinascere e rigenerarti infinite volte perché grazie a te tutte le foreste dell’universo apriranno le loro nervature a tutti coloro che ne saranno degni, a tutti coloro che avranno creato, che creeranno e che fremeranno per il desiderio di creare, a tutti coloro che rifiuteranno lo Squarcio asettico, il marciume biancastro, i Glar, i Massacracolori, i rombi grigi, le mummie in ibernazione gelatinosa. Ma ricorda, non è l’immortalità che vi è concessa, mortali di tutti i mondi, ma la possibilità di essere arte e natura fuse insieme.

Ora devo lasciarti, la mia esistenza come entità indipendente è fortunatamente finita. Torno ad essere parte dei colori mentali dei Khürs e con loro a tutelare la stabilità creativa dell’universo mentre tu tornerai nel tuo mondo, sulla tua cara Terra. Ma ora guarda, guarda laggiù, tra le foreste, sul tuo maniero, tutta la festa è per te."

Dham guardò oltre il limite del suolo su cui si trovava, verso il basso. Vide il verde della foresta costellato da un’infinità di luminosi punti colorati che aumentavano e diminuivano la loro intensità come per salutare. Erano i compagni di Redz salvati nel Massacracolori. Il Ricostruttore (ora sì, Ricostruttore) sorrise. In una radura, poco distante dal maniero, Dham riconobbe una moltitudine di piccoli triangoli azzurri, anche loro lampeggianti di riconoscenza. Poi guardò verso il maniero. Non c’era più. Al suo posto un gigante argenteo, della stessa altezza della torre di settantacinque piani. Certo, la differenza era notevole rispetto all’enorme creatura smembrata e semiputrefatta con cui si era incontrato dopo essere finito tra le arcate piastrellate di bianco, ma ciò nonostante Dham-Ricostruttore non ebbe alcun dubbio: quel gigante era l’Universo. Questo non disse niente, accennò soltanto un sorriso di riconoscenza, si portò una mano al petto e con la testa accennò un inchino. Fu un saluto a Dham, ma anche un segnale affinché la grande macchina universale si rimettesse in funzione. Allora i compagni di Redz schizzarono via dalle loro posizioni sparse nella foresta, si gettarono sui Khürs e vi scomparvero. Tutto il mondo aereo, compresi i fantasmi azzurri, si fuse con le foreste verdi, i Khürs si levarono in volo, raggiunsero il gigante e vi si dissolsero. E l’Universo, il povero Universo, finalmente solo e stanco di tante traversie, si distese sul suo letto stellato e si rimise a sognare.

Finito il 3 luglio 1997

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